Alessio Chiadini Beuri: Ragnarock

venerdì 15 novembre 2019

Ragnarock




Ragna Rock era il club privato di Lupino. Un bazar della droga all’interno di un vecchio teatro. Sapevo quello che mi avrebbe atteso all’interno: squilibrati strafatti capaci di esplodere in atti di violenza senza senso.
Oltre alla guardia personale di Lupino. I killer più spietati in circolazione.
RagnaRock era invitante quanto un’emicrania perforante, con il suo assalto di luci e musica senza inizio né fine.
Il cuore del locale era un’area ricreativa gotica con giochetti sadomaso e un sacco di altre degenerazioni simili. Penetrante col suo subdolo messaggio oscuro come un proiettile nel cuore.
Nel nome del padre, nel nome del figlio, nel nome di Jack Lupino.
Trovai la strada spianata dal primo passo nel quartiere a quello nel suo club.
Dato che era la prima volta che mi capitava quella notte, lo trovai singolare. Avrebbero potuto seccare lo sbirro alla porta, fargli schizzare via il cervello dalla testa, levarsi il proverbiale cazzo dal culo senza pensarci troppo. Ma non accadde. Se non fossi stato ottenebrato agli antidolorifici che avevo tracannato avidamente, avrei sentito probabilmente il dolore penetrante della delusione cocente.
Il lato del guardaroba, subito a destra dell’ingresso, era sgombro e privo di pericoli. Lupino era a un passo, lo sentivo. C’era qualcosa di impalpabile nell’aria, una patina che la rendeva pesante e irrespirabile. La sentivo addosso come una coperta.
Anche il grande atrio era deserto. Deserto e avvolto in un’oscurità tenuta lontana solamente dalle fiammelle tremolanti di alcune candele. Non potevo credere che Lupino si fosse sniffato anche il denaro delle bollette e avesse dovuto ricadere su uno stile pre-rivoluzione industriale. Sembrava una di quelle case stregate che si trovano alle fiere di paese. Aspettavo da un momento all’altro l’inizio della giostra: fantasmi di cartone che spuntavano dagli angoli, grida registrate, ghiaccio secco a tonnellate e sciroppo di lamponi a gocciolare dai lampadari. Distinta ma lontana, una noiosa nenia. Poteva essere il vento.
Proseguì nella battuta di caccia al Lupino e mi infilai in una stanza sulla sinistra. Per stanare una colonia di topi di fogna di solito preferivo partire dalla periferia e non lasciarne indietro nemmeno uno. Quell’uno che mi avrebbe con molta probabilità finito per sparare in mezzo alla schiena.
Giunsi a un magazzino di alcolici che somigliava più alla cantina di una vecchia enoteca.
Non c’erano candele ma la luce era soffusa e inefficace a combattere con autorevolezza l’oscurità imperante. Scansie a parete e portabottiglie impolverati circondavano un grosso tavolo di legno. Sopra di esso un libro, la copertina in pelle mordicchiata dal tempo e dall’umidità.
A giudicare dal luogo era sorprendente che qualcuno avesse anche solo mai pensato di leggere qualcosa. Il libro era intitolato “L’età della morte e della tempesta”.
Lo sfogliai.
Parlava dei miti nordici e del Ragnarok, giorno in cui, secondo le credenze vichinghe, sarebbe giunta la fine del mondo. La terra si sarebbe ricoperta di ghiaccio e gli uomini avrebbero perso il loro ultimo barlume di umanità.
Compresi come qualcuno potesse pensare che stesse davvero arrivando la fine del mondo. E, al tempo stesso, iniziavo a capire quale fosse il vero significato di un locale del genere.
Ma qualcosa mi diceva che non era sufficiente una spolverata di inverno per trasfigurare gli uomini in diavoli. La verità, quella cruda e spietata, era che gli uomini, mostri lo sono stati sempre, fin dal loro principio. Qualsiasi tempo il Signore avesse deciso di mandare giù.
Le favole della buonanotte vanno bene finché la realtà non viene a farti visita, senza preavviso.
Il mondo è il vero mostro nascosto sotto il letto e quando ti afferra per il piedino che hai lasciato incauto a penzolare e ti trascina giù con sé, non basta più tirarsi le coperte fino al mento e sperare che passi. Puoi solo illuderti che quel momento arrivi il più tardi possibile.
Ma arriverà, prima o poi, questo è certo.
Potrebbe avere il volto deformato dall’alcol di un padre che torna a casa ubriaco e incazzato con la cinghia arrotolata nel pugno; potrebbe indossare la targhetta e la cartellina sottobraccio di un assistente sociale; potrebbe avere una pistola e sedere nel banco vicino al tuo, aspettare che tutti si mettano a sedere e l’insegnante inizi la lezione; potrebbe avere il sorriso suadente di un amico che ti porge mezzo grammo di roba al parco giochi oppure potrebbero essere tre squilibrati strafatti che penetrano in quel nido che avevi faticosamente costruito, in cui avevi promesso che sarebbero state al sicuro per sempre, e fare a brandelli la tua vita come un foglio di carta.
Abbandonai quella lettura allegra e me ne andai.
Il magazzino di alcolici dava sul retro di una postazione bar di una della sale-concerto del RagnaRock, la quale poteva arrivare a contenere almeno duecento individui sudati e ingrifati che si strusciavano uno addosso all’altro. In quel momento era vuota.
L’ambiente si sviluppava come una vecchia cattedrale gotica: un’ampia navata centrale e due più piccole ai lati, delimitate da altrettante file di colonne. Imponenti, fendevano l’alto soffitto a dieci metri sopra la mia testa. Delle reti da pollaio erano state fissate tra un arco e l’altro. Un gigantesco occhio azzurro dipinto sopra l’architrave principale dominava su tutto. L’impianto luci, re degli effetti stroboscopici delle serate a base di musica techno e malattie veneree, era sospeso sulla pista mentre un soppalco di legno correva lungo le tre navate con il suo strascico di fili elettrici, corde arrotolate come serpenti e jack penzolanti. Murales e lucine intermittenti completavano il quadro.
In fondo alla navata principale, al limitare del palco, fiammate di scena incendiavano il buio. Candele e candelabri in ferro battuto in arzigogoli sinistri, davano all’insieme un sapore di messa satanica.
E non c’è messa satanica senza una vittima sacrificale.
Probabilmente mi aveva scambiato per il suo capro espiatorio l’uomo che spuntò dal buio del soppalco riversandomi contro un rosario di piombo.
Riparai dietro il bancone mentre bicchieri e bottiglie andavano in frantumi e l’alcol schizzava dipingendo arcobaleni. Sparai per fargli compagnia ma il proiettile sghettò una delle colonne portandosi via un pezzo di spigolo e ne persi la traiettoria. Dal tipo uscì un gemito infelice. Mentre alzavo la testa per guardare, l’uomo si sporse oltre la balaustra tenendosi la spalla con una mano. Volò giù con un carpiato magistrale prima che potessi dirgli di stare attento al gradino. Il tonfo spaccato che il suo corpo produsse fu quello di un sacco di carne lacerata e rami spezzati dal vento.
Il rumore non portò nessuno dei suoi compagni ad affacciarsi per vedere se fosse rimasto qualcosa da mettere dentro una scatola e, nell’eventualità, spararmi. Fui io ad andarli a cercare, i guai. 






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