Alessio Chiadini Beuri: giugno 2015

martedì 23 giugno 2015

Tienimi più vicino, stringimi più forte.


Per il godimento di questo episodio consigliamo: Same old lang syne - Dan Fogelberg





Nella puntata precedente: Garcon

«Quand’è allora che glielo avrebbe chiesto?»
«Prima che voi arrivaste: non è riuscito a trattenersi. Cecilia non ha avuto nemmeno il tempo di andare in bagno per aggiustarsi il trucco.»
«Perché mai? Parlo di sistemarsi il trucco, non della lassità dell’elastico della mutanda verbale del Gitano. Non si era truccata a casa?»
«Il punto è controllare che sia tutto in ordine prima di sedersi di fronte ad un’altra persona per almeno due ore.»
«Capito. Cioè, no. Voglio dire: cosa mai potrebbe essere successo durante il tragitto?»
«E’ una cosa che ci mette a disagio. E poi ci sono certi tizi che quando si accorgono che hai qualcosa fuori posto non smettono più di fissarti.»
«Mette a disagio anche molti uomini.»
«Anche tu?»
«Chi, io? Nah! Sono bello di natura!» dissimulo e la guardo per vedere la sua reazione: Virginia alza le sopracciglia ma abbozza un sorriso. Le donne dicono sempre che vogliono un uomo che sia capace di farle ridere. Dicono.
Si dice anche che le persone spiritose siano tra le più tristi e sole al mondo
Si dice anche che sulla Terra ci siano sette donne per ogni uomo. A questo punto mi viene il sospetto che le mie siano rinchiuse in un convento di clausura o stiano girando una gang bang. L’universo dovrebbe essere più preciso a dare gli indirizzi.



Mi beo di quel piccolo sorriso come dell’esplosione di una cometa e un pizzicorìo si fa avanti nel petto.
«E che ti ha detto?»
«Cecilia?»
«Già.»
«Dopo avergli quasi ucciso il fidanzato?»
«Quasi ucciso! Se il ragazzo ha dei problemi di masticazione non è colpa nostra. Ma sono ancora fidanzati anche se non andrà a Berlino con lui?»
«Non credo. L’ho chiamato così perché continua a sfuggirmi il suo nome.» sorrido io, questa volta. D’improvviso mi coglie il desiderio di stringerla in una tenerezza. Ma forse è il vino, un raptus ormonale, il formicolìo che ha raggiunto lo stomaco. Non è semplice ma riesco a trattenermi.
«Non mi è sembrato così abbattuto. Teoricamente la fine di una storia che sembrava avere tutte le carte in regola per essere quella giusta, o almeno una di quelle che ti chiede di metterti scarpe adatte ad una lunga camminata, come minimo dovrebbe piallarti l’anima. Lui, invece, nada. Certo che, con tutti quei tubi, non era facile capire di che umore fosse…»



«A me Cecilia ha detto che non aveva nessuna intenzione di finirla. Non provava tante cose che avrebbe voluto provare ma un fulmine non colpisce mai due volte nello stesso punto.»
«Tu credi che il fuoco dell’amore improvviso possa coglierti solo una volta nella vita?»
«Nel senso di tutto e subito?»
«Nel senso di sentirsi ubriachi.»
«Credo di sì.»
«Ma ci si può ancora innamorare?»
«Fai un sacco di domande.»
«Troppo tempo con Zanna, scusa.» mi chiudo in uno sguardo colpevole chiedendomi perché mi sento come un cazzo di adolescente.
«Credo che ci si continui ad innamorare. Cambia solo il modo. Il giorno prima non c’era niente e il giorno dopo, invece, eccolo lì, come se ci fosse stato da sempre.»
Chissà se sta pensando a quello che è capitato a lei. Chissà se ha capito che è la stessa cosa anche per me. Certo non si aspettava quel bacio al ristorante. Un bacio sulla guancia, un bacio casto, un bacio che fosse espressione di un bene, un augurio di cose belle. 
Zitti un po’, so di non aver fatto questa gran cosa, tra l’altro sapendo già che è innamorata di me ma ogni cosa deve seguire il suo corso. Un bacio non maturo è l’equivalente della recluta che si spara in un piede: non ti fa nemmeno ridire, ti fa solo dire “Zio, ma sei un coglione!”.



Passeggiamo dentro una sera mite. Zanna e gli altri sono tornati in auto, noi abbiamo preferito andare a piedi. La scusa che ho abbozzato è che non ci saremmo stati e Virginia ha assentito con il silenzio. Devo dirlo: anche quel silenzio mi è piaciuto. Me lo sono goduto. Volevamo la stessa cosa e la volevamo nello stesso momento. Tra il mio corpo e il suo c’è poco meno di una spanna ma in quello spazio l’aria è percorsa da una vibrazione che ci unisce. Forse è il desiderio di incontrarsi che hanno i nostri corpi. Le mani, che oscillano lungo i fianchi, ogni tanto si sfiorano per sbaglio e più si toccano più iniziano a gravitarsi attorno. È un avvicinamento lento, di chi fa piano, di chi l’attesa la subisce e teme di privarsene.
«Non sapeva che non voleva stare con lui finchè non le ha chiesto di trasferirsi insieme a Berlino?»
«Più o meno.»
«Certo che la vita a volte è stronza: uno ha intenzione di fare il grande passo nello stesso momento in cui l’altro non desidera che andarsene a casa.»
«No, la vita è sempre quella. Sono le persone ad essere strane: non sai mai cosa aspettarti.»
«Però puoi resistere abbastanza da scoprirlo.»
«Peccato che non ne valga quasi mai la pena.»
«La tua fiducia nella fallibilità del genere umano è incrollabile.»
«Mi baso su quello che ho visto e fino adesso le sensazioni che ho avuto su qualcun altro si sono sempre, puntualmente, verificate.»
«E mai confutate?»
«Mai confutate.»
«Non saresti qui, in quel caso.» butto là, come un pallino di carta sputato da una cerbottana da una parte all’altra della classe. Le stradine del centro sono tutte uguali e guardandomi attorno mi rendo conto di aver perso la cognizione del tempo e dello spazio. Casa potrebbe essere ad un centinaio di passi o a miliardi di galassie di distanza. Quando, però, tutto quello che vuoi è essere dove già sei, il resto finisce per perdersi in un orizzonte sfocato. Le punte delle dita di Virginia si avvicinano alle mie: chiedono il permesso di fermarsi un po’, magari restare. Sono io a finire quello che lei ha cominciato: un tocco leggero non basta a togliermi la sete. La mia mano risponde alla sua e, dopo averla esplorata avidamente, la avvolge in un abbraccio. I palmi nudi si danno il benvenuto. Ci teniamo per mano ma è come se ci fossimo spogliati ed ora non osiamo che guardarci negli occhi. Non c’è niente che ricordi la prima volta che le ho preso la mano, quando ho mancato l’appuntamento con l’inquilina del terzo piano: ha un sapore che non appartiene ad altro che abbia già incontrato.



«A volte cerco di immaginare com’eri da bambina.»
È un tipo di domanda che mi capita di fare spesso: vedere che bambini si è stati aiuta a capire quali sfide la vita ci ha chiesto di affrontare. Non c’è niente di più puro, sincero e genuino del cuore di un bambino perché è libero di tutti gli artifizi sociali e convenzionali che ci si attaccano addosso e siamo costretti ad indossare per essere accettati, voluti, desiderati. O almeno serve per essere sicuro di non avere davanti il prossimo Jeffrey Dahmer.
«Bhè, mia mamma userebbe il termine “vivace” ma ai suoi occhi anche Lucifero sarebbe un birichino, se fosse suo figlio.»
«Eri una furia?»
«Ma no! Solo che ero incapace di stare ferma. Non ho visto un cartone animato in vita mia.»
«Che infanzia triste.»
«I miei ci provavano ad imbambolarmi davanti alla tv ma da quando ho imparato a camminare i nastri delle videocassette si consumavano per la gioia di nessuno.»
«E d’inverno?»
«Il freddo e il caldo, il sole o la pioggia non hanno mai fatto differenza: avevo bisogno di muovermi, cercare, esplorare. Meglio un cielo nuvoloso che un angolo pieno di giocattoli.»
«Pensare che per non perdermi nemmeno una puntata di Willy, il principe di Bel Air, io ho smesso di andare a lezione di canto!»



«Cantavi?» Virginia è visibilmente meravigliata.
«Lascia stare. Eravamo un coro. Mi si sentiva appena.»
«Ma sotto la doccia no!»
«Ahia…! Hai qualche richiesta particolare! Qualche brano preferito da mettere in scaletta?»
«Bha, lo sai che per me la musica è un sottofondo.»
«Un sottofondo allo studio!» no, a dir la verità lo ignoravo proprio. Per me la musica è ossigeno: ne ho un bisogno smodato, viscerale, vitale. È l’unica cosa che fa andare testa e corpo in armonia. Se non fosse per lei non sarei altro che un Pippo maldestro che gira a cazzo nella propria vita, inciampando nei propri lacci e mettendo sempre il piede su qualche pattino in cima alle scalinate più ripide. Ascolto musica anche quando studio anche se credo sia più sincero dire che, a volte, quando ascolto musica, mi capita di studiare.
«Non sfottere. Ho ancora di fronte a me almeno dieci anni di studi mentre tu potresti laurearti nel giro di sei mesi!»
«Ah, uno ti aspetta e questi sono i bei ringraziamenti?! Domani vado dal relatore.»
«Domani è domenica.»
«Vedi? Io ci provo ma l’universo è contro di me.»
«Scrivigli una mail.»
«Troppo impersonale.»
Nel mio palmo riesco a sentire il battito del suo cuore. Le nostre mani si tengono al caldo. 
Lasciati alle spalle gli intricati vicoli del centro ora attraversiamo un largo piazzale, tutto nostro. Virginia, presa da un momento di esuberanza che non è da lei, sale sul bordo di una delle aiuole cercando di camminarci restando in equilibrio. Io continuo a tenerle la mano nell’illusione di sostenerla ma la realtà è che non ne avrebbe bisogno. Sembra che si tenga in equilibrio da tutta la vita.



«Da piccola ero molto più brava ma ci so ancora fare.» la voce è divertita.
«Non te le cavi male. Vai, sei senza rete ora!» faccio per lasciarle la mano ma lei, per non abbandonarla, si sbilancia ed è costretta a fermarsi. Virginia si appoggia a me, le mani sulle spalle. Per un frammento d’istante soltanto rimaniamo a guardarci ma basta quello a dirmi di baciarla. Ma vacillo ed aspetto quel poco che basta ad essere troppo. Quando mi rendo conto che c’è una finestra di opportunità l’attimo se ne sta già correndo lontano facendomi il gesto dell’ombrello. Lascia però un rimpiazzo, la merda, bisogna dargliene atto: uno statico momento di imbarazzo in cui lei si domanda: “Bhè, allora?!” e tu senti le voci di tutti i tuoi amici, del professore che veneri e che seguiresti anche se dovesse trattarsi di recuperare un idolo d’oro o la coppa del figlio di un falegname, di Bruce Cambell che ti straccia la patente di guida in stato ormonale e ti rispedisce, deluso, alla pre-adolescenza. 



Quell’istante sembra eterno ma dura solo un attimo: quando Virginia salta giù riprendiamo a passeggiare senza che i piedi conoscano la strada.
«Io sono per il fai-da-te.» dico, ed è solo per poco che i denti non tranciano di netto la lingua. Virginia non sa che dire, o come rispondere a tanta sfrontata sincerità. Per fortuna il pensiero, espresso in un’esecuzione merdosa e ansiogena, è più articolato. «Passavo la maggior parte del mio tempo da solo, quando ero piccolo. E che tu mi mettessi in mezzo al verde o rinchiuso in un sottoscala a Little Whinging, per me non faceva la minima differenza.»
«Mi sa che se ti avessi conosciuto allora avrei pensato che fossi strano. E ti avrei rotto le scatole a morte.»
«E la differenza dove starebbe?» le apro la porta del mio sorriso sperando che lei si affacci con il suo.
«Avrei cominciato prima. Ottimizzare i tempi è fondamentale.» Adesso. Baciala adesso.
Camminando arriviamo all’entrata del parco. Lo stesso in cui una volta ci abbiamo perso Zanna. che non era davvero lì, perché si era allontanato per una pisciatina e gli è successo di tutto. L’ingresso è un sottopasso, decorato da centinaia di frammenti di specchio illuminati dalla flebile luce di vecchi faretti. Dondolando le braccia, legate dalle mani unite, ci fermiamo appena prima di inoltrarci in quel buio di riflessi. La nostra attenzione è catturata da uno dei graffiti che campeggiano sull’arcata della galleria.



«”M+G 07/04/10 L’INIZIO DI UN SOGNO”» leggo per entrambi.
«Sarà così?»
«Chi può dirlo. Sono passati cinque anni. Chissà dove sono adesso Maciste e Giliberta.»
«Giliberta? Giulia non poteva essere?»
«Non è una G da Giulia. Fidati.»
«Chissà se la pensano ancora così.»
«Chissà se uno dei due, quando passa da qui, guarda ancora in alto.»
«Magari stanno ancora insieme. Non possiamo saperlo.» regnano le fantasie felici, questa notte. Non c’è spazio per pensare alle probabilità che una scritta su un muro non sia riuscita a rendere indelebile quella tempesta di emozioni così come il suo autore aveva sperato. Non c’è motivo di chiedersi se per caso M si sia rivelato una merda o G si sia comportata da stronza. Non ci domandiamo quante lacrime siano state versate né se le difficoltà abbiano prevaricato il bene che si volevano. Adesso riesco solo ad augurarmi che ce l’abbiano fatta, anche nella certezza che M e G fossero niente più che ragazzini e che non desiderassero altro che far sapere al mondo intero che tesoro avessero scoperto. Già, non è ad esclusivo appannaggio degli adolescenti la voglia di gridare a tutti la propria felicità. È un bisogno che resiste alle età.
La vita non va sussurrata.
«Certo è che lui dovesse essere uno stangone mica da poco: io non ci arrivo sicuro a scrivere lassù!» me ne esco con questa stronzata e mentre Virginia scoppia a ridere mi spinge via. Compiacendomi di aver fatto breccia in lei ancora una volta aspetto che torni da me. È una risata gustosa quella che arriva alle mie orecchie: una di quelle che esauriscono tutta l’aria e che ti costringono a tenerti la pancia. Adesso Virginia ha le lacrime agli occhi e qualche eco di risata fa ancora capolino vanificando i suoi tentativi di tornare seria.
Dovrei baciarla. Devo baciarla. Adesso.
Mi dico mentre il mio spirito trema solo al pensiero di ciò che desidero e che non conosco ancora.
Dovrei baciarla, okay, ma se quando mi avvicino per farlo lei si ritrae, io come accidenti riporto a casa la pelle?
Se avessi solo una possibilità per farle dare il suo ultimo primo bacio e toppassi di brutto?
Non voglio ritrovarmi a fare l’imitazione del tonno appena pescato, a boccheggiare appeso ad amo invisibile nella notte che si fa beffe di me. 
Trovo solo la forza di metterle una mano sul fianco.
Sento il calore del suo corpo scivolare lentamente verso di me; il suo profumo, solo suo, darmi dolcemente alla testa.
Di fronte a me non c’è più la ragazza che è venuta ad abitare con noi due anni fa: Virginia non è più la coinquilina ligia al dovere, matta per lo studio, il silenzio sepolcrale durante le sessioni d’esame, la sclerosi nervosa, gli occhi che uccidono, il rimprovero tagliente. Lo so che è ancora tutto questo ma io non lo vedo più, è lentamente scomparso in lontananza.
Dovrei baciarla ma non lo faccio. Un  comportamento da vero macho latino, da pirata, da uomo che saccheggia il cuore di ogni fanciulla per poi lasciarle prosciugate di ogni forza ma piene di sbrodoloso zerbinaggio. Senza toccare niente, muovere un capello, liberare un sospiro starei a fissare questo momento per giorni. Non vorrei infrangere l’incantesimo di qualcosa già così perfetta. Voi pensate cosa potrebbe succedere si ci mettessi una cosa enorme come un bacio. Per questo il braccio attorno al suo fianco le suggerisce di seguirmi, a ritroso sulla strada da cui siamo venuti. Non mi riesce di indovinare cosa stia pensando, cosa si aspetti. Potrei chiederglielo, eggià, ma se fossi stato così intelligente avrei anche trovato il modo di vincere la mia testadicazzaggine per darle quel bacio che mi pulsa sulle labbra.
Di tanto in tanto ci lanciamo degli sguardi. A volte sento che mi sta osservando, così mi giro; altre lo faccio io.
Siamo sulla via del ritorno e dentro di me c’è un sacco di musica: un carosello di fanfare, un frullato mescolato non agitato di videoclip anni ’80, una brezza di ballate rock e una spolverata di sentito, profondo instrumental. Non sto perdendo il contatto con la realtà, giuro. Le sto dando ritmo. Si è inserito il pilota automatico. Il mio John Williams personale si sbraccia come un pazzo.



Cammino verso l’alba di un giorno che non so come sarà e nelle orecchie risuonano i versi dei poeti, dei Dylan, dei Clapton, dei Collins, dei Mercury, dei Lennon, degli Elton. Sono in buona compagnia, qui dentro. Davvero magnifica. Accanto a me, però, forse è anche migliore.
La strada finalmente è quella giusta: ci riaccompagnerà a casa. Il nostro vagabondare nella notte alla ricerca di noi stessi si risveglia ai bagliori familiari della via illuminata che ci porta alla magione. Mi piacerebbe passarle di fronte senza imboccarne il vialetto e continuare a passeggiare insieme a Virginia ma ogni cosa è destinata a finire. Un attimo che si spegne e muore non deve per forza portare dolore, malinconia o rimpianto. A volte serve per conservarne la bellezza, per apprezzarlo, per concedergli il valore che merita.
Bisogna andare avanti.
Così ha termine la nostra serata, il nostro primo appuntamento.
«Eccoci qua.» dico, ai piedi della gradinata. Virginia è salita sul primo e ora i nostri occhi sono allineati all’orizzonte.
«Già.» risponde senza aggiungere altro. Mi guarda ma dopo un attimo i suoi occhi si ritraggono dai miei. Ci stiamo ancora tenendo per mano. Il mio polpastrello ne accarezza piano il dorso.
«Ci siamo.» ribadisco mentre le chiavi del portone tintinnano nella mia tasca. Sorrido con il mio sorriso alla Stan Laurel. 



E vaffanculo, allora. Non posso aspettare per sempre. Se non vinci le tue paure loro finiranno per consumare te. È forse quello il segnale: il momento migliore per fare qualcosa è quando temi di farla.
Non hai paura del vuoto quando ti sistemi il paracadute, ce l’hai quando il pilota ti dice che puoi andare e sotto di te vedi la terra che corre lontana.
E vaffanculo a me.
Mi tuffo su quelle labbra che desidero da tanto. Non aspetto che il suo viso si avvicini al mio e copra quel poco che manca al nostro bacio. Non aspetto perché altrimenti non potrei controllare il tremore, non sarei capace di impedire alle labbra di fremere e al petto di brillare in un’esplosione grandiosa.
Virginia è lì con me, e a quel bacio replica con un bacio. Mi accoglie con gentilezza e mi risponde con passione. La stringo a me anche se non è la vicinanza dei corpi ad unirci. A farlo, è la sensazione di essere reali e lo stesso di vivere un sogno dove io sento solo lei e lei solo me chiedere piano “Tienimi più vicino, stringimi più forte.”.