Alessio Chiadini Beuri: In alto i calici

giovedì 14 novembre 2019

In alto i calici






In quel casino orgiastico di carte da gioco, alcol, cocci di vetro, banconote imbrattate di sangue e mafiosi morti, raccolsi i caricatori che mi andavano bene e mi riempì le tasche, come un bambino fa con i dolcetti di halloween poco prima di tornare a casa.
In sottofondo, le breakin’news del servizio meteorologico proseguivano, in una gara all’ultima parola con la bufera di neve da fine del mondo.

«L’emergenza tormenta continua a investire la nostra regione. Molti dei principali raccordi stradali sono interrotti e si consiglia alla popolazione di non uscire di casa. Nonostante siano già tre giorni che la bufera imperversa e non sembra che la situazione sia destinata a migliorare.»

Nevicava fino dall’inizio del caso Valchiria e, secondo le previsioni, il sole si sarebbe fatto desiderare ancora per un bel pezzo. Ma la città innevata aveva qualche vantaggio: meno passanti che potessero restare coinvolti in una sparatoria.
Dovevo mantenermi in movimento finché c’era ancora qualcuno che fosse in grado di udire gli spari e aveva gambe per venirmi a cercare. Scorsi mezza dozzina di scalini dalla parte opposta della lavanderia, un grezza ringhiera in metallo scadente e una porta in laminato sottile. Era l’unica altra via d’uscita. Mi lasciai alle spalle telegiornali e lenzuola ingiallite. Schiusi la porta senza acuti. Le luci erano basse e una sfumatura da crepuscolo penetrava dallo spiraglio aperto. Mi gettai dentro con la glock ma l’unico essere vivente presente non avrebbe più potuto fregiarsi di quel titolo. Un uomo giaceva legato a una sedia.
L’arma del delitto era una mazza da baseball che in quel momento giaceva in una pozza di sangue vicino a un giornale aperto sulla pagina del fumetto di Capitan-mazza-da-baseball.
Non potevo fare più niente per lui. Nemmeno farlo identificare dalla famiglia. Non aveva più una faccia. Chiunque fosse stato il carnefice se lo era senza dubbio gustato. Oltre al vano caldaie c’erano le cucine dell’hotel, un tempo efficienti e lustre. Provai ad immaginare come sarebbero dovute essere nei progetti iniziali, con quale sfarzo e prestigio avrebbero dovuto essere condotte. Erano ridotte a una pallida ombra di se stesse, desolate e incrostate. Le attraversai velocemente facendomi condurre dalla logica di quella che doveva essere la morfologia di una cucina professionale. Era ampia, vasta e piena di stanze in cui perdersi facilmente tra acciai e celle frigorifere. Fui persuaso di sbirciare dentro qualche congelatore per contare i colleghi mantenuti sotto ghiaccio. Loro e qualche pesce piccolo sparito dalla circolazione. Dovevo però rimandare il nascondino coi morti, lo sapevo. Uscì dalle cucine e andai verso i montavivande della zona ristorante.
Un suono familiare, che le mie orecchie accolsero con piacere anche fosse stato portatore di cattive notizie, giunse appena fuori dalle cucine. Era ovattato ma riuscii a circoscriverne l’origine dietro due grandi porte sulla mia sinistra. Una targa in ottone su un piedistallo di legno bruno mi indicava, con l’ausilio di una freccia incisa, che ero nella direzione giusta per il ristorante. Proprio là da dove si propagava il vociare. Mi fu impossibile determinare il numero di invitati al banchetto anche se ormai non faceva più differenza. È sempre solo una la pallottola che ti portava via. Inutile preoccuparsi di tutte le altre: non erano che rumore di fondo.
Tuttavia, siccome mi trovavo un po’sotto tono, decisi di affrontare quel round con un po’ di strategia. Sganciai la corda di velluto verde sospesa tra il piedistallo su cui era appoggiato il menu del ristorante, ormai impolverato e unto, e la parete tra i due ingressi della sala ristorante così da fissarla attorno alla maniglia della porta. Mi ci piazzai di fronte e con la Desert Eagle sparai quanto potevo in cinque secondi netti, come un velocista. Tenni la mira ad altezza gambe con un’inclinazione tesa verso il basso. Ero quasi certo che dall’altra parte non ci fosse una colonia di orfani di Calcutta ma non ero altrettanto sicuro che non ci fossero innocenti.
In ogni caso avrebbero potuto reggere a un bello spavento senza che mi restassero sulla coscienza. Terminato lo scatto mi spostai oltre il secondo ingresso tenendo la testa bassa. Dopo un corollario di santi, un coro stridulo di sedie e una rumba di passi scalpicciati, caricatori sganciati e reinseriti, una bufera si abbatté sulle porte che avevo massacrato. Sbuffi di fumo e trucioli di legno saturarono l’aria. La carta da parati del muro di fronte si sbriciolò e alla grandine dei proiettili si aggiunse la neve di cellulosa. Dalla potenza scatenata da quella perturbazione mi aspettai almeno una mezza dozzina di uomini armati all’interno, ora intenti a sforacchiare per bene un’ombra. Spalancai il secondo accesso facendo entrare soltanto la parte superiore del busto, con attaccata la mia testa. Qualcuno aveva appena cominciato a sospettare che si trattasse di un gioco di prestigio per farli guardare da un’altra parte e un paio incontrarono il mio sguardo. Non furono altrettanto astuti da schivare i miei proiettili. Caddero prima che gli altri potessero fare caso alla porta spalancata alla loro sinistra e all’uomo apparso sulla soglia. Come Ulisse poco prima della rivincita. Max Payne, al cospetto di quella prova di abilità guerriera, riuscì molte volte a passare attraverso più uomini con lo stesso proiettile. Tutti in fila, come ballerine dell’opera di Parigi. Alla sbarra, un, deux, trois: BANG!
Prima che si accorgessero di me, la metà se n’era andata al creatore quasi senza soffrire. Avevo cercato di essere misericordioso ed ero andato per il colpo alla testa. Quando giunse il mio momento per ricaricare ne rimanevano solo due in piena efficienza. Due e mezzo: il terzo era vivo ma non troppo bellicoso. Raccolsi una magnum dalle mani di uno dei primi che avevano tentato di venirmi in contro e ricominciai con lo stesso ritmo e intensità con cui avevo iniziato. Il calibro della nuova pistola aprì una voragine nei petti dei due e li respinse con violenza. 
Il ruggito cavernoso degli spari spazzò dalla mia testa ogni altro suono. Poi fu di nuovo silenzio. Ricaricai la beretta e la Desert Eagle. Feci lo stesso con il grosso revolver, che avevo deciso di tenere. Passai in rassegna i corpi cercando di depennare dalla conta chi avrebbe potuto riconoscermi rovinandomi un gioco che già stava andando a puttane. Certo, i media stavano rendendo inutile quello sforzo sbattendo la mia faccia su tutti i canali e le reti locali, facendo passare il mio nome in sovraimpressione nelle trasmissioni sportive e nei programmi di intrattenimento e aggiornando di ora in ora il numero dei miei peli del culo. Riconobbi Joe Rubini e Mathias Cullen, due figli di buona donna che si mantenevano a galla con estorsioni e ricettazioni. Li avevo incontrati un anno prima durante la pianificazione di un colpo all’aeroporto JFK. Erano rimasti fuori dalla circolazione perché si erano fatti quasi undici mesi di reclusione per tentato scasso e violazione di proprietà privata a Ryker’s Island. Il bello era che il deposito valori non lo avevano visto nemmeno da lontano.
«Che cosa mi avete lasciato, ragazzi?» dissi avvicinandomi all’unico tavolo non apparecchiato. C’erano risme di documenti, cellulari ultimo modello e stilografiche. Per un momento temetti di aver accoppato il consiglio di amministrazione di qualche multinazionale. Si erano concessi anche del liquore di marca, per indossare fino in fondo il vestito giusto. Un trabordante carrello di whisky pregiati era sopravvissuto alla sparatoria, incurante di tutto. Pareva che aspettasse solo che qualcuno se lo scolasse. Quell’apparizione, in effetti, aveva aumentato la mia salivazione e un fastidioso prurito in fondo alla gola tentò di farsi strada. Qualcosa mi distrasse al momento giusto. Ai due lati opposti del tavolo si fronteggiavano due valigette. Identiche fino alla cromatura delle fibbie, era il contenuto a renderle diverse: in quella più vicina a me se ne stavano a nanna dieci mazzetti di banconote da cinquecento. Mi feci un rapido calcolo e sorrisi pensando a che faccia avrebbero fatto le volontarie dell’ospizio di San Cristoforo quando, aprendo la porta del convento, avrebbero trovato Babbo Natale sotto forma di tre milioni di dollari. Chiusi la valigia e la feci scivolare sotto una delle tende in fondo al ristorante. Mi spostai alla seconda e alla gioia del fare del bene si aggiunse l’euforia incontenibile. Mancò niente che bagnassi i pantaloni.
Calmati, Max, sembra la prima volta che ti trovi di fronte a una bella donna con tutte le cose al posto giusto che chiede solo di essere posseduta come merita.
Ti ricordi ancora come si fa, agente Payne? Non fare il timido.
Tre grossi cilindri di cristallo erano adagiati in altrettanti stampi di gommapiuma scura, che li tenevano caldi e al sicuro. Il liquido verde al loro interno rifulgeva di una sfumatura radioattiva. Era denso e placido. Valchiria. Il mio Santo Graal, fonte di perdizione e rinascita.

Ecco che cosa avevo interrotto: una compravendita di droga. Una partita così grossa da infettare la baia per settimane. Quella Valchiria era pura al 99%, doveva ancora essere tagliata. Poche gocce in quella concentrazione avrebbero colato dentro a chi l’avesse assunta tanti demoni quanti ne contava l’inferno. I tossici che avevano fatto irruzione in casa distruggendo la mia famiglia e la mia vita si erano affacciati all’anticamera del delirio.
I diavoli che li avevano condotti alla mia porta non avevano nulla di soprannaturale.
Il grottesco ha origine nella natura umana. E ciò che umano può sanguinare.
Chiusi la valigetta e uscii dal ristorante. La nascosi in un box antincendio, dietro le spire della lancia dell’estintore.
Con calma sarei ritornato a prenderla, insieme ai soldi.
Qualche corridoio più tardi raggiunsi un ascensore. Il fatto che fosse fermo proprio a quel piano mi sembrò un buon segno per salirci sopra e farci un giro. Premetti il pulsante di chiamata e le porte si aprirono con un lamento svogliato. Evitai di aggredire l’uomo che mi comparve davanti: era già troppo malridotto e non me la sentì di infierire. Probabilmente non avrebbe visto la fine di quella notte. E magari gli avrei fatto compagnia. Girai le spalle allo specchio e mi concentrai sulla pulsantiera. Un piano valeva l’altro, per quanto ne sapevo, ma poi l’indicazione delle strutture annesse ai piani mi aiutò a decidere. Dopo un lauto banchetto l’etichetta impone il consumo smodato di cocktail esotici e acque brillanti rigorosamente francesi.




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