Alessio Chiadini Beuri

mercoledì 15 marzo 2023

Capitolo 1

Max Payne: una fredda giornata d'inferno




L’incubo era sempre lo stesso: violente figure che si muovevano nell’oscurità, la risata isterica dell’assassino era come un rompicapo di deviata malvagità.

Mi ritrovai nella mia casa. Nella nostra casa. Lo stanco incedere della luce esterna diceva al mondo che il giorno era finito e che sulla città si stavano finalmente distendendo le ombre della notte. Ero in piedi sull'uscio. 
Mi voltai a guardare a destra, verso la cucina. 
Poi a sinistra, verso il soggiorno. 
Il gesto rapido mi sfanculò l’equilibrio e un montante di nausea e vomito salì dalle budella. La stanza iniziò a girare, sempre più veloce, e non si fermò più. Cercai a tentoni un appoggio saldo a cui affidarmi ma non lo trovai e mossi alcuni passi in avanti sbattendomene del fatto che stavo per vomitarmi addosso. Il pianto di un bambino arrivò fino a me, prima come una serie di note confuse in fondo al brusio che lentamente si faceva strada in un’emicrania omicida che mi stordiva e poi come lama tagliante che feriva profonda. A malapena sapevo ancora come mi chiamassi ma non avrei potuto sbagliare nel dare un nome a quella voce. Sono istinti che un padre acquisisce la prima volta che tiene in braccio un figlio.
Rose.
Rose era là da qualche parte e stava piangendo.
Quella consapevolezza  si azzuffò con le tinte torbidi di quell’incubo, dando spinta alle gambe per un nuovo slancio in avanti. Mi muovevo a rallentatore verso il corridoio. Annaspavo e pompavo ma le distanze non facevano che dilatarsi. Dovevo sbrigarmi o tutto sarebbe stato inutile, un’altra volta. Ancora un fallimento. Lo stesso, imperdonabile.
Stavolta sono in tempo, però, non posso fallire. 
Fai qualunque cosa ma non le abbandonarle di nuovo. Hanno bisogno di te, grand'uomo.
Salvale e le tue mani non saranno più macchiate del loro sangue, Max. 
Ti stanno aspettando, che diavolo pensi di fare?

«Max, NO! Ti prego, NO!»

Il grido di una donna.
Sto arrivando piccola. Resisti.
Finalmente imboccai il corridoio per le camere da letto. Il figlio di puttana si allungò a dismisura tanto che mi trovai in un lungo tunnel con una minuscola iride di luce ad aspettarmi impaziente. 
Un piede dietro l’altro, era facile, su. 
Le gambe mulinavano divorando un pavimento inconsistente come fumo e le braccia cercavano febbrili aria da spingere indietro. La casa si inclinò e la corsa divenne un’affannosa salita. Il piede scivolò e io caddi disteso battendo la faccia. Non sentii dolore e mi rialzai riprendendo a correre con più foga mentre mia figlia urlava a squarciagola il suo orrore.
Tranquilla, l’uomo cattivo non ti troverà, questa volta. Papà sta arrivando. Non piangere più.
Arrivai in fondo al corridoio con un ultimo, doloroso, colpo di reni.
Sono qui, ragazze.
Al posto della stanza di mia figlia, però, un altro corridoio si spalancò di fronte a me. Era nero e profondo, come l’appetito della Nera Signora. Senza cedere alla disperazione frugai le ultime forze e mi gettai a capofitto dentro l’oscurità. Cieco e furioso, il terrore di perderle di nuovo alimentò un incendio di paure che divampò in un corpo proiettato allo spasmo. Mi lasciai dietro anche il secondo corridoio senza quassi accorgermene. Il terzo lo divorai. l’ultimo lo superai senza respirare, gli occhi spalancati e la bocca contratta in un ghigno ferino.

«Maaax!» quella volta, sì, era Michelle.

Estrassi la pistola.
Ci avevo messo troppo? Avevo fallito ancora?

Ammazzati Max o al prossimo giro le ucciderai un'altra volta.

La cameretta di Rose. Il lettino era rovesciato su un fianco. Il lato sbagliato per poter vedere mia figlia. Scattai in quella direzione ma una voce maschile riempì l’aria e la vista della stanza di mia figlia si offuscò.

«Lo abbiamo trovato addormentato accanto al corpo di Lupino» la voce aveva un’eco così terribile che capii a stento che cosa diceva.
Chi stava parlando?
Chi avevano trovato accanto al corpo di Lupino?
E quanto tempo fa era successo?

Scossi energeticamente la testa e il riverbero di quella voce sconosciuta si dissipò come vapore. 
Ero là per salvare la mia famiglia e niente mi avrebbe fermato. Dovevo mantenere il controllo. Un bagliore improvviso trasformò tutto in luce ma com’era arrivato, si ritirò altrettanto velocemente. Ero in piedi nel mio soggiorno a fissare una foto di me e Alex. I bei tempi andati. Avevamo condiviso alcuni momenti di gloria e senza falsa modestia, eravamo la miglior coppia di collaborazione tra polizia e Dea anche se avevamo entrambi il nostro bel caratterino. Avrei dato qualsiasi cosa per averlo come compagno di squadra. Ma non avevo mai avuto questa fortuna. 
Distolsi lo sguardo e la testa mi seguì con un ritardo di alcuni secondi. Sulla mensola del caminetto un ritratto di famiglia. Riconobbi la cornice, Michelle l’aveva scovata in un mercatino delle pulci e l’aveva voluta acquistare a tutti i costi, anche se non era niente di speciale e non valeva una cicca. Avevo preso in giro i suoi gusti per qualcosa come una settimana intera. Alchè si era decisa a farmela pagare piazzandoci una bella foto di noi tre. In quel modo non avrei potuto trovare un modo per farla accidentalmente sparire o facendomela scivolare dalle mani mentre la ammiravo. Quando Michelle mi si era piazzata davanti con quella composizione, fiera e sorridente, io l’avevo guardata accigliato, avevo sbuffato per protesta e poi ero scoppiato in una risata. Avevamo riso insieme, come due adolescenti cretini, fino alle lacrime. 
Nella foto tenevo in braccio Rose e Michelle mi cingeva il collo con dolcezza. Pura felicità catturata dallo sguardo della macchina fotografica. Pensavo sarebbe durata per sempre.

Finché morte non vi separi.

Non volevo pensarci. Mi ripetevo che fino a quando non l'avessi fatto non sarebbe potuto succedere.
Il ricordo però mi colpì come una saetta infuocata e io infransi la promessa. Il terrore era come un ago arrugginito conficcato nel cervello. Presto la sua infezione avrebbe fatto ammalare il cuore.
Quei pensieri furono spezzati dalla musica di un carillon lontano. Suonava una ninna nanna distorta e contorta, il più possibile lontano dalle promesse di bei sogni futuri. Il vagito di un neonato uscì dal torpore dei ricordi e crebbe come un vento nucleare dentro una valle. Il cielo azzurro e le nuvolette di una carta da parati da bambini mi scorrevano davanti agli occhi in un corridoio che sapevo già dove sarebbe finito. Non faticai quella volta, neanche mi accorsi di compiere un passo. Fui proiettato in una stanza avvolta nel buio. 
Un'oscurità nera come pece, come scrivono nei romanzi. La notte assoluta, il vuoto cosmico. Ero nell'iride perduta di un buco nero. Sollevai le mani di fronte al viso e non le vidi. Il fischiare tremendo del silenzio era un pugnale dalla lama conficcata da un orecchio all'altro. Sentivo agonizzare la ragione, appesa impotente e in balia degli eventi.
La bambina riprese a piangere. Mi si strinse il petto ma se aveva ancora forza di strillare come un'aquila voleva dire che per il momento stava ancora bene. Mi mossi e d'istinto gli occhi puntarono dove avrebbe dovuto esserci il pavimento e il mio piede. Sentì l'appoggio e con meraviglia la direzione mi comparve davanti. Non erano molliche di pane a indicarmi la strada ma un'irregolare scia vermiglia. Sembrava sangue, come quello di un cadavere trascinato per i piedi. La traccia era frastagliata di sbaffi e macchie circolari. Un vero casino. Una coltre di soffici fiocchi di neve rossa striavano l'orizzonte. Cominciai a correre lungo il sentiero. I passi rimbombavano cavernosi in un'eco infinita. non vedevo oltre a una decina di metri da me. Abbastanza per prendere un buono slancio ma non sufficiente a correggere raddrizzare la barra nel caso di una drammatica svolta improvvisa. Non sapevo se oltre la lunga linea rossa avrei trovato la solida terra o l'avvolgente nulla e non avevo intenzione di scoprirlo finché il pianto resisteva imperterrito. 
Mi trovai a corto di fiato, con il diaframma a spremere a fondo i polmoni e il petto a sussultare come un vecchio motore diesel. Nulla da segnalare per milza e fegato ma non avrebbero tardato a chiedere il conto. Il sentiero mi correva davanti agli occhi in un'ipnotica serie senza fine. Senza la possibilità di distrarmi smarrii la cognizione del mio corpo. Correvo in avanti per pura inerzia. Non sarei riuscito mai a scansare un muro o una voragine nel pavimento. Mi accorsi della mia corsa storta, vistosamente piegata da un lato, solo per miracolo. Mi stavo addormentando.
Mi morsicai l'interno della guancia e il dolore mi riaprì gli occhi: il sentiero di sangue si interrompeva nel niente. Saltai con uno slancio ridicolo fiondandomi addosso a un fato che avrei scoperto se clemente o crudele.
Quando trovai l'appoggio dei piedi ero in camera di Rose, la mia piccolina. D'istinto mi rivolsi verso l'angolo con il suo lettino. L'orrore mi attraversò raggelandomi l'anima. Coperto da un lenzuolo insanguinato, un corpicino era disteso a terra accanto allo scheletro del suo lettino, che qualcuno aveva ribaltato in preda alla rabbia.
«Oh NO! Ti prego, buon Dio, No!» urlai.
Il grido di Michelle interruppe il mio ma non riuscii a fermare le lacrime. Mi precipitai da lei. Il fallimento mi aveva trovato di nuovo, era così vicino da sentire il suo fiato gelido alitarmi sul collo. Varcai la stanza e in quel momento, di nuovo, una voce maschile squarciò il mondo.

«Puoi tagliarli a pezzi o a fettine, disintegrarli, vaporizzarli, poco importa: ritornano sempre come nuovi!»
Vidi me stesso legato a una sedia, incosciente.
Che stava succedendo?

«Michelle!!» disperato ricacciai indietro la voce e la visione onirica di me stesso si scomparve.
Ora stringevo tra le mani il diario di Michelle. Ero nella nostra camera da letto.

“Ieri mi sono trovata sulla scrivania uno strano fascicoletto. Valhalla? Sbaglio o ha a che vedere con la mitologia nordica? Con i Vichinghi? Ho provato a dirlo a Max ma mi ha liquidato con il suo affettuoso sorriso di circostanza. Probabilmente avranno solo invertito una spedizione.”

Da quel momento avrei sempre trovato del tempo per lei, mi dissi. Il vecchio Max se n'era andato, ecco a voi uno nuovo di zecca.
Restò una vana promessa. Troppo poco. Troppo tardi.

Nelle orecchie avevo di nuovo i pianti di Michelle. Le sue urla impaurite, private di qualsiasi riflesso di speranza, erano immerse in un'angoscia che faceva sanguinare l'anima.

giovedì 25 agosto 2022

Sopravvivere al fallimento: SITNOV, un nuovo genere letterario



Negli ultimi giorni mi sto interrogando parecchio su quanto stia facendo per continuare ad alimentare la mia passione di raccontare storie. È un esame di coscienza che mi costringo a fare con regolarità e in cui considero attentamente gli sforzi e i risultati ottenuti.

A volte, questi processi mi portano a tenere veri e propri trattati di filosofia spicciola in cui tento scovare il limite, se ve ne fosse uno, che separa una persona con un sogno da realizzare da un Don Chisciotte, un uomo alienato dal mondo reale che vive solo in funzione delle sue fantasie. Non vorrei che un giorno mi rendessi conto che non ho fatto altro se non lanciarmi a passo di carica contro dei mulini a vento. 



So perché scrivo: è per come mi fa sentire, fondamentalmente. Mette ordine dove prima c'era caos di pensieri e mi aiuta a ricordare quello che non voglio perdere, conservando tutto: espressioni, emozioni, colori, profumi. Molto meglio di una foto o un video ripreso col telefonino. 
Mi aiuta a darmi consigli che non sempre seguo e a creare qualcosa che prima non c'era. Una sensazione di onnipotenza che si silenzia soltanto quando i personaggi chiedono di esercitare il libero arbitrio e fare le loro scelte. 
Armonia, memoria, conoscenza e onnipotenza sono doni a cui è difficile rinunciare. 
Ecco perché amo scrivere e perché continuo a farlo. Sarebbe sufficiente per vivere sereno una mezza dozzina di vite se non avessi anche il desiderio di condividerle, queste storie. 

È appunto qui che ha inizio il dramma: dove la gioia dello scrivere diventa demone da nutrire e con cui confrontarsi piantando i piedi per non lasciarsi mettere sotto. Perché uscire allo scoperto, nel mondo da cui ti sei rifugiato scrivendo (o dipingendo, suonando, creando) ti fa chiedere se sei in grado di fare ciò che ami, così bene da avere una possibilità di restare. Me lo domando spesso se davvero so scrivere, se le parole che scelgo sono in grado di trasmettere quelle sensazioni che avevo in testa, se l'idea è originale e se il talento c’è o è solo una mia convinzione. 

Se la consapevolezza a volte è carente, di perseveranza ne ho da vendere a prezzo stracciato, invece. E questa rivelazione è il risultato della riflessione che è seguita dalla scheda di lettura che il prestigioso premio di narrativa Italo Calvino mi ha inviato a seguito della mia partecipazione alla sua trentacinquesima edizione. Sono così perseverante da candidare un testo come Chi più Re di noi, che non poteva che essere stroncato su tutta la linea. 

"Entusiasta e consapevole” potrebbero essere le due uniche note positive di una scheda di lettura ricca, generosa e veritiera. 
Sì, veritiera anche nell'elencare le pecche di un'opera di cui, però, sono il punto di forza e il tratto distintivo. Come tutto, nella vita, a fare la differenza è il punto di vista da cui si osserva. 



Avevo un piano quando ho cominciato la stesura di Chi più re di noi e, cosa più importante, poche idee su come portarla a termine. Per questo decisi di prendermi il mio tempo e capire come fare. Quella prima bozza è rimasta in incubazione per tre anni prima che mi decidessi ad aprire un blog e iniziassi la scalata. L'idea di partenza era semplice: la nostra immaginazione è cosi potente da creare e rendere tangibile anche ciò che, di fatto, non esiste. Per fare questo avevo piazzato il mio protagonista, uno studente universitario fuorisede, dentro un caldissimo appartamento di Bologna alla fine dell'estate e gli avevo messo sopra la testa una serie di rumori e suoni che lo avrebbero convinto che appartenessero alla donna della sua vita. 

E poi?

Poi non potevo permettergli di salire al piano di sopra per andare a bussare a quella porta, tanto per cominciare. Non prima dell'ultimo capitolo, comunque. 
Enrico è infatti un ragazzo che ha molta cura dei suoi sogni e prima che se ne renda conto si è già così innamorato di quell'idea che sente il bisogno di proteggerla anche dalla realtà, che spesso è spietata e vorace. Teme che anche quel sogno si rivelerà effimero e procrastinerà a lungo il momento di capire se la sua fervida immaginazione lo abbia attirato in una trappola o la dea fortuna si sia finalmente decisa a baciarlo.
In mezzo a tutto questo c’è un marasma di vita che va raccontato, lo spaccato di una generazione, il romanzo di un'età fatta di ricerca, di divertimento, di presa di coscienza sul mondo e su noi stessi. 

E come si fa a mettere giù tutta sta roba? 

Permettendo ai protagonisti di vivere, dove questo termine ne comprende altri: sperimentare, divertirsi, sbagliare alla grande
Così Enrico non si limita a seguire una trama votata al disvelamento finale di quell’inquilina misteriosa che gli ha preso il cuore, ma vive perché mentre viviamo non sappiamo quante pagine mancano ancora alla fine e non c'è un narratore che ci indichi la svolta di trama corretta. 
È per questo motivo che non fa niente se chi si aspetterebbe un romanzo dallo sviluppo canonico si trova davanti una storia in cui la ricerca all'inquilina del terzo piano sembra solo marginale, solo un pretesto narrativo. Enrico non lo sa che noi ci aspettiamo da lui che trovi il coraggio di salire una rampa di scale e vada a cercare l'amore della sua vita, per cui vive in base ai suoi ritmi, ai suoi desideri e nemmeno sa che esistiamo. 

Non è stata un'impresa facile scrivere Chi più Re di noi, anche perché a quel tempo vivevo ancora di più in un mondo tutto mio da cui mi affacciavo soltanto per vedere cosa c’era di buono in frigorifero. Quando mi è arrivata la folgorazione di questa storia stavo scrivendo un romanzo storico di cappa e spada dove tutti parlavano in versi come Cirano De Bergerac, figuratevi. Passare da quello al parlato di ragazzi di vent'anni, non edulcorato dalla morale e dalla fiction è stato un cambiamento di stile non da poco, che ha richiesto il superamento di un blocco psicologico che non mi permetteva di mettere nero su bianco neppure la meno scandalosa delle parolacce. Anche per questo non fa nulla quando leggo che Chi più Re di noi è infarcito di turpiloquio e umorismo becero e gratuito perché è esattamente così che parlano i ragazzi di quell'età quando non ci sono figure autoritarie o adulti in giro. 

Quando, nella scheda di lettura del Premio, ho letto che "i protagonisti rimangono immobili, congelati in una perenne spensieratezza e goliardia che non lascia spazio alla loro caratterizzazione psicologica" però, mi sono detto: 
«Aspetta un attimo: per forza, è una SITCOM


Già, perché questo ancora non ve l'ho detto: Chi più Re di noi è pensato come una situation comedy cartacea. Molto comoda quando abbiamo raggiunto il limite di dati e non abbiamo un Wi-fi a disposizione. Come Friends, How I met your mother, Big bang theory. Solo che vi sta tutta comodamente in tasca ed è sempre in alta definizione in pochi byte di memoria (c'è qualcosa che ha una risoluzione migliore della nostra immaginazione?). 
I protagonisti delle sitcom sono delle “maschere” che servono agli spettatori a identificarsi e simpatizzare. Portano dei valori, delle qualità, delle attitudini e dei punti di vista diversi perché è dal confronto di pluralità che si arriva meglio alla comprensione. E poi non è vero che i personaggi di Chi più Re di noi non cambiano e non hanno spessore psicologico. Anche loro evolvono, a volte così radicalmente che si è costretti a tornare indietro per guardare tutto quello che hanno fatto a riconsiderarlo alla luce di quella nuova presa di coscienza (un esempio su tutti: la “saga” di Tetteballerine, dal capitolo Fart by me a Il gatto sul Tette’ che scotta). Certo, magari non cambiano così velocemente come si vorrebbe o ci si aspetterebbe da un romanzo canonico ma, in fondo, quanto ci mettiamo noi a cambiare un atteggiamento o una convinzione nella vita di tutti i giorni? Lo facciamo al primo tentativo? Magari. 
Il cambiamento repentino avviene solo nella fiction e Chi più Re di noi non ha l'intento di esserlo. Sono anni che lavoro a questo romanzo, questa sitcom cartacea che ufficialmente chiamerò SITNOV (Situation Novel) ma che nel circolino di amici sarà TELEFILMANZO e, nonostante abbia ricevuto stroncature eccellenti e giudizi impietosi, continuo a crederci con forza e a parlarne ogni volta che posso. 
Per questo motivo l'ho candidato al Calvino, forse uno dei premi letterari più costosi a cui partecipare (si superano con facilità le cento carte): perché è vivo, perché parla di te o di qualcosa che ti è successo, perché è un romanzo che dovresti leggere senza fretta alternandolo ad altri, un capitolo ogni tanto quando hai bisogno di staccare la spina per un po', perché con più di settanta capitoli è quasi come una serie di quattro stagioni da ventidue episodi l’una. 




 

giovedì 12 maggio 2022

Dentro il libro e oltre: DELICATESSEN


 Enrico,Cecilia e Virginia sono andati tutti insieme a una mostra d'arte. Dove non è difficile immaginare le due ragazze in un contesto così colto, è un po' più strano vederci Spanky, anche se tra la compagine maschile di Chi più Re di Noi è di certo quello che in giro fa meno figure di merda.

L'ispirazione per scrivere questo l' ho presa dal film "Harry ti present Sally", nello specifico dalla scena ambientata al Metropolitan Museum di New fork. Avete presente quando Meg Ryan si mette a ridere per un battuta di Billy Crystal e istintivamente  guarda una in macchina, aspettandosi che le riprese venissero interrotte?




Ecco, volevo sperimentare come Enrico si sarebbe comportato in una situazione a lui poco familiare. Il titolo del capitolo è un easter egg che testimonia questo debito cinematografico: Delicatessen è infatti il nome del ristorante, che esiste davvero, in cui è ambientata la scena più famosa del film, quella in cui Meg Ryan mostra al personaggio di Billy Crystal, donnaiolo ,come le donne siano brave a simulare l’orgasmo tanto da ingannare ogni uomo.


Un'interpretazione così realistica che anche Youtube pensa che sia un orgasmo vero e lo oscura!

Il capitolo comincia subito con Enrico che fa polemica con Cecilia in merito al costo dell'audio guida, il cui prezzo è giustificato solo se ci fossero i Queen a cantare le didascalie delle opere esposte. C'è anche spazio per un omaggio al film "Tre uomini e una gamba" quando Enrico fa un commento su un'opera d'arte contemporanea consistente in due linee di colore su sfondo Bianco. 




Enrico si giustifica per la rozzezza dei suoi modi rompendo la quarta parete e rivolgendosi a noi per spiegarci che lui è uno di quei tipi che le imposizioni non le può proprio sopportare anche se si tratta dell' interpretazione di un quadro astratto da parte di un critico di nota fama. Lui vuole sentirsi libero di vederci quello che vuole. Un'attitudine, confessa, che lo ha sempre portato a percorrere sentieri impervi anche se la strada comoda era a pochi passi di distanza. Sotto questo aspetto gli anni del liceo sono decisamente stati i peggiori. Superato il primo imbarazzo iniziale, quello, diciamo, di riscaldamento in cui non hai ancora ben capito dove sei finito e con chi, grazie un affiatatissimo gruppo di compagni di classe scemi come e più di me (sono gli stessi con cui proseguiamo la tradizionale tombola dello schifo natalizia) abbiamo passato indenni i cinque anni che precedono quella che dovrebbe essere l'età della piena maturità (allerta spoiler: non lo è nemmeno per sbaglio). Gigioneggiavamo smargiassi a lezione, continuando a prendere voti onorevoli e facendo sbuffare disperate le compagne di classe che volevano copiare a menadito tutto ciò che il prof scriveva alla lasagna, leggeva pari pari dal libro di testo o farneticava cercando di farsi trovare simpatico. È lì che penso si sia formato definitivamente il mio umorismo, lo stesso di cui grondano le pagine di Chi più Re di Noi. Un umorismo che, per mia fortuna, rivivo ancora oggi grazie alla chat di classe che regala autentiche perle quotidiane. 




Comunque, a nostra parziale discolpa c’è da dire che la scuola italiana permette a certi soggetti impresentabili di insegnare e di essere di ruolo, per altro. Ho una grandissima stima per il mestiere dell’insegnante ma non sempre questa ammirazione riesce a passare ai suoi ambasciatori. È contro questo che ci battevamo mentre ci prendevano gioco dell'insegnante di storia che ha passato tutto un inverno con lo stesso maglione e la stessa camicia e potevi sentirlo arrivare con cinque minuti d'anticipo per via dell' odore di cadavere; ci battevamo per la professoressa di italiano che spiegava leggendo le didascalie del libro di testo infarcendole di "…appunto…" e "…quindi…" messi a caso per spacciare il tutto come farina del proprio sacco. Ci sono anche professori che ho amato nonostante abbia odiato il modo in cui mi facevano sentire, c'è da dirlo. Nessuno mi ha fatto amare la letteratura come l’insegnate di francese che mi interrogava tutti i santi giorni per darmi un risicato 5 politico standard. Eravamo rumorosi, impertinenti e guasconi. Io sono addirittura riuscito a farmi sbattere fuori dalla classe mentre avevo una gamba rotta e deambulavo solo grazie a un paio stampelle, tanto per farvi capire. Vi rasserenerà, però, sapere che la situazione docenti, all' università, è peggiorata molto. Anche perché non avevo più i miei compagni accanto per superare le difficoltà.
In uno slancio telefonato di autobiografismo spudorato, ho fatto raccontare a Enrico come a oggi penso di essere stato durante il liceo: il primo termine di paragone è l'uomo invisibile perché, in quei cinque anni trovare me stesso, capire chi fossi e, soprattutto, accettarmi mi hanno catapultato da una crisi esistenziale all'altra tanto che il cambiamento non è stato solo interiore ma anche esteriore. Se un anno ero magro e scanzonato, l’anno dopo ero fatalista e gonfio, una stagione spensierato e trasognante, quella successiva triste e innamorato. Ho subito così tante trasformazioni che ero convinto di non poter rimanere impresso nella memoria di nessuno (compagni di classe a parte) e di non poter piacere ad anima viva (questo serve anche a spiegare perché, in campo amoroso, non ho battuto mezzo chiodo nemmeno quando ero gradevole da vedere). 



Il secondo paragone deriva, invece, dal film degli anni '80 The Breakfast Club: il ribelle John Bender. Per coloro che conoscono questo iconico film sanno già che sto parlando del personaggio misterioso, magnetico e provocatore che trascina la storia e gli altri protagonisti a rivelare se stessi e a scoprirsi in un sabato di clausura scolastica. Un accostamento che  mi è stato attribuito da uno di quei compagni di classe di cui vi ho raccontato. Probabilmente per il suo modo spiccatamente sbruffone di scontrarsi con i rappresentanti dell'istituzione scolastica. Non voglio dirlo ad alta voce ma segretamente ne vado molto fiero. 




Torniamo però alla storia che, in fondo, siamo tutti qui per questo e anche se Enrico fa queste stesse digressioni mentali durante la visita al museo perdendosi la metà delle spiegazioni delle opere che Virginia si è gentilmente prestata a fare, quando è presente e concentrato sulle parole dell'amica non riesce a non farci sopra dell'umorismo. È stata una scelta consapevole quella di far comportare Enrico come uno stronzetto antipatico e petulante perché volevo verificare quanto virtualmente potessi essere stato insopportabile in certe situazioni quando non mi esimevo dal fare a tutti i costi il simpatico disturbando la lezione, o mi distraessi così facilmente perché di quello che spiegava il prof me ne fregava meno di nulla. Devo dire che ho provato a me stesso che se mi ci metto d'impegno posso essere davvero snervante e togliere la pazienza a un santo. Una presa di coscienza che non mi ha fato smettere, comunque. È così che ho scelto di combattere il potere. 




Provando a essere partecipe e non perdere l'amicizia di Virginia e Cecilia, Enrico dice la sua sulle opere che incontrano ma, trattandosi di una mostra d'arte moderna, i soggetti dei quadri non sono sempre ben a fuoco e il ragazzo ci mette spesso del suo, vedendoci scene che ha vissuto con Alena, la sua ragazza, raccontandone aneddoti senza troppe censure. Solo che, a un certo punto, di fronte al quadro di quello che sembra un cane che cerca di correre sul ghiaccio, da Virginia arriva un secco vaffanculo, che Enrico non ha visto partire. 
Sbigottito, domanda a Cecilia, che è rimasta accanto a lui, che cavolo di accidenti sia appena successo. L'amica, alzando gli occhi al cielo, gli risponde che, visto che la storia tra Virginia e Alan è appena finita, lei è piuttosto sensibile sull'argomento. Enrico ribatte che niente di quello che Cecilia ha appena detto ha senso, visto che è Virginia che ha lasciato Alan, non il contrario. Questa cosa a me personalmente non è mai successa ma quando il dialogo mi ha portato a questo punto mi è sembrato comunque un buon esempio di come, a volte, noi maschietti ci troviamo spiazzati da alcuni salti logici femminili. E poi prestava il fianco a una battuta e non ho potuto sottrarmi.



Non contenta, Cecilia gli dice pure di andare da lei e scusarsi per essere stato il tipico maschio insensibile e Enrico non può far altro che raccogliere tutte le sue perplessità e fare la cosa che all'apparenza sembra la più giusta. 
Sia Virginia che Enrico ammettono, l' una di aver esagerato e l’altro di essere stato uno stronzo che non credeva che la fine della sua storia con Alan le pesasse ancora così tanto, offrendole la sua spalla per sfogarsi, se le va. Virginia rifiuta ancora prima che l' eco dell'offerta di Enrico si sia dissipata ma si sente così generosa da dargli un consiglio per la sua storia con la bella Alena: che vivano la loro vita, che non si annullino nella storia d'amore o nel partner, che restino individui ben distinti che condividono un sentimento che li spinge a stare insieme.
Cinica questa Virginia, voi direte, e non è che abbia rivelato chissà quale segreto di Fatima. Bè, andiamoci piano con i giudizi affrettati: se ho l’onore di parlare a una platea di fenomeni mi do un buffetto orgoglioso al mento ma io c'ho messo un bel po' ad afferrare la nozione che l'amore corrisposto sia solo uno dei fattori di quella complicata equazione che bilancia l’intensità della felicità di ciascuno di noi. 



A me, che fosse tanto scontato, non è mai sembrato. Per la mia natura, dotata di brevetto di volo pindarico dodicesimo Dan, sommata a un'infanzia culturalmente forgiata sul fatto che l’eroe di turno abbia sempre una principessa da salvare o per cui sacrificarsi, uscire dal meccanismo che è possibile essere felici anche senza avere un rapporto serio con un'altra persona o che, pur avendolo, questo non impedisca agli altri interessi di coesistere, non è stato facile neanche per sbaglio. È stato il sopraggiungere della maturità, anche se è ormai bene che mi rassegni a chiamarla vecchiaia, ad aprirmi gli occhi su quanto sia sbagliato, ingiusto e controproducente sparire in una storia e vivere solo in funzione di essa. Prima di tutto perché la storia non è detto che duri per sempre e, se hai svuotato il tuo mondo precedente per dedicarlo a lei, quando probabilmente finirà e tu dovrai raccogliere i cocci e ricominciare da capo, sul fondo di quel mondo svuotato non ci troverai altro che vecchie cianfrusaglie di quello che eri una volta e che, ormai, non sei più perché il tempo è passato e hai fatto terra bruciata della vecchia vita. Non si può affidare a nessuno un potere così grande dato che solo noi rimarremo con noi per tutta la vita. Il secondo motivo è che per essere interessanti e continuare a far innamorare ogni giorno quella persona di noi, dobbiamo darle un motivo. Non possiamo vivere esclusivamente in funzione sua, aspettando un suo segno o un suo cenno perché quando finalmente toccherà a noi fare qualcosa, non sapremo di che altro parlare se non di lei. Noia e tedio sono l’anticamera dell'infelicità, del tradimento e della separazione. Per questo Virginia ha troncato la sua relazione con Alan, nonostante lo splendido viaggio a Parigi: non voleva qualcuno disposto a vivere nel suo riflesso ma qualcuno che facesse luce insieme lei. 




La canzone: Solsbury Hill - Peter Gabriel

Ho scelto questo pezzo di Peter Gabriel per accompagnare Delicatessen per due motivi:
Il primo è perchè un fenomeno come Peter Gabriel non poteva mancare da questa colonna sonora e secondo perchè anche a coloro che non dovessero essere ferratissimi in inglese, grazie a un arrangiamento cucitogli addosso come un abito di alta sartoria, è chiaro fin dal primo ascolto che si tratta di un pezzo capace di scavarti dentro e aprirti il petto in due. Col sorriso. Quel sorriso di consapevolezza che ti si stampa in viso e che si diffonde in tutto il corpo con un pizzicore che ti fa sentire vivo come non mai. Solsbury Hill è una di quelle canzoni a cui penso subito quando ho bisogno di immergermi, e dare corpo e voce, a ciò che è per me libertà. Una libertà intima, mai dichiarata ad alta voce, solitaria.

Buon Ascolto!






Chi più Re di Noi: la ragazza che ascoltava i Guns N' Roses

Editore: Andaluso Errante Books
Prima Edizione: Dicembre 2016
Seconda Edizione: Ottobre 2020
Genere: Narrativa Contemporanea


Quarta di copertina: "Bologna. Una nuova ragazza è venuta ad abitare nell’appartamento sopra a quello di Enrico, Tette’ e Zanna, solo che nessuno l'ha ancora vista. Il primo si è convinto che si tratti della donna della propria vita ed è deciso a incontrarla, il secondo si è offerto di curarne l'irrequieta smania di svegliarli nel cuore della notte facendole assaggiare un po' del toro da monta qual è, l'ultimo non è sicuro che il fantasma dello zio morto in quella casa la lascerà in pace.
Cecilia e Virginia alzano gli occhi al cielo"


NB: da qualche giorno è disponibile anche la variant cover dedicata a John Belushi e Animal House!
Costa solo 1.50 in più rispetto alla classica perché è in copertina rigida!



Qualche Recensione: