Alessio Chiadini Beuri: Sopravvivere al fallimento: SITNOV, un nuovo genere letterario

giovedì 25 agosto 2022

Sopravvivere al fallimento: SITNOV, un nuovo genere letterario



Negli ultimi giorni mi sto interrogando parecchio su quanto stia facendo per continuare ad alimentare la mia passione di raccontare storie. È un esame di coscienza che mi costringo a fare con regolarità e in cui considero attentamente gli sforzi e i risultati ottenuti.

A volte, questi processi mi portano a tenere veri e propri trattati di filosofia spicciola in cui tento scovare il limite, se ve ne fosse uno, che separa una persona con un sogno da realizzare da un Don Chisciotte, un uomo alienato dal mondo reale che vive solo in funzione delle sue fantasie. Non vorrei che un giorno mi rendessi conto che non ho fatto altro se non lanciarmi a passo di carica contro dei mulini a vento. 



So perché scrivo: è per come mi fa sentire, fondamentalmente. Mette ordine dove prima c'era caos di pensieri e mi aiuta a ricordare quello che non voglio perdere, conservando tutto: espressioni, emozioni, colori, profumi. Molto meglio di una foto o un video ripreso col telefonino. 
Mi aiuta a darmi consigli che non sempre seguo e a creare qualcosa che prima non c'era. Una sensazione di onnipotenza che si silenzia soltanto quando i personaggi chiedono di esercitare il libero arbitrio e fare le loro scelte. 
Armonia, memoria, conoscenza e onnipotenza sono doni a cui è difficile rinunciare. 
Ecco perché amo scrivere e perché continuo a farlo. Sarebbe sufficiente per vivere sereno una mezza dozzina di vite se non avessi anche il desiderio di condividerle, queste storie. 

È appunto qui che ha inizio il dramma: dove la gioia dello scrivere diventa demone da nutrire e con cui confrontarsi piantando i piedi per non lasciarsi mettere sotto. Perché uscire allo scoperto, nel mondo da cui ti sei rifugiato scrivendo (o dipingendo, suonando, creando) ti fa chiedere se sei in grado di fare ciò che ami, così bene da avere una possibilità di restare. Me lo domando spesso se davvero so scrivere, se le parole che scelgo sono in grado di trasmettere quelle sensazioni che avevo in testa, se l'idea è originale e se il talento c’è o è solo una mia convinzione. 

Se la consapevolezza a volte è carente, di perseveranza ne ho da vendere a prezzo stracciato, invece. E questa rivelazione è il risultato della riflessione che è seguita dalla scheda di lettura che il prestigioso premio di narrativa Italo Calvino mi ha inviato a seguito della mia partecipazione alla sua trentacinquesima edizione. Sono così perseverante da candidare un testo come Chi più Re di noi, che non poteva che essere stroncato su tutta la linea. 

"Entusiasta e consapevole” potrebbero essere le due uniche note positive di una scheda di lettura ricca, generosa e veritiera. 
Sì, veritiera anche nell'elencare le pecche di un'opera di cui, però, sono il punto di forza e il tratto distintivo. Come tutto, nella vita, a fare la differenza è il punto di vista da cui si osserva. 



Avevo un piano quando ho cominciato la stesura di Chi più re di noi e, cosa più importante, poche idee su come portarla a termine. Per questo decisi di prendermi il mio tempo e capire come fare. Quella prima bozza è rimasta in incubazione per tre anni prima che mi decidessi ad aprire un blog e iniziassi la scalata. L'idea di partenza era semplice: la nostra immaginazione è cosi potente da creare e rendere tangibile anche ciò che, di fatto, non esiste. Per fare questo avevo piazzato il mio protagonista, uno studente universitario fuorisede, dentro un caldissimo appartamento di Bologna alla fine dell'estate e gli avevo messo sopra la testa una serie di rumori e suoni che lo avrebbero convinto che appartenessero alla donna della sua vita. 

E poi?

Poi non potevo permettergli di salire al piano di sopra per andare a bussare a quella porta, tanto per cominciare. Non prima dell'ultimo capitolo, comunque. 
Enrico è infatti un ragazzo che ha molta cura dei suoi sogni e prima che se ne renda conto si è già così innamorato di quell'idea che sente il bisogno di proteggerla anche dalla realtà, che spesso è spietata e vorace. Teme che anche quel sogno si rivelerà effimero e procrastinerà a lungo il momento di capire se la sua fervida immaginazione lo abbia attirato in una trappola o la dea fortuna si sia finalmente decisa a baciarlo.
In mezzo a tutto questo c’è un marasma di vita che va raccontato, lo spaccato di una generazione, il romanzo di un'età fatta di ricerca, di divertimento, di presa di coscienza sul mondo e su noi stessi. 

E come si fa a mettere giù tutta sta roba? 

Permettendo ai protagonisti di vivere, dove questo termine ne comprende altri: sperimentare, divertirsi, sbagliare alla grande
Così Enrico non si limita a seguire una trama votata al disvelamento finale di quell’inquilina misteriosa che gli ha preso il cuore, ma vive perché mentre viviamo non sappiamo quante pagine mancano ancora alla fine e non c'è un narratore che ci indichi la svolta di trama corretta. 
È per questo motivo che non fa niente se chi si aspetterebbe un romanzo dallo sviluppo canonico si trova davanti una storia in cui la ricerca all'inquilina del terzo piano sembra solo marginale, solo un pretesto narrativo. Enrico non lo sa che noi ci aspettiamo da lui che trovi il coraggio di salire una rampa di scale e vada a cercare l'amore della sua vita, per cui vive in base ai suoi ritmi, ai suoi desideri e nemmeno sa che esistiamo. 

Non è stata un'impresa facile scrivere Chi più Re di noi, anche perché a quel tempo vivevo ancora di più in un mondo tutto mio da cui mi affacciavo soltanto per vedere cosa c’era di buono in frigorifero. Quando mi è arrivata la folgorazione di questa storia stavo scrivendo un romanzo storico di cappa e spada dove tutti parlavano in versi come Cirano De Bergerac, figuratevi. Passare da quello al parlato di ragazzi di vent'anni, non edulcorato dalla morale e dalla fiction è stato un cambiamento di stile non da poco, che ha richiesto il superamento di un blocco psicologico che non mi permetteva di mettere nero su bianco neppure la meno scandalosa delle parolacce. Anche per questo non fa nulla quando leggo che Chi più Re di noi è infarcito di turpiloquio e umorismo becero e gratuito perché è esattamente così che parlano i ragazzi di quell'età quando non ci sono figure autoritarie o adulti in giro. 

Quando, nella scheda di lettura del Premio, ho letto che "i protagonisti rimangono immobili, congelati in una perenne spensieratezza e goliardia che non lascia spazio alla loro caratterizzazione psicologica" però, mi sono detto: 
«Aspetta un attimo: per forza, è una SITCOM


Già, perché questo ancora non ve l'ho detto: Chi più Re di noi è pensato come una situation comedy cartacea. Molto comoda quando abbiamo raggiunto il limite di dati e non abbiamo un Wi-fi a disposizione. Come Friends, How I met your mother, Big bang theory. Solo che vi sta tutta comodamente in tasca ed è sempre in alta definizione in pochi byte di memoria (c'è qualcosa che ha una risoluzione migliore della nostra immaginazione?). 
I protagonisti delle sitcom sono delle “maschere” che servono agli spettatori a identificarsi e simpatizzare. Portano dei valori, delle qualità, delle attitudini e dei punti di vista diversi perché è dal confronto di pluralità che si arriva meglio alla comprensione. E poi non è vero che i personaggi di Chi più Re di noi non cambiano e non hanno spessore psicologico. Anche loro evolvono, a volte così radicalmente che si è costretti a tornare indietro per guardare tutto quello che hanno fatto a riconsiderarlo alla luce di quella nuova presa di coscienza (un esempio su tutti: la “saga” di Tetteballerine, dal capitolo Fart by me a Il gatto sul Tette’ che scotta). Certo, magari non cambiano così velocemente come si vorrebbe o ci si aspetterebbe da un romanzo canonico ma, in fondo, quanto ci mettiamo noi a cambiare un atteggiamento o una convinzione nella vita di tutti i giorni? Lo facciamo al primo tentativo? Magari. 
Il cambiamento repentino avviene solo nella fiction e Chi più Re di noi non ha l'intento di esserlo. Sono anni che lavoro a questo romanzo, questa sitcom cartacea che ufficialmente chiamerò SITNOV (Situation Novel) ma che nel circolino di amici sarà TELEFILMANZO e, nonostante abbia ricevuto stroncature eccellenti e giudizi impietosi, continuo a crederci con forza e a parlarne ogni volta che posso. 
Per questo motivo l'ho candidato al Calvino, forse uno dei premi letterari più costosi a cui partecipare (si superano con facilità le cento carte): perché è vivo, perché parla di te o di qualcosa che ti è successo, perché è un romanzo che dovresti leggere senza fretta alternandolo ad altri, un capitolo ogni tanto quando hai bisogno di staccare la spina per un po', perché con più di settanta capitoli è quasi come una serie di quattro stagioni da ventidue episodi l’una. 




 

Nessun commento:

Posta un commento