Alessio Chiadini Beuri: servizio in camera

giovedì 14 novembre 2019

servizio in camera




Cristo, nemmeno io ero fresco come una rosa: avevo il fiatone. Infilai la mano in tasca e presi il flacone di aspirine. Male non mi avrebbero fatto. Ne buttai giù un paio e quelle scivolarono dentro di me con un hurrà lungo trenta secondi.
“Grazie Max.” per poco non sentì dire al mio corpo. “Ogni tanto fai anche qualcosa per me.”
“Piantala, e cerca di collaborare: c’è la possibilità di farmi spuntare un razzo dal culo e decollare via da qui?”
“Sai dov’è l’uscita, Max: assomiglia molto all’entrata, vista dall’altra parte.”
Borbottai a me stesso di andarmene al diavolo ma poi pensai che sarei dovuto andare con me e visto che mi trovavo già in un mucchio di merda, era meglio gestire un cazzo in culo alla volta. Cercai il modo di uscire dalla stanza evitando di percorrere a ritroso la strada degli uomini di Finito, credendo che altri non avrebbero tardato ad arrivare. Andare avanti non era possibile e io avevo notato una parete-finestra prima di andare a colloquio con Joey e. Portava all’ampio terrazzo del primo piano. La raggiunsi e sparai al vetro. Il proiettile si conficcò in terra dopo aver frantumato la finestra. Il vento di quella notte da diavoli mi soffiò in faccia. Allo squittio dei vetri sotto le mie scarpe seguì lo scricchiolio della neve e l’applauso dei lembi della mia giacca attorno ai fianchi.
Lasciavo orme e sangue. Quest’ultimo colava giù dalla punta delle dita. Il braccio si stava intorpidendo. Aprì e chiusi il palmo per attenuare il formicolio. La bufera continuò a ringhiare prepotente nei timpani anche quando mi feci piccolo contro il muro per offrirle meno superficie possibile. Proseguì anche oltre l’angolo dell’edificio sperando di imboccare il corridoio di un altro blocco o la finestra di una camera.
Quanto sei in gamba, Max! E le donne, davvero non sanno resisterti!
Il mio straordinario senso dell’orientamento si intromise per comunicarmi che dopo circa cento metri di culo freddo e palle gelate era quasi sicuro che fossimo arrivati, tanto che mi esortò a rompere con una gomitata la prima finestra che avessi incontrato. Tuttavia non ce ne fu bisogno: l’occupante della stanza era in piedi sul davanzale, nudo nato e deciso a saltare.
«Servizio in camera!» dissi. L’uomo strabuzzò gli occhi. Era strafatto di Valchiria. Repressi il disgusto che mi era salito fino in gola e che stava prendendo a pugni lo stomaco. Anche i balordi che avevano distrutto il mio mondo lo avevano fatto sotto l’influsso di quella droga. Ma non avrei permesso alla rabbia di farsi strada. Volevo tenerla in fresco per un momento speciale.
«Non hai l’aria di essere la cameriera, amico.»
«E tu non hai l’aria di essere mio amico, amico. Accontentiamoci.»
«Sta’ indietro o mi butto!»
Mi guardai i piedi e calcolai che dall’altezza da cui si trovava, la cosa peggiore che potesse accadergli (se si fosse lasciato andare) sarebbe stata una scivolata sulla neve fresca e una battuta di culo.
«Se vuoi morire devi venire con me!» dissi. Dopo avergli fatto segno con la canna della Beretta di scansarsi saltai dentro camera sua.
«Grazie! E ricordati di chiudere la finestra quando hai fatto se no sai l’amministratore che incazzatura?»
Attraversai tutta la stanza e mi affacciai al corridoio. Guardai in entrambe le direzioni prima di decidere dove andare. Mi voltai di nuovo dentro la camera. Gli strafatti di Valchiria scleravano senza preavviso e infestavano il posto come una colonia di ratti. Uscì dalla sua vita e dal destino che lo aspettava, fregandomene meno di niente.
Il mio obiettivo a lungo termine era quello di scalare la montagna di merda che quella sera mi era piovuta addosso.
Quello a breve termine, invece, era l’inquilino della stanza 313.
Almeno il piano dell’hotel era quello giusto.
Affievolitosi l’odore della polvere da sparo e del sapore ferroso del sangue, mio e di tutti gli altri, la realtà acre di quel posto mi colpì dritta come un pugno.
Il fetore di umanità rancida impregnava le pareti scrostate e la moquette lurida che si attaccava alla suola delle scarpe. L’aria era satura dell’olezzo fradicio di acqua di colonia da poco, vomito, muffa e mutande sporche. Mi trovavo attorno alla 357 e ciò significava che gli alloggi di Rico erano esattamente dalla parte opposta dello piano.




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