Alessio Chiadini Beuri: jack lupino

sabato 16 novembre 2019

jack lupino




L’incendio mi asciugava i vestiti e il sangue che si coagulava li inamidava. Servizio completo.
Andai verso il sipario nero, che le fiamme avrebbero raggiunto nel giro di cinque minuti e divorato in meno di dieci. Ne scovai un lembo e mi infilai senza pensarci troppo. Se avessero voluto ammazzarmi subito avrebbero potuto unirsi alle danze, o almeno portare un cocomero.
Dietro un glorioso altare di marmo bianco mi aspettava Jack Lupino, sacerdote di depravazione. Lupino era un grosso figlio di puttana dalla testa rasata e la faccia tatuata: un tribale si arzigogolava dall’occhio sinistro fino alla guancia, come se un involontario schizzo di fango lo avesse raggiunto durante una scampagnata fuori città. Jack però non brandiva un pugnale da cerimonia: aveva optato per un più pragmatico fucile UZI e una camicia che mi ricordò il vecchio divano di mia nonna che aveva sempre odorato di rabarbaro e vecchie scoregge. Oltre ad adorarmi, la nonna non aveva mai avuto gusto per nient’altro.
Per quanto assurda, la situazione sembrava avere una coerenza, anche se non riuscivo a capire quale. Lupino era strafatto e sembrava pronto ad affrontare un alligatore mutante. Quindi riprese i suoi discorsi deliranti, come in un incubo. Il mio.
«Ho assaporato la carne degli angeli caduti.»
«Lo so, è un po’ stopposa, vero?»
«Ho assaggiato il sangue verde del demonio. Scorre nelle mie vene. Ho visto oltre il mondo della carne, l’intera architettura di sangue e ossa.»
«Preferisco i documentari della stagione degli accoppiamenti.» ma non mi sentì nemmeno. Il disco di Lupino non si sarebbe fermato fino alla fine.
«La Morte sta arrivando! Sarà presto fra noi con l’inferno al suo seguito! Ecco l’alba dell’eterno inverno. Sono pronto per diventare suo figlio! È arrivato il suo momento e chiunque si opporrà al suo cammino dovrà morire!» concluse in una risata che non aveva nulla di rassicurante. «MORIRAI ADESSO!»
Alla fine della messa Lupino scattò puntandomi contro il suo UZI. Io feci lo stesso con quello che avevo.
Gridando a mia volta.
Non mi seppi spiegare cosa gridai a fare.
Gridai e basta.
Sparammo entrambi ma eravamo già così vicini da non colpirci neanche di striscio. Lupino sparò in alto, ai santi del paradiso. Il mitragliatore, troppo vicino alla mia testa, mi avrebbe rintronato se non fossi stato così impegnato a mancare Jack a mia volta mettendo a segno due pallottole nel nulla dietro di lui. Fu perché mi serrò il polso destro in una morsa leonina deviando la traiettoria della canna e perché, lo ammetto, non lo credevo capace di muoversi così in fretta. Mi stritolò la mano e mi costrinse a mollare la pistola ma fui abbastanza lucido da ripagarlo con la stessa moneta torcendogli la mano dell’UZI portandolo a puntarselo contro. Mi lasciò andare spostando il nostro scontro sui muscoli. Mi afferrò per la giugulare e mi sbatté contro l’altare. Le reni mandarono un acuto grido di protesta. Me l’avrebbero fatta pagare costringendomi a pisciare sangue per due giorni. Tendevo i muscoli del collo mentre le mani sugli avambracci madidi e nerboruti di Lupino cercavano di allontanarlo da me. Il flusso d’ossigeno che riusciva a passare nella carotide, sempre più piccola, si affievoliva. Si sarebbe ridotto alle dimensioni di uno spillo in mezzo giro di orologio. Ascoltavo il sibilo debole del respiro nella mia testa. Non ero capace di staccarmelo di dosso. Lupino aveva gli occhi iniettati di sangue, così preda delle sue allucinazioni da non battere mai le palpebre.
La mia vista iniziò a confondersi. Un alone scuro circondava ora i profili delle cose. Le palpebre chiudevano i battenti. Le dita continuavano a scivolare sulle braccia sudate di Jack. Altri trenta secondi e sarei svenuto. Chiusi gli occhi ripetendomi di non farmi persuadere dal sollievo che ne ricavai e dal desiderio di mollare gli ormeggi e rilassarmi davanti al tramonto. Le braccia erano ormai solo appoggiate a quelle di Lupino, che concentrava sulla mia gola il suo peso e il suo delirio.
Mi fu impossibile anche sputargli in faccia. Me ne stavo andando. Era come la corrente di un fiume: pian piano ti invitava a seguirla, unirti a lei, poi ti accoglieva placida e infine vi allontanavate insieme, senza pensarci. Anche le gambe cominciarono a perdere forza. L’altare mi sosteneva mentre i piedi si allungavano a toccare già il legno della bara. Dovevo resistere, mentre il mio corpo si spegneva, la mia mente era ancora terribilmente presente, spalancata sull’orrore. Le gambe, dritte e tese come tronchi, non riuscivano però a dire ai piedi di fare presa. Se avessi potuto sollevarmi di qualche centimetro e far valere su Lupino la mia altezza, qualcosa sarebbe potuta cambiare. Ma proprio quei fottuti piedi da sbirro continuavano a scivolare in avanti. Imprecai ma tutto ciò che uscì furono degli intellegibili suoni gutturali che, lo so, stimolarono ancora di più il centro del piacere di Lupino.
La ciliegina sulla torta.
Mentre pensavo all’erezione che Lupino potesse avere in quel momento, il piede sinistro smise di scivolare in avanti e io smisi di sprofondare. Mi ero fermato ma non sapevo chi ringraziare.
Trovai le forze per scalciare e il ghigno dell’uomo che fronteggiavo si affievolì per un momento, non però la morsa fatale attorno alla mia gola. Ero ormai oltre la soglia del dolore e della disperazione quindi poteva stringere quanto voleva ma avrebbe solo accelerato il mio trapasso, non mi avrebbe fatto desistere dal provare a sopravvivere.
Mossi la gamba un’altra volta. Credo lo colpì sotto il ginocchio.
La sequoia rimase solida. Le dita affondavano nella gola. Calciai più in alto ma il ginocchio piegato fece resistenza e mi respinse.
Cazzo.
Cristo santo.
Il piede a martello colpì Jack nella parte interna della coscia, il femore si torse leggermente sull’anca e ne destabilizzò l’equilibrio.
Rabbioso, Lupino prese a strattonarmi agitando la mia testa come una maracas. Voleva staccarmela dal collo. Fu quello a permettermi di riprendere a respirare.
Scalciai ancora e quella volta, a suonare come maracas, furono i suoi testicoli. La sua bocca descrisse una O panciuta mentre lo scampanellio ci diceva che un angelo si era appena guadagnato le ali. Entrai nella sua guardia e piantai i gomiti nell’incavo delle braccia, scrollandomelo di dosso e sgusciando via di qualche passo.
Cercai la pistola ma mi sarebbe andato bene anche un cero da cerimonia per fracassargli la testa. Mentre i miei occhi giocavano a flipper da una parte all’altra del pavimento, un treno merci mi investì. Il pugno di Lupino mi fece saltare un dente. Schienato sull’altare, mi ritrovai nella posizione da sesso “convinto per sfinimento”.
Jack si scagliò su di me. Sollevai le gambe in tempo per stampargli sul grugno la misura delle scarpe. Gli smontai il setto nasale, anche se, abbozzato com’era, non doveva essere la prima volta per lui. Lupino scosse energicamente il viso a destra e sinistra, come a scacciare una mosca e tornò alla carica, con il sangue che usciva a fiotti disegnandogli un paio di baffi. Lo accolsi migliorando il suo sorriso con una testata. I denti mi aprirono la fronte ma Lupino indietreggiò.
Mi avventai su di lui con tutto il mio peso. Rotolammo fino a metà della scalinata oltre cui infuriava l’incendio. Finendo a cavalcioni su di me Lupino tentò di stordirmi con un pugno e provò a spaccarmi la testa contro i gradini. Sapevo che non si sarebbe fermato neanche quando dal mio cranio sfondato la materia cerebrale gli fosse scivolata dalle dita e il mio teschio sarebbe andato bene come calice cerimoniale. Allungai una mano e gli ficcai le dita nelle orbite. Affondai le unghie nella carne mentre si scansava. Colsi quell’attimo per ribaltare le nostre posizioni. Sormontandolo gli spezzai due costole per lato. Jack non mi diede la soddisfazione di provare dolore ma non mi offesi. Le ginocchia gli bloccarono le braccia e mi permisero di usare la sua faccia come un punginball.
Destro. Sinistro. Destro. Sinistro. Ripetere.
Le ossa non cedettero subito, dovetti scorticarmi le nocche prima di affondare nella carne.
Sinistro. Destro.
Un crack si accese nella mia testa come una lampadina.
La mandibola aveva ceduto, andando a fare compagnia allo zigomo sfondato e le orbite rincassate. Lunghi fili di bava mi colavano giù dal mento e gli schizzi di sangue raccolto dai miei pugni mi facevano assomigliare a un quadro di Pollock vivente.
Non sapevo se Jack respirasse ancora. Lo scoprì quando mi disarcionò mandandomi a gambe all’aria.
Era dopato come un cavallo.
Sdraiato sugli scalini come in un film di De Palma guardavo le lingue di fuoco rincorrersi sul soffitto. Le dita della mano sfiorarono qualcosa. Non capì subito di cosa si trattasse solo perché la fatica mi aveva infine trovato. Mi allungai con uno sforzo riuscendo a impugnare la magnum. Lupino si rialzava in quel momento.
Sparai e la figura si piegò su se stessa. Volevo essere sicuro che rimanesse a terra. La Valchiria era una brutta bestia: sembrava tramutare gli uomini in zombie indemoniati.
Gli scaricai addosso tutto quello che rimaneva nel caricatore. Premetti il grilletto una decina di volte ancora dopo che gli otto colpi furono terminati da un pezzo.

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