Alessio Chiadini Beuri: Dentro il libro e oltre - Chi più Re di Noi (la musica): Summer in the city & Sweet child o mine

venerdì 23 ottobre 2020

Dentro il libro e oltre - Chi più Re di Noi (la musica): Summer in the city & Sweet child o mine

 





Summer in the city non è solo il secondo capitolo di quello che sarebbe poi diventato quel romanzo gargantuesco, eccessivamente lungo per un libro che si pone un intento tanto nobile quanto far ridere. Alla lunga un certo tipo di comicità e di escamotage narrativi stancano e ciò che era iniziato come una piacevole lettura, frizzante e sopra le righe, diventa uno di quegli imbarazzanti film rebootizzati per la dodicesima volta (tipo Psycho o I Fantastici Quattro).

All’epoca, però, non pensavo a niente di tutta questa filosofia letteraria e scrivevo per scrivere, per non perdere quello slancio che, per quel tipo di scrittore come me, è perla rara (io sono uno di quelli ridicolmente attaccati a una liturgia di creazione che ha bisogno dei suoi tempi, dei suoi modi, dei suoi spazi e dei suoi umori e che senza il manifestarsi contemporaneo di tutte le condizioni ideali non scrive nemmeno una riga. Salvo che poi, durante il flusso creativo, realizza che tutte le seghe mentali spariscono lasciando soltanto l’unica certezza, monolitica e tautologica: ‘Scrivi e basta, coglione! Era così difficile?’)

In Summer in the city avevo appena preso l’onda della storia e cercavo di mettermi in piedi sul surf, senza ancora sapere se fossi riuscito a starci per un minuto o per un anno e avevo tempo di fare molti piani. In tutta sincerità, per la prima decina di capitoli il traguardo mi è sempre stato piuttosto oscuro: mi lasciavo guidare dall’istinto e dalla scintilla di follia che avevo atteso così a lungo per inseguire. Quello che sapevo è che dovevo far parlare Enrico, conoscerlo e capire cosa avrei potuto fargli fare. Il fatto che sia un personaggio in parte autobiografico non mi dava lo stesso il permesso di fargli fare quello che mi pareva, altrimenti avrei scritto soltanto la storia della mia vita e tutti avreste comprato un altro libro, di un altro autore. Dovevo delineare un personaggio che potesse arrivare a convincersi che i rumori provenienti dal soffitto appartenessero ad una ragazza e, di quella stessa ragazza, farlo perdutamente innamorare. Per questo motivo la noia di giorni estivi trascorsi in una città deserta mi avrebbe spianato la strada per quell’estremizzazione dei sensi e per quel parziale straniamento dalla realtà che cercavo.

L’estate non è esattamente la stagione che preferisco e conosco anche troppo bene il tedio e il ripetersi incessante di giornate sempre uguali a se stessi, dove il divenire è rallentato e il futuro è oltre la linea dell’orizzonte, invisibile agli occhi e al cuore.

Così, per dare il giusto mood al capitolo ho ripreso senza vergogna, il titolo della canzone dei Lovin’ Spoonful che quelle brutte sensazioni me le faceva ricordare così bene. Ho piazzato la cover dell’album del 1966 come immagine del post e, non pago, ne ho tentato anche una traduzione dall’inglese al “chiadinese”. 

Ma perché sembra che mi accanisco contro questo brano e i suoi autori, che mi hanno fatto di male? 

Assolutamente nulla, ci mancherebbe, manco ci conosciamo. In effetti, non avrei saputo della loro esistenza se non fosse stato per il film Die Hard 3. Un giorno, l’anno non lo ricordo proprio ma erano gli albori di Youtube e il mondo dell’internet era ancora più sconfinato e permissivo di quanto è diventato poi, cercavo contenuti inediti (almeno per me) dei miei film preferiti e fu allora che mi imbattei in un montaggio tributo in cui ritmo e azione si sposavano talmente bene da farmi desiderare di ascoltare e riascoltare la canzone fino a che non l’avessi interiorizzata.



Die Hard 3 si svolge in una lughissima giornata estiva nella torrida Los Angeles con un Bruce Willis scazzato al massimo che prima passeggia in mutande per la città con un cartello in cui dice che odia i “negracci”, poi sfancula telefonicamente un terrorista che ha appena fatto esplodere un edificio minacciando di non fermarsi e vomita sarcasmo e battute al vetriolo su chiunque gli capiti a tiro. Per non parlare della corsa in taxi con il buon samaritano Samuel L. Jackson o della rissa in ascensore che Capitan America scansati proprio. Proprio l’inizio, in cui vediamo un John McCLane sfatto, in canottiera e con i postumi di un’emicrania perforante, mi ha fatto sentire tutto il peso di quelle giornate “no” in cui anche svegliarsi è un crimine contro se stessi. Perciò detto fatto, ecco Summer in the city dei Lovin’Spoonful, ufficialmente il primo brano in assoluto che ha avuto l’onore di rendere palpabili le sensazioni che provavo e che avrei trasmesso dentro qualcosa che avevo scritto.

Per la parte musicale del secondo capitolo di Chi più Re di Noi non è tutto qui. Fanno la loro comparsa anche coloro che costituiscono la costola primigenia, il pilastro portante di questo eccentrico romanzo: i Guns N’Roses e la loro leggendaria Sweet Child o’ mine. Come appartenente all’annata 1986 ed essendo fondamentalmente un vecchio estimatore di un certo rock sconosciuto degli anni ‘70 e ‘80 in un corpo giovane, i Guns non hanno mai fatto parte del mio campionario di musica preferito e, a parte qualche brano, lo rimangono tuttora. Ma non ero io, o Enrico a doverli ascoltare, bensì l’inquilina del terzo piano. Quella scelta calzava perfettamente con l’immaginario collettivo della studentessa universitaria fuorisede: intellettuale, naive e assolutamente alternativa, oltre che bellissima pur non possedendo i canoni delle modelle delle copertine patinate. Quella era l’immagine che si doveva stagliare davanti agli occhi di Enrico: una ragazza con le camicie di flanella legate ai fianchi, con canottiere bianche di una marca non identificata, jeans strappati e Doctor Martens.


È la prima volta che rifletto a fondo sulla cosa ma la rivelazione che vi ho fatto posso giurare che sia autentica. Durante tutta la stesura l’inquilina non ha mai avuto queste sembianze, almeno non con questa accuratezza e definizione. Non è importante immaginarla, comunque. Non è importante immaginarla come vuole l’autore, soprattutto, proprio perchè la sua natura le richiede di essere la personificazione di una fantasia.

Avrei potuto scegliere i Nirvana invece che i Guns, me ne rendo conto ma i Nirvana mi stanno sul catso quindi vai di Guns.




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