Alessio Chiadini Beuri: Oltre la breccia

mercoledì 13 novembre 2019

Oltre la breccia





Presi a sinistra verso le scale.
La porta conduceva a una zona abbandonata, chiusa fin dagli anni quaranta. Qualcosa di grosso stava accadendo a Roscoe St. Forse per questo Alex mi voleva incontrare là…o forse no. In un modo o nell’altro dovevo scoprirlo.
Mi feci largo tra grandi casse di legno tarlate e muri scarnificati dall’umidità. Mancò poco che non sparassi a due topi di fogna grandi come cani. Oltrepassai un’altra porta e finì scaraventato in un groviglio di corridoi e scalinate. L’oscurità era così densa che ad ogni respiro mi si insinuava dentro un po’ di più. Quando sentì un rumore di acqua e il mio piede affondava in un liquido nero e melmoso capì che ero andato così in fondo a quella storia da finire nella rete fognaria della città. Forse qualcuno avrebbe detto che finalmente Max Payne si era ricongiunto al suo mondo ma per me era solo un venerdì sera come tanti.
Non mi dava fastidio l’odore dei liquami umani né il freddo pungente che abbracciava le ossa, quanto più il fatto che non sapevo ancora cosa ci facessi lì, né cosa c’entrasse tutto questo con Jack Lupino e la mia indagine.
Alex Balder avrebbe dovuto essere molto convincente quando sarebbe venuto il suo turno.
Seguì il condotto principale con la fioca luce delle lampadine di servizio a sei metri sopra la mia testa. Di tanto in tanto, nel soffitto, si aprivano grate quadrate traboccanti di densi sbuffi di vapore. Continuai finché l’eco delle gallerie non tornò indietro con un groviglio di voci che non compresi.
Armonizzai il suono dei passi con il ritmo della corrente di melma sotto i miei piedi. Scorsi tre uomini su quella che una volta era stata una banchina della vecchia linea, ora in disuso. Era sommersa di casse di legno. Da quello che riuscì a vedere erano tutti e tre armati. Uno di loro stava predicando che “…non bisogna mai lamentarsi.”
Mi sembrò un ottimo consiglio e quell’uomo aveva quasi certamente la fibra morale per fare ciò che professava. Mirai al suo ginocchio ma quella che gli uscì di bocca non fu una lode al Signore.
Il tipo si piegò sull’articolazione ferita che non poteva reggere il suo peso un secondo di più mentre gli altri che erano con lui decidevano cosa fare. Mamma diceva sempre che se aspetti troppo la vita finirà per decidere al posto tuo. Purtroppo, nel loro caso, al posto della Vita c’era Mr. Payne e una semiautomatica dai modi arroganti.
Mentre il predicatore tentava di rimettersi in piedi, gli altri si impegnarono a mancarmi. Il mio vantaggio era stato tenermi al di fuori dal cono di luce delle lampade di servizio. Quando il predicatore alzò la pistola contro il bagliore che aveva appena ammazzato i suoi due compari gli inchiodai la mano al calcio della pistola. A quel punto uscì dall’ombra e coprì con un balzo il dislivello tra il torrente di merda e la banchina.
«Cosa sta succedendo, amico?» l’uomo mi fissava ma il suo sguardo era vuoto, come se non riuscisse a trattenere la vita dentro di sé. Lo scossi con forza cercando di capire cosa gli prendesse. L’articolazione era andata ma non era stato un colpo fatale. Notai però anche una macchia scura sotto l’ascella. Si espandeva e l’uomo spirava sotto di me. Distinsi i contorni di un foro di proiettile e capì che era stato raggiunto dal fuoco amico mentre quelli sparavano alla cieca e lui era al centro dell’area di tiro. Se ne andò senza avermi risposto.
Tanto peggio per me, dovevo proseguire e vedere quant’era profonda la tana del Bianconiglio.
L’entrata davanti a cui si stavano dando da fare i tre era una galleria in salita, una gola profonda lastricata di scalini e foderata di piastrelle piccole come tasselli di un mosaico e grigie come i denti di un morto. A metà della mi ascesa il mondo iniziò a scuotere e ondeggiare e un boato crebbe cavernoso e mi avvolse come un’onda di piena sormontando il filo rosso dei pensieri e il mio fiato corto. Al frastuono seguì la pioggia di calcinacci che la volta mi rigurgitò addosso. Il soffitto stava cedendo ma la frana doveva essere così estesa da coinvolgere l’intera stazione. Mi avrebbe trovato ovunque mi fossi andato a rifugiare.
«Cosa diavolo è stato?»
Nel tentativo di rimandare il più possibile la fine del topo raggiunsi la cima della scalinata solo per godermi in stereo l'eco di quella che in quel momento riuscì a catalogare come una esplosione enorme. Non poteva essere la locomotiva che avevo fatto schiantare perché il casino era sopra di me, non sotto. In più, la locomotiva era elettrica, perciò niente carburante.
«Ci sono, passami il detonatore.» sentì dire da una voce di uomo rauca dal troppo fumo una volta che l’universo si riassestò. A coprirmi dalla sua vista un muro di casse di legno ammuffite attraverso cui osservai parte della scena grazie ai fori tarlati e alle assicelle mancanti. Un uomo era in ginocchio di fronte a una vecchia porta blindata ad armeggiare con quelli che avevano tutta l’aria di essere un paio di chilogrammi di C4 mentre il “fattorino” era un biondino appena sbucato da un grosso squarcio nella parete. In mano avevano una specie di telecomando.
«Se aprite anche quella moriremo di spifferi!» mi lamentai emergendo dal mio fortunoso nascondiglio, mirando alla testa di quello che aveva l’aria di essere il più bellicoso, nonostante in quel momento si trovasse in una posizione più di offerta che di attacco. Bocconi.
L’uomo mi rivolse uno sguardo meravigliato e boccheggiò come alla ricerca di un po’ d’aria fresca.
«I contribuenti sanno dei lavori di ristrutturazione? Qualcuno li ha consultati sul colore delle piastrelle del bagno?»
«Lo ammazzo questo bastardo!» gridò il secondo, isterico.
«Ehi! Mettiamo in chiaro un paio di cose: che avete oggi? È per caso la giornata mondiale del “apriamo un secondo buco del culo al vecchio Max, vedrete come ci ringrazierà!”? E, secondo, solo mia madre può chiamarmi bastardo dato che è l’unica che può dirlo con certezza!» scherzavo e intanto riprendevo fiato. Non volevo ammetterlo ma l’esplosione mi aveva lasciato addosso un’extra sistole e una lunga striscia umida nelle mutande.
L’uomo in ginocchio tentava di stabilire un contatto visivo con il compare spingendo la torsione del collo al confine con la possessione demoniaca.
Non avevo idea di cosa stesse cercando di dirgli: se starsene buono buono, visto che il biglietto di sola andata per l’obitorio lo aveva estratto lui o se volesse incitarlo a mettere fine al mio mal di testa girandone per sempre l’interruttore con un proiettile. L’uomo in ginocchio poteva vedere al massimo la fine della propria spalla e ascoltare il biondino passare senza sosta il dito sul grilletto e il pollice sul cane della pistola, nella presa sudata della mano lungo il fianco. Nell’altra, la presa sul detonatore. Anche il tizio in ginocchio sudava come un maiale ma era probabile che fosse a causa dell’incertezza sul fatto che avrei sparato per primo a lui o al socio quando questi avesse finalmente deciso di puntarmi l’arma contro e aprire il fuoco. Capì di aver sudato a vanvera quando feci saltare il braccio del compare che aveva finalmente deciso di sollevare la pistola.
«Scusa, riflesso condizionato!» mi scusai raccogliendo l’arma da terra. Per il telecomando, invece, nulla da fare: si era spaccato in due e aveva smesso di lampeggiare. Dovetti urlare per sovrastare lamenti. «Molto male?» mimai aiutandomi con la mia leggendaria espressività. Lo mandai a nanna colpendolo alla base del collo. Mi rivolsi all’altro.
«Cosa state facendo e quanti ne trovo dall’altra parte?» poi non gli dissi che ormai poteva anche voltarsi.
«Questo vecchio tratto della metropolitana va a finire dritta nel fianco del caveau della Federal Trust Bank, amico.»
«E quanti porcellini dovrò soffiare via?»
«Di sotto ce ne sono altri cinque. Non uccidermi, ti scongiuro!»
«’Notte!» lo colpì così forte che la testa andò a sbattere contro la vecchia porta arrugginita che suonò incompiuta come una campana spezzata. Sarebbero entrambi rimasti a nanna per un pezzo.
Oltre la breccia, allora.
Per finire, non dimenticarti che il romanzo su Max Payne esiste e lo puoi leggere senza spendere un euro che è uno!



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