Alessio Chiadini Beuri: merda nera

mercoledì 13 novembre 2019

merda nera






Fuori, la città sembrava un mostro crudele avvolto da una gelida oscurità. Stavo cercando di risalire dai pesci più piccoli fino alla cima. A chi gestiva il giro della droga. Alex e B.B. erano i miei unici contatti della DEA, i soli al corrente della mia missione.
«Parla B.B.: Abbiamo scoperto qualcosa su Jack Lupino. Devi incontrarti subito con Alex, alla stazione di Roscoe Street.»
Non avevo più visto Alex da quando lavoravo sotto copertura.
Infuriava una vera tempesta di neve. Piovevano proiettili di ghiaccio come se il cielo volesse vendicarsi con la terra. Tutti cercavano un riparo, come se un domani non fosse più ricomparso.
Non che la situazione in metropolitana fosse migliore. Provavo una sensazione strana, come un improvviso montante in piena faccia. C'era qualcosa che non andava. La mia beretta si agitava sotto l'impermeabile. Ma le porte del treno si erano già chiuse alle mie spalle: troppo tardi per scendere.
Prossima fermata: stazione di Roscoe Street.
E Alex.
Il binario era deserto, le ventole dei condotti d'aria circolavano come unghie su una lavagna. Mi guardai attorno: c'era un bidone rovesciato e tutto il posto puzzava come una latrina. Andai verso i locali del personale ferroviario, dove di solito io e Alex avevamo i nostri incontri galanti.  La porta si aprì con uno stridio e quando imboccai il corridoio un brivido gelido mi corse lungo la schiena: un enorme macchia di sangue imbrattava il muro. Due mattonelle proprio al centro di quel graffito di sangue erano frantumate. Le aveva spezzate qualcosa di piccolo e rabbioso. Non era tutto, però: una lunga scia proseguiva verso la fine del corridoio, sparendo dietro una porta chiusa. Se avessi attraversato quel confine, avrei trovato un uomo morto, o un ferito grave. Forse in compagnia di una dolce crocerossina, anche se quella non era la vita giusta per certe aspettative.
Estrassi la pistola e mi avvicinai. Appoggiai un orecchio allo stipite freddo. Non un suono, non un lamento. Entrai pronto a freddare chiunque si trovasse dall'altra parte. Alla fine del fiume di sangue, riverso a faccia in giù su un pavimento lurido, c’era il corpo di una guardia metropolitana. Non un respiro di vita c'era più in quel sacco di carne che fino ad un'ora prima aveva avuto un nome e la tessera della previdenza sociale.
Il cadavere aveva le gambe rivolte verso il muro. Non c'era dubbio che non si fosse portato lì da solo. Quel locale era adibito a spogliatoio per guardie e ferrovieri, era logoro e cadeva a pezzi. Il rintocco delle gocce d'acqua nelle docce saturava di umidità l’aria.
Setacciai gli spazi per assicurarmi di non avere sorprese una volta fuori da lì, come una palla nella schiena, per esempio. Tornai al binario.
In quel momento dal corridoio arrivarono le voci di due uomini:
«Non era Jack che doveva occuparsene?»
«Lui e Mickey.» rispose l'altra ma fu interrotta perché il primo uomo mi vide comparire sull'uscio e, d’istinto, si accovacciò in posizione di tiro.
Non indossavano divise, tali e quali a me, salvo che io ero appena uscito da una porta che impediva l'accesso ai non addetti ai lavori e loro no. Quel comportamento mi sembrò strano, come la scelta di gridare “dannazione!” Invece che “fermo!”.
Comunque l'imprecazione gli restò appesa tra la gola e la lingua visto che la mia beretta non gli diede la possibilità di finirla. Lo colpì in mezzo al petto e ripiegai nel corridoio. Non lasciai il tempo di spiegarsi nemmeno al secondo che aveva estratto un revolver e aveva cercato riparo dietro una delle colonne della banchina.
Lì perquisì: avevano addosso documenti contraffatti e dei passaporti russi. Almeno non avevo ammazzato dei poliziotti in borghese.
Presi le scale tentando di risalire verso la superficie quando una serie di spari esplose in successione. Due calibri .38. 
La situazione continuava a peggiorare. In cima alle scale sbirciai oltre l'angolo: due uomini avevano appena mandato al creatore un poliziotto in quella che sembrava essere stata una vera e propria esecuzione. Magari si trattava dei famosi Jack e Mickey di cui avevo sentito parlare. Feci sbucare il braccio con la pistola e salutai con un refolo di piombo.
Mancai del tutto i bersagli e per farmelo pesare quelli cominciarono ad avanzare verso la mia posizione sparando come all'Ok Corral. Erano intimoriti da me come un branco di lupi di fronte a una cagna in calore. Quello che contava in quel momento era la fortuna e una sapiente scelta del momento giusto. Il mio mix preferito.
Mi lanciai dietro un bidone della spazzatura rischiando che una pallottola mi spaccasse il cranio in due. Mentre mi libravo come un fottuto uccello feci saltare un occhio. Il cervello dell’uomo schizzò sul muro. Atterrando con poca grazia sulla spalla scivolai al riparo, costringendo l’altro amico a venirmi a cercare. Lo fece ma gli diedi solo il tempo di mettere fuori il grugno. Il proiettile gli squarciò la gola e il sangue diede al bavero del suo giubbotto un che di natalizio.
Dopo aver passato in rassegna le loro tasche scoprì che non si trattava né di Jackie né di Mickey. Raccolsi però qualcosa che ebbi la sensazione mi sarebbe tornata utile: una Desert Eagle 12 millimetri. Un fucile d’assalto nel palmo di una mano. Natale in anticipo.
Il rumore della sparatoria, e del mio nuovo giocattolino, erano rimbalzati ovunque nei corridoi deserti della stazione. Proseguì verso l’uscita dentro un labirinto di corridoi fino a quando, dietro l’imbocco di uno di questi una voce chiamò:
«Ehi, ragazzi…?!»
E poi esclamarono “Ragazzi!” quando entrai nella visuale dell’uomo con la mia pistola puntata in faccia. Il bastardo era al di là di un cancello d’ingresso ad un’altra ala dell’edificio. Fu facile come una battuta di caccia dentro uno zoo. Non potendo frugarne il cadavere mi diressi nella direzione opposta. Mi ci erano voluti solo un paio di minuti per abituarmi al peso della semiautomatica ma restai lo stesso meravigliato da quella potenza di fuoco. Era una situazione di merda. Merda nera. Eppure continuavo a sorridere come un bambino.

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