Alessio Chiadini Beuri: Dentro il libro e oltre: Ombre di città

venerdì 25 dicembre 2020

Dentro il libro e oltre: Ombre di città

 


“[...]dall’appartamento alla mia facoltà c’è un po’ da camminare..” 

Circa 25 minuti da via Zamboni, Dipartimento di Storia e filosofia, a porta Saffi. Benché fossi in possesso di una mountain bike color verde radioattivo che lanciata poteva tranquillamente toccare i 50 chilometri orari, in quell’inverno del 2008, io inforcavo il mio eskimo verde ribellione e andavo, qualsiasi tempo facesse. 

Era bellissimo, poetico. Respiravo la città, mi riempivo di lei e fantasticavo dentro il mio involucro fatto di musica. Stavo nel mondo vivendo il mio mondo interiore. 

Tutte le mattine, dal lunedì al venerdì, uscivo di casa molto presto e, anche se lezione cominciava solo alle 9:00, alle 8:00 ero già in fila per prendere una postazione tesi a palazzo Paleotti, che aveva la seduta più comoda e più spazio tra uno studente e l’altro. Non lavoravo alla tesi, che avrei cominciato solo l’autunno successivo, ma scrivevo. Avevo messo a punto la mia routine di scrittura due anni prima. Mi ero imposto di scrivere, non importa come, almeno un’ora la mattina prima di andare a lavorare, un’ora durante la pausa pranzo e un’ora la sera dopo essere tornato a casa. Tutti i giorni, senza stacco.

In fondo scrivere non è un lavoro, per me, ma una distrazione dalla realtà, un parco giochi in cui dimenticare tutto per un po’ e lasciarsi trasportare (anche se di fatto lo scrittore ha le mani sul volante) in un altro mondo. Appena avevo un momento che me lo potesse permettere andavo al Paleotti e ricominciavo a scrivere. All’epoca lavoravo su un progetto davvero ambizioso: scrivere un romanzo che potesse competere con I Tre moschettieri di Dumas, prendendo a presto la musicalità dei versi del Cyrano De Bergerac di Rostand. È ancora tutto in piedi, anche se per il momento fermo. Per scrivere quel romanzo serve una totale immersione linguistica che finisce per coinvolgere il mio parlato quotidiano facendomi suonare come un viaggiatore del tempo approdato in un’era che non è la sua. Quando ero in quel mood pensavo e parlavo (anche limitandomi e facendo attenzione suonavo comunque un po’ strano rispetto a coloro che mi erano attorno) come un moschettiere e vedete, anche adesso, ricordando quel periodo, un po’ di teatralità è incapace di restarsene buona. Ero sempre l’ultimo a uscire dall'aula studio e i miei compagni di appartamento mi chiedevano perché rientrassi tutti i giorni alle 21.00 quando le lezioni terminavano alle 19.00. Io sorridevo mentre mi guardavano stralunati, perché lungo il tragitto di ritorno lasciavo l’eskimo aperto a svolazzare come un mantello. Era bellissimo, ragazzi. Quelle passeggiate nella Bologna di sera, con il freddo pungente a morderti le guance, sognando un sogno e sentendosi impavido e guascone è uno dei ricordi più cari del mio periodo bolognese.



La storia di come l’ho attraversata tutta, da periferia a periferia, da una porta all’altra, il giorno del mio compleanno (Febbraio, eh!) con addosso soltanto una camicia di cotone, una giacca di pelle che poco copriva (ma era figa perché era come essere l’ispettore Coliandro o Serpico), un paio di scarpe eleganti, anche loro di pelle è la storia di un due di picche. Uno dei tanti della mia vita. 


Avevo un appuntamento con questa ragazza di Bologna, a cui avevo raccontato la balla di essere anch’io di Bologna (credendo stupidamente che, al contrario, non mi avrebbe dato mezza possibilità per via dell’eventuale distanza), che sgamò dopo mezzo secondo ma che non mi fece pesare troppo. Dovevamo vederci in questo locale fuori dalle mura, una discoteca che in prima serata aveva in cartellone uno spettacolo di Giacobazzi. Non festeggiai il compleanno a Forlì con la mia famiglia e con i miei amici (non fu l’unica volta in cui sacrificai gli affetti per inseguire qualcuno - è sempre la storia di colui che antepone i sogni a ciò che ha già), ma salì sull’autobus giallo della Tper che mi scaricò a qualche centinaio di metri dal locale. Non mi portai altro che quello che avevo addosso, non volevo essere impacciato con una giacca o con altre cose a cui avrei dovuto badare per tutta la serata: dovevo essere concentrato sull’obiettivo, senza distrazioni. Era fondamentale per avere successo. 

Lei arrivò quando già la sala era stipata e non vedemmo insieme il siparietto comico ma ero certo che, una volta riunitici per il ballo (minchia, sembra di essere finiti in una scena di Footloose) avrei potuto rifarmi su quel contrattempo. Ma sbagliavo ancora. Non avevo considerato che la ragazza aveva un ingombrante strascico di una lunga storia finita da poco. Non me n’ero preoccupato perché, beh, comunque ci sentivamo e mi aveva invitato lei. Per. Il. Mio. Compleanno.

Ripeto: PER IL MIO COMPLEANNO. 

È normale che uno i buoni pensieri se li fa, no? 

No. Bisogna purtroppo fare sempre i conti sul fatto che uomini e donne sono complicati e sconosciuti a loro stessi. Per certe cose non si può confidare in nessuno. Il cuore ha una mente tutta sua. Ma questo lo capì bene solo qualche giorno più tardi, quando passai quasi tutta una giornata fra trenini locali e autobus per prendere un caffè con lei, il giorno prima di sostenere un esame molto difficile (letteratura romanza). Ottenni un 30, ma non ebbi lo stesso successo con la ragazza.

Comunque, alla fine lo spettacolo di Giacobazzi fu bellissimo, risi come un matto.


La canzone: Sinnerman by Nina Simone (1965) l'ho conosciuta grazie a Scrubs. Era la canzone che chiudeva la puntata natalizia della prima stagione. Ho quest’immagine nitida di Turk che, la notte di Natale, si precipita fuori dal Sacro Cuore per correre da una paziente che è scappata dall’ospedale ma che sta per partorire. La troverà sotto il grande albero di Natale della città. Mi è venuta subito in mente questa canzone per la colonna sonora di questo capitolo proprio perché avevo scolpito in testa la scena di Spanky/me stesso che camminava senza meta in una Bologna notturna, fatta di luci calde, sferzate di vento gelido e tanta strada da fare. I propri peccati nessuno li grida al mondo, se li tiene ben stretti, un fardello pesante da portare e scomodo da indossare che però ci teniamo addosso, troppo difficile da togliere, troppo rischioso da lasciare in giro. Sinnerman è una canzone da colonna sonora intimistica perché non va ascoltata a tutto volume dalle casse dello stereo ma con gli auricolari. Come i segreti inconfessabili e i peccati di ciascuno di noi: si raccontano all’orecchio. 




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