Alessio Chiadini Beuri: Nove Vite

giovedì 14 novembre 2019

Nove Vite





“Dopo il gran casino di Chicago dovete ringraziare solo i Puncinello se non marcite ancora in galera. È arrivato il momento di ricambiare. Uno dei nostri ragazzi più fidati ha un problemino con un gorilla che lo bracca da vicino. Dovete fare in modo che non mandi all’aria un affare importante.”

La lettera portava la firma di Angelo in persona. Era il primo indizio che il gran capo fosse in qualche modo coinvolto. Era da qualche centinaio di proiettili che avevo smesso di raccogliere prove. Mi ero spinto così oltre il punto di non ritorno da averlo oltrepassato senza nemmeno rendermene conto.
Stropicciai la lettera e la lasciai cadere sul pavimento. Gettai uno sguardo alla finestra: la bufera in corso riusciva a far sparire il palazzo dall’altra parte della strada. Quello che non era però in grado di fare era attutire il suono delle sirene della polizia, così forte che, per un momento, credetti si fossero fermate fuori dalla stanza. Erano cominciate come un sibilo portato dal vento e poi, quando i lampeggianti avevano iniziato a riflettersi sul manto nevoso, in pochi secondi erano cresciute di decine di decibel. Forse non erano gli uomini di Bravura. Probabilmente la scaramuccia con i fratelli Finito aveva allarmato qualche bravo vicino che ignorava il comandamento di omertà del quartiere e che non aveva mai sospettato del continuo via vai di prostitute e uomini per bene con il cappello calato fino alla punta del naso dall’hotel. Anche se non fossero stati lì per me, io ero comunque quello che se ne andava ancora in giro armato di tutto punto a sparare ad ogni essere vivente che si fosse palesato. Non era quindi saggio restare lì a cincischiare.
Quello che avevo trovato nella 313 però non mi portava da nessuna parte. Il timone era puntato ancora verso Puncinello ma l’oceano era pieno di squali e io avevo addosso l’odore della carne fresca. In quell’indagine dovevo mettere i piedi uno davanti all’altro o presto o tardi mi sarei trovato a penzolare nel vuoto. Senza Rico Muerte potevo ancora fare la corte a Lupino ma spingersi oltre avrebbe richiesto una rincorsa più lunga.
Uscii.
Voltai a sinistra perché dalla parte opposta c’era solo un corridoio cieco e un discreto volo nel vuoto se avessi proseguito deciso verso la finestra. Il distributore di bibite mi copriva parzialmente la visuale del corridoio gemello sull’altra ala del piano. Con Rico desaparecido era necessario che perlustrassi l’hotel, nel caso lo avessero spostato per tenermelo lontano.
Mi crogiolavo nell’idea di cominciare dal piano attico o dai sotterranei quando il destino mi volle incoraggiare con un aiutino. D’improvviso il corridoio si accese a giorno ma non riuscì a individuare la fonte di luce per via del distributore. Il boato seguì più di un istante dopo, squarciando il silenzio. Un’esplosione enorme e violenta proiettò schegge in tutte le direzioni. Molte graffiarono la parete alla mia destra, conficcandosi nel cartongesso, altre spensero neon e luci d’emergenza. Il calore mi raggiunse di striscio, grazie all’amico brontolante che mi faceva da scudo. Mi stupì quando il mio corpo si abbassò a protezione dell’esplosione perché il cervello non aveva avuto il tempo di reagire. Solo quando la sezione di pavimento mi franò sotto i piedi capì che stavo precipitando. E con me precipitava il distributore automatico.
Mi girai a mezz’aria come un gatto cercando di rotolare via appena il pavimento fosse atterrato sul piano sottostante. L’impatto fu duro e la carne ne uscì frollata e livida. La spalla sinistra uscì dall’articolazione ma ci ritornò appena lo slancio mi sbatté contro il muro. Mi accartocciai incrinando qualche costola. Niente pensieri, erano tutte cose a cui avrebbe pensato il Max Payne di domani, se mai fosse arrivato. All’eco dell’esplosione si sommò quello di ferraglia e di bollicine, come se qualcuno avesse stappato una grossa bottiglia di champagne. Il frigorifero era rimasto schiacciato sotto al proprio peso, distruggendo il carico che ora si riversava tra macerie e cemento.
Cercando di capire la dinamica mi ricordai delle bombole che avevo visto nei ripostigli. Non potevano essere saltate da sole, qualcuno doveva aver dato loro una spinta. Mi rimisi in piedi, spolverandomi i calzoni e contando le contusioni più fastidiose. Raccolsi le pistole e le indirizzai verso la volta squarciata sopra di me. Aspettavo che il bombarolo si affacciasse per controllare se lo scherzo gli fosse riuscito proprio così come se lo era immaginato. Dovetti calmare il respiro accelerato prima che mi impedisse di prendere bene la mira. Quando il fragore dell’esplosione si ridusse a ronzio potei determinare che nessuno si stava avvicinando alla mia posizione.
A meno che non fossero già appostati altrove si era trattato davvero di un incidente. Dato però che nemmeno mio padre non credette mai, diversamente da ciò che gli aveva sempre giurato mia madre, che il mio concepimento fosse dovuto a un incidente, nemmeno io ero incline ad assecondare il caso, o il destino. Comunque, se gli uomini di Lupino in quel momento non se ne stavano in silenzio dietro qualche porta, in attesa che mi mettessi in posa per una foto ricordo, comunque sarebbero arrivate presto la polizia o la mafia.
Ricominciai a muovermi per vedere se le gambe fossero ancora in grado di reggermi. Così sembrò. Raggiunsi l’inizio del corridoio superando le macerie ed esplorai quello attiguo facendo spuntare prima le pistole e poi me stesso: una landa deserta. Prima di tuffarmici come un tonno sostituì i caricatori sfiniti con altri belli cazzuti. Mi orientai fino al vano ascensori e nessun lupo travestito mi fermò per darmi indicazioni su come arrivare a casa della nonna.

Di fronte alla pulsantiera dell’ascensore maturai la decisione di riprendere la mia ricerca dal basso, guidato da una constatazione piuttosto elementare: dato che gli odori tendono a salire verso l’alto, avrei dovuto scendere per trovare la sorgente di quel tanfo di merda.



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