Alessio Chiadini Beuri: Il cuore pulsante di New York

giovedì 14 novembre 2019

Il cuore pulsante di New York



Il vecchio ascensore di servizio risuonò nel cuore dell’hotel di Jack Lupino.
Ero sceso fino alle budella di quel posto come un boccone di enchilada: pronto a scatenare fuoco e fiamme. Qualcuno si sarebbe pentito di avermi masticato. Quando le porte si aprirono mi trovai nel locale lavanderia. L’odore pungente della varichina mi fece lacrimare gli occhi. Il vapore delle macchine mi si attaccò addosso rendendo tutto più scivoloso. Sudavo in posti che nessuno mi toccava da tempo. Mi trovai in mezzo a grossi carelli di biancheria pulita e lenzuola sporche. Sacchi di asciugamani luridi e appesi su ganci venivano trasportati a dieci metri d’altezza fino a grosse cisterne di acqua bollente. Le grandi centrifughe in funzione tiravano così forte che la vibrazione si trasmetteva a tutto l’edificio per almeno tre piani.
In mezzo al borbottio captai un vociare e mi ci diressi prima di essere visto. Tre uomini seduti a un tavolo in un angolo del magazzino giocavano a poker. A un paio di metri un divano sfondato e un quattordici pollici con una pessima ricezione, sintonizzato su un notiziario a ciclo continuo. Era coerente che dentro a quel rumore persistente si fossero persi i festeggiamenti che si erano consumati di sopra. Avevo deciso per la linea morbida, ovvero passeggiare in mezzo a loro come un pellegrino che ha smarrito la strada. Quando restavano una decina di passi a separarmi da loro, una ricetrasmittente tra le fiches gracchiò per alcuni secondi. Non ci fu comunicazione ma impiegai un’infinità di tempo per mettere assieme le cose. C’era qualcosa che non era al suo posto e, per quanto guardassi, ancora non riuscivo a individuarla.
In quella che mi sembrò un’assurda discesa agli inferi continuai a camminare mentre esaminavo e scartavo possibilità. La soluzione mi raggiunse come un lampo a poco meno di tre metri dal tavolo da gioco. L’uomo di spalle si girò di scatto. I due compari, che invece avrebbero dovuto scorgermi per primi, continuarono a fissare le loro carte. Se ne rimanevano seduti mentre un perfetto sconosciuto, e un potenziale pericolo, si avvicinava senza che nessuno li avesse avvisati. Nell’istante in cui i miei occhi incontrarono quelli dell’uomo che si trovò a fronteggiarmi la mia testa stronza aveva collegato i fili, riuscendo a far ripartire il motore. Era impossibile che le radio non avessero trasmesso nulla di tutto il casino con i Finito e gli altri uomini di Lupino. E anche se fossi stato così bravo da impedirgli di usarle probabilmente la mancanza di comunicazioni costanti tra le squadre distribuite nell’hotel aveva messo i giocatori in allarme.
L’uomo aveva una grossa magnum nera. Le gambe minacciarono di lasciarmi in ginocchio. La stupidità può avere di questi effetti collaterali, oltre alla morte da povero stronzo. Avrei potuto lasciarmi andare e offrirgli pure un colpo di grazia da manuale ma mentre le forze agli arti inferiori venivano meno trovai i talloni ben piantati a terra.
Una scarica di adrenalina mi attraversò folgorando ogni briciolo di stanchezza, sconforto o resa che potevano intorpidire le convinzioni della mia resilienza in questa vita.
La parabola della caduta trovò in quell’opposizione un perno per mutare il suo corso. Così il mio errore da principiante divenne una spinta all’indietro. Sarei scivolato al massimo per un paio di metri e non avrei avuto di che ripararmi. Questo voleva dire dover rendere inermi i tre uomini prima che loro potessero ridurmi un colabrodo.
Era troppo tardi per sparare al primo uomo. Per la seconda volta, il bagliore nella camera di scoppio della magnum si fermò nei miei occhi per un tempo infinito. Lo vidi nascere, crescere ma non morire. Si aprì con l’eleganza con cui si schiude un fiore. Sapevo che inevitabilmente a quella scintilla sarebbe seguita una corsa nella canna rigata ma per quelli che a me parvero diversi minuti non vidi altro che un occhio nero e vuoto. Anche la mia caduta era un dolce abbandono su un letto di nuvole. A quella velocità non mi sarei fatto male nemmeno se fossi atterrato su un’affilata spada da samurai. Per contro, sia i miei pensieri che le mie azioni sembravano non essere preda di quel sortilegio.
Sollevai le pistole e mirai, con buona precisione, a due bersagli diversi e lontani: i due uomini ancora seduti che solo in quel frangente agguantavano lentamente le loro armi. Quando ebbi finito di impostare le traiettorie fatali, la pallottola del mio ospite fece infine capolino dall’estremità del revolver. Riuscì quasi a scorgere la sua traccia nell’aria, mista al fumo della combustione. Mi avrebbe raggiunto in pieno petto spaccandomi il cuore in due.
Probabilmente non avrei sentito dolore. Alla velocità in cui si stavano svolgendo gli eventi avrei già avuto mia moglie e mia figlia tra le braccia quando il cervello avrebbe ritrasmesso l’agonia che avrei dovuto provare. Sarei stato felice di uscire di scena sorridendo ma la spinta che avevo impresso alle gambe e che mi proiettava indietro mi avrebbe fatto perdere quel biglietto di sola andata. La pallottola mi avrebbe soltanto sfiorato, accarezzando l’aria al di sopra del mio naso.
Fortunato bastardo, Max Payne!
Tutto precipitò di nuovo, ed io con lui. La mia schiena toccò terra con violenza costringendomi a sospendere il respiro fino a momenti migliori. La mia giacca di pelle era perfetta per scivolare sul pavimento liscio e incerato della lavanderia. Lo sparo mi passò a pochi centimetri dalla faccia con un ruggito rabbioso.
Vidi tre serie di occhi strabuzzati: quelli dell’uomo di fronte a me, che già assaporava il dolce sapore della vittoria, e che non capì come avessi fatto a muovermi così velocemente; quelli degli altri due che si sentirono morire prima di aver estratto le loro armi ed essersi potuti difendere. Anche se in quel caso però, più che parlare di difesa, sarebbe stato meglio dire “fottere il coglione così stupido da scavalcare il recinto dei leoni”.
Lì colpii al petto. Un bel lavoretto. Uno si sfracellò sul tavolo, ribaltandolo in una pioggia di fiches, carte e cicchetti di whisky; l’altro andò giù di schianto, spalmandosi il muso sul pavimento. Gli occhi gli schizzarono fuori dalle orbite, accentuando la sua sorpresa.
Il primo, riavutosi dal senso di meraviglia, esplose alcuni colpi rabbiosi e tuttavia imprecisi nella mia direzione.
«Pezzo di merda!» biascicò, sputando litri di bava vischiosa da quella fogna di bocca. Certo io non ero lì per fare da bersaglio, né al suo piombo né ai suoi schizzi, così feci di lui un pacioccoso pupazzo di neve, cucendogli in sequenza una fila di cinque bottoni dorati dall’ombelico allo sterno, alternandone uno da beretta e uno da Desert Eagle. I proiettili si conficcarono con soddisfazione in quel ventre sporgente. L’uomo crollò rivolgendomi un ultimo sguardo di disappunto.
«Fanculo a me!» mi tirai su. 


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