Alessio Chiadini Beuri: Panni sporchi

giovedì 14 novembre 2019

Panni sporchi





Feci a braccio di ferro con il vento che spingeva sulla porta, scocciato che non sarei rimasto lì a giocare con lui. Il muro di tanfo su cui rovinai fece partire una serie di allarmi blippanti e scampanellii. Il posto era un calderone deprimente di scorie umane, poltiglie mal digerite, sudore vecchio, vomito e disillusione.
Conoscevo la materia.
Portatori di quel benedetto fetore, una massa informe di derelitti, per lo più accolti dal benevolo pavimento e dai caritatevoli muri. I più mi guardarono come si guarda Lucifero venuto a mietere anime. Atterriti e meravigliati nello stesso, medesimo e assurdo attimo. Qualcuno smise persino di lamentarsi.
«Buoni, figli miei! Pane e pesce vi aspettano al McDonald’s all’angolo, il mercoledì a 1 dollaro. Per il vino ci sto lavorando, ma non faccio miracoli. Il giovedì c’è l’offerta sul McFlurry, se intanto può andare.»
Drogati, plagiati e assuefatti a quel veleno chiamato Valchiria. E io mi trovavo al centro di quel girone infernale cercando un sentiero per risalire a colpi di piombo e battute al vetriolo.
«È come se lo spazio mi stesse inglobando!» tra lo stupore per la mia comparsa e i miasmi di quelli che non riuscivano a tenere nulla nei loro stomaci, un grido delirante e sconclusionato fomentò quello stato irreale di sospensione della logica in cui vivevano quegli esseri, causando grida di vivido terrore e atti di autolesionismo volontario.
«È la fine del mondo come lo conosciamo!» rincarò un secondo. Non si trattava di una replica a un dialogo ma della battuta di un monologo solitario.
«Non lo diresti con quel tono se sapessi da dove vengo io, amico.» risposi.
Dietro al banco della lavanderia c’era una porta d’acciaio con una fessura quadrata ad altezza occhi, come una bisca qualsiasi. Camminai in mezzo a quel groviglio di corpi tenendo il calcio della pistola pronto a calare sulla prima nuca che avesse accennato ad affondare i propri denti nelle mie caviglie. Di tanto in tanto, i tossici di Valchiria tendevano a dare qualche assaggio alla carne umana. Credo che sia una specie di regressione alla fase orale più che vero cannibalismo. Sorrisi pensando che tutto avrebbe assunto un aspetto meno macabro se la fase in questione fosse stata quella anale.
Vidi tremolare di luce il profilo di una seconda porta, sulla mia destra. Se si trattava di fiamme vive, avevo trovato qualcuno che aveva almeno iniziato uno stadio evolutivo che comportava l’accensione del fuoco, e quindi un grado di civilizzazione superiore rispetto a quello della melma primordiale che mi circondava. Quello o un principio di incendio. Scardinai la porta con un calcio e mi trovai a sbattere l’erezione della mia pistola contro il grugno di un uomo privo della quasi totalità di denti e capelli che, per la sorpresa, lasciò i suoi sfinteri dando vita al suono di uno scroscio d’acqua dentro una grondaia.
«Non sparare, io…»
Altro giro, altro drogato. Alle sue spalle, un secondo tizio si scaldava le mani davanti a un barile in cui bruciavano cartoni di supermercato e stoffa imbevuta di nafta agricola.
«La lavanderia, cosa c’è al di là dell’ufficio?» chiesi senza dilungarmi in convenevoli.
«I vestiti, amico?»
«Cerca di renderti utile nei prossimi cinque minuti.» bluffai tirando indietro il cane della pistola.
«Cosa? No, no. Certo che so cosa c’è!»
«Bene, vorrei che fossi tu ad accompagnarmi al ballo, questa sera.»
«Tutto quello che vuoi, te lo prendo anche in bocca se non mi spari!»
«Lo faccio se non la chiudi, la bocca!»
«Okay, okay!»
Afferrai il rifiuto umano per il bavero di quello che un tempo era stato un bel giubbotto e, memorizzando quali dita mi sarei dovuto lavare più tardi, lo strattonai fino alla porta con la feritoia. In un paio di occasioni inciampai nei piedi e nelle schiene dei compagni di merende che erano accasciati a terra.
«Ora fai la tua magia, coniglietto.» dissi al mio cavaliere.
Bussò. «Sono io, aprite!» la prima sillaba della prima parola la balbettò con la mandibola che scodava da una parte all’altra sotto il labbro sudato e i denti radi e storti. «Fatemi entrare, svelti!» il finale gli uscì più convinto, ma non con l’autoritarietà che pensava. Un cane fradicio che mugola per un moncherino d’osso avrebbe avuto più appeal.
«Vacci piano!» replicò la voce dietro la porta. «Parola d’ordine?»
«Eddai!»
«John chi?»
«John Who.»
Con mia meraviglia, quello scambio idiota servì a permettere l’accesso ai tesori della caverna delle meraviglie. I chiavistelli si sbloccarono e la serratura girò libera. Una filastrocca da terza elementare era forse necessaria per il target medio di clienti. Quello che non avevo previsto, però, era che il mio uomo saltasse dentro spalancando la porta.
«È una trappola!»
Mi aveva tratto in inganno la serie continua di tic e di spasmi muscolari di cui il tipo costituiva un vero e proprio campionario medico. Non sapevo se i danni neurologici facessero parte del suo bagaglio prima dell’incontro con la droga o una diretta conseguenza ma non era il momento per un’anamnesi approfondita. Gli dovetti sparare alla schiena per togliermelo dalla linea di tiro. 
Non interruppi la sequenza di sparo: dalla schiena del Mastro Di Chiavi passai al Guardia Di Porta, la cui testa mancai rifacendo il profilo alla feritoia. Il cadavere del drogato bloccò la porta dandomi il tempo di avventarmici contro, insinuare il braccio armato e liberarla dall’ostruzione che mi impediva di passare.
«Potreste cambiarmi 10 dollari? Ho usato tutti gli spicci per chiamare le vostre madri!»
Ritrassi il braccio per far riposare le pistole. La rullata del piombo mafioso contro l’acciaio della porta mi fece rimpiangere di avere un udito così buono.
Scostando l’orecchio per evitare di uscirne troppo imbecille, l’occhio riuscì a farsi una mappa di metà dell’ambiente dall’altra parte. La stanza era profonda circa venti metri e una fila di lavatrici industriali prendevano polvere lungo il muro.
«Ho capito! Errore mio: non si parla delle mamme degli altri, d’accordo! Chiaritemi un punto, allora: come state a sorelle?»
Mentre lo dicevo sparai dentro due colpi alla rinfusa. Un proiettile si perse nel cassone frontale di una lavatrice a metà della fila, il secondo fece invece esplodere uno degli oblò. Quello diede il via a una seconda scarica, più violenta. Erano solo in due a sparare. Forse gli altri stavano arrivando ma i miei nuovi amici erano usciti di casa con i calzini pesanti: due mitragliatori UZI corredati da un fucile a canne mozze. Lento ma devastante, un tritacarne.
Aspettai che terminassero il loro bellicoso amplesso per scostare cautamente la porta blindata e falciare chi sarebbe entrato nel mio campo visivo. In fondo della lavanderia si apriva un corridoio inghiottito dal buio. Mentre davo la caccia a Cannemozze e Uzi, avrei dovuto stare attento a cosa sarebbe sbucato da là dentro.
Se i due amici non erano già andati a ficcarsi in quel pertugio allora continuavano a sparare e rinculare allegramente. Mentre mi eccitavo alla vista di una seconda, fiammante, distesa di lavatrici marce, con la coda dell’occhio agguantai un bagliore. Il cane indietreggiò e per due volte colpii il percussore. Mentre un’imprecazione mi arrivava distante, un’ombra riempì il mio orizzonte. Il primo colpo di fucile si aprì in un cerchio letale. Non era un’arma a lunga gittata ma due acini di quel grappolo di piombo raggiunsero lo stesso la mia posizione. Uno si conficcò nel pavimento a dieci centimetri dalla mia arteria femorale, l’altro lo deviò lo spigolo della porta, altrimenti mi avrebbe centrato un occhio e spappolato il cervello. L’uomo non aveva aspettato di vedere centrato il bersaglio e aveva continuato ad avanzare prima di far cantare la seconda canna. Non avrei più potuto saltare a destra e sinistra come un coniglietto che sfugge alla purga. Mi concentrai su quel volto sfigurato dalla collera, sui lineamenti deformati come in un brutto dipinto, sugli occhi sbarrati a sporgere dalle orbite, sulle narici allargate dallo spasmo di una respirazione concitata, sulle bave di saliva che congiungevano i denti delle due arcate, sulle vene del collo ingrassate di sangue che mettevano alla prova la resistenza del primo bottone della camicia. Una faccia come quella avrebbe spaventato la mia piccola Rose e l’avrebbe perseguitata nei sogni. Forse fu la consapevolezza che lei vivesse ancora attraverso me che mi impedì di accettare che, guardandolo attraverso i miei occhi, avesse potuto spaventarsi. All’indifferenza di morire montò l’istinto di protezione e quasi non mi accorsi di sparargli in faccia. La volevo spegnere come si spegne una lampadina. Cancellarla dalla storia. Tre proiettili e il mio angelo avrebbe dormito senza brutti sogni. L’orco stramazzò facendo vibrare il pavimento, con mezza testa spalmata su pareti e lavatrici in fase di risciacquo. 




Puoi scaricare l'intero romanzo (.MOBI, EPUB) per il tuo E-Reader e il PDF per avere la tua personale copia cartacea!



Inserisci la tua mail e scegli il tuo formato!
 
                                                                             


Dopodiché, oltre ai file, riceverai anche i link per ascoltare i tre capitoli dell'audiolibro prodotti insieme a Casanova&Loreti. Il progetto è quello di realizzare l'intero romanzo e così ho pensato a una piccola compagna crowdfunding sulla piattaforma Ko-fi.
L'audiolibro sarà disponibile a tutti in forma gratuita!
Basta davvero poco!


Clicca QUI!

 





Nessun commento:

Posta un commento