Alessio Chiadini Beuri: polizia brutale

venerdì 15 novembre 2019

polizia brutale

 

Era la mia seconda corsa in treno e, da come era proseguita la giornata, non prometteva niente di buono. Il vento gelido mi graffiava il volto come rasoi di ghiaccio mentre iniziavo a perdere la sensibilità degli arti. In lontananza anche loro: le sirene di un’intera città che mi stava braccando.
New York mi sfrecciò davanti come un’immagine sfocata, con le sue distese di camini anneriti e file interminabili di antenne tv. Quando finalmente il treno rallentò la sua corsa, Gognitti fece la sua mossa. In quel punto la sopraelevata lambiva la maggior parte dei tetti degli edifici di modesta altezza e venne naturale a Vinnie raggiungere il bordo esterno del vagone, su cui se n’era rimasto aggrappato, e tuffarsi di lato. Il balzo gli fece superare agilmente la recinzione metallica che divideva la ferrovia con la città e lo portò a rotolare diverse volte sul rivestimento impermeabile del tetto di una palazzina malmessa. Prima che la locomotiva iniziasse la brusca svolta che l’avrebbe portata in Harlington Road, saltai anch’io.
«Controllo biglietti, signore. Un uccellino mi ha detto che lei ne è sprovvisto.»
Mi ero rialzato prima di Vinnie e adesso lo tenevo sotto tiro. Il volo dal treno doveva aver contribuito ad avvicinare ancora un po’ l’orizzonte della sua dipartita. Respirava affannosamente e tutto se stesso era impegnato a chiudersi sullo stomaco, da dove il fiotto di sangue aveva ormai imbrattato per intero il vestito di raso con cui Vinnie era solito avere il coraggio di mostrarsi in giro.
Gognitti, a corto di fiato per una frecciatina verace, si apprestò a rispondermi con l’ennesima sventagliata, deciso a suicidarsi, quando dal frastuono della bufera venne la cadenza rassicurante dell’elica di un elicottero.
«Max Payne! È la polizia di New York. Getti le armi immediatamente e si sdrai a terra! Ha cinque secondi per arrendersi!»
Non mi era concesso di sperare nella cavalleria al galoppo, d’accordo, ma non meritavo nemmeno quello.
Vinnie mi sparò ma mi scansai in tempo. Sfortunatamente il dipartimento di polizia volle festeggiare con me manifestando la propria gioia togliendo la sicura e facendo cantare il mitragliatore in dotazione all’eli velivolo.
Corsi dietro a Gognitti, che aveva colto quella ghiotta occasione per sparire, e non smisi finché non mi infilai dentro l’edificio dalla porta antincendio che sbatteva maltratta dalla tempesta. Me la richiusi alle spalle con forza. La mia schiena si stampò contro le sbarre di ferro di una balaustra. L’acrobazia mi riallineò la colonna vertebrale. Uno sciame di pallottole di grosso calibro si schiantò contro la porta tagliafuoco, facendola assomigliare al volto brufoloso di un tredicenne.
Strada chiusa. Una nuova via da aprire.
Diedi una veloce occhiata attorno. Il pianerottolo su cui stavo perdendo tempo era un fazzoletto d’acciaio sospeso su un dirupo fatto da un vorticare di scale di cui non vedevo la fine.
Ansimante e gocciolante, invece, un piano sotto di me, si trascinava il mio compagno di giochi Vinnie, che si era tenuto la palla e voleva dettare le regole.
Gli lasciai due post-it avvolti nel piombo per ricordargli di non lasciarmi indietro come sua abitudine. Gli spari rimbombarono nella tromba delle scale. Gognitti guardò su e mi vide. E aumentò il passo.
Mi alzai e lo seguì. Nonostante fosse ridotto a un colabrodo la droga che aveva in corpo e la pazzia che aveva in testa riuscirono a tenerlo a distanza da me tanto che arrivò al cortile interno del palazzo prima che potessi mettergli le mani addosso.
La prudenza mi rallentava. Quando poggiai in sicurezza il primo piede sul pavimento di cemento del cortile, Vinnie si era fatto dare un passaggio da un montacarichi da cantiere del palazzo in costruzione a fianco. Mi sparò da dietro il suo ghigno strafottente, scarsamente interessato a prendere bene la mira.
Come al solito, quello si sarebbe dovuto ciucciare la sfacchinata ero io. Del futuro grattacielo, per il momento, non c’era altro che lo scheletro di tondini d’acciaio e gettate di calcestruzzo. Tutto il resto avrei dovuto immaginarlo.
Gognitti si era fermato attorno al decimo piano, oltre non avrebbe potuto andare.
Lastre di lamiera collegavano i piani, sostituendo le scale, e lunghe assi di legno rimpiazzavano il pavimento mancante. Chiodi e viti sporgenti avrebbero bucato come burro la suola delle mie scarpe in finto cuoio. Quel posto era la fiera del tetano.
Inseguivo Gognitti in un mondo sospeso nel vuoto di una tremenda caduta. Dovevo stare attento a non inciampare nei fili elettrici penzolanti, a non azionare inavvertitamente qualche sparachiodi dimenticata da un operaio distratto e appoggiata su un trespolo ad altezza occhi, a non rimanere impigliato nelle catene delle carrucole e a non ficcarmi il gancio in un polmone ed essere trasportato avanti e indietro come un calzino appeso al sole. Sotto le scarpe il pavimento pustoloso della ghiaia della prima gettata. Nei passaggi stretti le schegge delle travi tra cui mi facevo largo si conficcavano nella giacca graffiandomi le carni. I polmoni si riempivano di polvere e calce. Il vento urlava nei tubi in pvc cavernose e sinistre promesse di morte. Scarpinai fino al decimo piano per trovare il montacarichi desolatamente vuoto. Ora sì che avevo terreno da recuperare.
E adesso dove si era andato a nascondere?
Ancora il sangue e la neve mi aiutarono ad orientarmi. Considerando le lunghe virgole che lasciava nel manto bianco, Gognitti ora strisciava il piede più vistosamente. Ormai doveva essere esausta anche la gamba sana. Da buon poliziotto seguì in parallelo le tracce a passo sostenuto, non ancora di corsa. Mi feci tutto il tetto, evitando lucernai e ventole di aspirazione, fino al lato nord. Qui, un ponteggio di legno collegava il palazzo con il tetto di quello adiacente. Si trattava di una passerella di servizio per il grande cartellone pubblicitario che svettava sulla città e sui comuni mortali che la popolavano.
A parte Time Square, nei quartieri popolari erano numerose le strutture di quel genere installate sui tetti degli edifici privati e affittati allo scopo. Seguì Vinnie anche lassù e, mentre l’asse di legno gemeva per il mio peso, un proiettile sforacchiò il cartellone e mi spettinò il ciuffo. L’istinto mi disse di assottigliarmi il più possibile alla prima parete che potessi raggiungere ma il cartellone non sarebbe stato di alcun aiuto. Mi acquattai e percorsi velocemente la passerella per affacciarmi dall’altra parte.
Il cartellone sopra di me riportava l’immagine di un fucile d’assalto, su sfondo bianco, rosso e blu su cui campeggiava la scritta: “IL GIUSTIZIERE AMERICANO, PER LA VENDETTA.”
Ironico e terribile ma così adatto al qui e ora.
La struttura in legno che sosteneva la pubblicità si spaccò a metà durante la seconda serie di spari. Trovai Gognitti, due tetti più avanti, appostato come me dietro un terzo cartellone pubblicitario. Risposi al fuoco. Feci cilecca ma interruppi l’illusione di impunità che poteva essergli balenata in testa dal momento che erano già diversi minuti che non rispondevo alle sue provocazioni. Lo vidi sparire nell’oscurità, lontano dai coni di luce dei faretti posizionati al di sopra dei cartelloni. Saltai giù dalla passerella e con un secondo balzo montai sulla seconda, poco distante.
Su questo cartellone c’era Capitan Mazza da Baseball, il fumetto che avevo trovato accanto al corpo massacrato nei sotterranei dell’hotel di Lupino.

CAPITAN MAZZA DA BASEBALL È TORNATO, RAGAZZI! È CATTIVO E HA UNA MAZZA!

La mia corsa trai i tetti si perdeva al di sotto delle luci della Grande Mela, troppo indaffarata e distratta a sguazzare nel fiume delle proprie vergogne private e dei propri vizi pubblici. New York era indifferente alla mia vendetta come io lo ero alla vita senza Michelle e Rose. Pulivo il mio senso di colpa ricoprendolo di peccati. Speravo che mi avvicinassero più in fretta al momento in cui avrei potuto non provare più niente.
Non era una vita da sogno ma almeno era accettabile.
Un ultimo cartellone e nient’altro avrebbe potuto nascondere Vinnie dalla mia furia.
Il terzo era stato commissionato dalla Aesir Corporation. Com’è piccolo il mondo. Recitava che con la compagnia si sarebbe stati più vicini al paradiso.
Fosse stato vero.
Lo superai di slancio pronto a mettere le mani su Vinnie quando, troppo tardi, mi resi conto che il passo sarebbe finito dritto su un lucernaio. Volavo come il vento e la finestra non poté che cedere. Precipitai come un angelo cacciato dall’Eden avvolto in un bozzolo di vetro che non mi avrebbe salvato. 



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