Alessio Chiadini Beuri: sono stato io a fare questo?

venerdì 15 novembre 2019

sono stato io a fare questo?








L’atterraggio mi spremette la gabbia toracica e il lamento che seguì non ebbe quasi nulla di umano. Ci fu anche uno scricchiolio e sperai che non provenisse da me.
Battei le palpebre ripetutamente per mettere a fuoco la vista; vidi il buco frastagliato nel lucernaio dieci metri sopra di me. Avevo fatto un volo spettacolare e il pavimento, miracolosamente, aveva attutito parte dell’impatto. La superficie su cui ero disteso accoglieva perfettamente la curva della mia schiena. Non avevo paura di muovermi e lesionarmi irrimediabilmente il midollo spinale. Ero in grado di rompere il culo ai Puncinello anche su quattro ruote a spinta e il culo infilato dentro una padella di alluminio. Cacare e sparare, me lo sarei fatto incidere sul distintivo.
Mentre qualcosa aveva cominciato a scorticarmi il costato vidi che non ero finito sul pavimento ma su un tavolo, ora solcato da una profonda spaccatura longitudinale. Il posto era un ex-magazzino pieno di casse impilate alla bell’e meglio e da alti soffitti, che avevo verificato personalmente. Sotto la mia gamba sinistra c’era una valigetta nera dalle fauci spalancate. La metà superiore si ergeva dritta e rigida tra le mie gambe. L’incavo del ginocchio e il tallone avrebbero iniziato a pulsare nel giro di qualche minuto avendo battuto violentemente contro i bordi della valigia aperta. Mi tirai a sedere per un check accurato. Non avevo tagli profondi. Una stalattite di vetro, che il vento faceva dolcemente oscillare, pendeva sopra la mia testa.
Sarebbe stato catartico restare là sotto ad ammirare quello spettacolo ma indugiare ancora avrebbe potuto portarmi qualche fastidio.
Cacciai la mano dentro la valigetta e trovai un mucchio di bei dollaroni. Sperai tanto che fossero per l’addio al celibato di qualcuno ma non conoscevo nessuno così generoso da infilare nei tanga banconote da duecento dollari in su.
Ma forse ero io ad aver sempre frequentato la gente sbagliata.
Scesi dal tavolo e per poco non finii sbattuto a terra un’altra volta. Una sostanza verde di mia conoscenza si stava espandendo lentamente sotto i miei piedi. Rotolato fino ad una fila di casse, un cilindrone di vetro dalla pancia spaccata.
Ops, colpa mia.
Perlustrai il magazzino, scrollandomi la testa dalla febbre e i vestiti da vetro, sangue, schegge e mie stronzate personali.
Il posto era vuoto ma visto il tesoro che custodiva non lo sarebbe rimasto ancora per molto.
Quello stronzo di Gognitti non aveva scelto un posto a caso per saltare giù dal treno. Doveva trattarsi di un altro dei covi dell’organizzazione.
La porta di accesso era chiusa dall’esterno. Pensai che, se c’era qualcuno nell’edificio, il mio modesto numero da circo non poteva essere passato inascoltato. Ma era solo una supposizione e io avrei potuto rimanere là dentro anche l’intera nottata.
Scartai quasi subito l’idea di abbattere la porta scaraventandomici contro: la puttana si apriva verso l’interno. Mi decisi a far saltare i cardini e scelsi con cura la Magnum. Un foro più grande mi avrebbe permesso di prendermi una buona porzione del muro e una della porta. Quello che c’era in mezzo, il cardine, non sarebbe stato altro che storia passata dopo quello che gli avrei fatto. Il cane era già a metà della corsa, con il cilindro che gli esponeva il culo del proiettile, quando un forte bussare mi distrasse.
«San Pietro, sei tu?» chiesi.
«Chi c’è? Chi è là?»
«Mi avete lasciato qua mentre andavate a sbattervi le vostre gallinelle!»
«Sei chiuso là dentro? Da quanto tempo?»
«Abbastanza da riempire uno di quei cilindri fino all’orlo, bello!»
Non sapevo se il mio interlocutore fosse stupido o io troppo convincente ma la serratura iniziò a suonare una melodia di libertà.
«Dai, non ne posso più!» lo incitai preparandomi a sparare.
«Cristo, aspetta un momento! Che poi non capisco proprio come…»
L’uomo aprì la porta continuando a parlare e si trovò la mia pistola a solleticargli la punta del naso.
«Te lo spiego io.»
«Ehi, un momento! Un momento!» l’uomo proiettò mani e braccia sopra la testa come se un burattinaio invisibile avesse mosso il rocchetto verso l’alto. «Io non c’entro niente, signore!»
Non mi aveva ancora guardato in faccia perché seguitava a fissare l’occhio nero del revolver.
«E cosa sarebbe questo niente in cui tu non c’entreresti?»
«Quello che fanno i tizi che hanno comprato questo magazzino. Io sono solo il custode!»
«Bella scusa ma non incanteresti nemmeno mia nonna. Io sono la fatina buona dei custodi di magazzini in mano alla mafia e non ricordo di averti mai sollazzato con un gioco di bocca. Ti restano tre secondi per dirmi chi cazzo sei. Uno…»
A quelle parole, lo stesso burattinaio invisibile decise di mollare armi e bagagli, rocchetto compreso e scappare in preda ad un attacco di panico. Il custode cadde in ginocchio e scoppiò a piangere. Lacrime copiose e un pianto singhiozzante.
«Accenno ai lavori di bocca e subito ti torna il prurito?»
Il tipo aveva all’incirca una sessantina d’anni e non aveva l’aria di un corruttore di anime innocenti.
«Non mi tira con questo freddo, mi dispiace nonno. È un tempo da plaid, cioccolata in tazza e tante coccole. Alzati.» gli dissi allontanandomi di qualche passo e abbandonando la pistola.
«Oh, grazie, amico.» disse rialzandosi dopo un istante di titubanza.
«Asciugati il moccio, su. Hai superato la prova. Sei appena entrato a far parte dell’ordine dei custodi di Droga. I miei complimenti.»
«Vaffanculo, amico, okay?!»
«Come desideri ma mentre vado potresti dirmi come raggiungere il tetto? Sono quasi convinto di non riuscire a fare la stessa acrobazia in risalita.» Gli indicai il lucernaio. La neve aveva iniziato ad accumularsi nella conca del tavolo. «Dì che è stato un piccione.» Gli strizzai l’occhio, avendo intercettato nel suo sguardo una nube fitta di risposte a domande che riguardavano la droga sul pavimento e la nuova presa d’aria sul soffitto.
Dietro l’angolo poi, in fondo, la porta antipanico, furono le indicazioni del custode. Non espresse il desiderio di mostrarmi la strada. Prima si fosse liberato di me, meglio sarebbe stato. Meglio ancora se lui si fosse trovato più lontano possibile dal magazzino. Non gli dissi che sarebbe stato idilliaco se gli uomini di Lupino avessero trovato la porta chiusa al loro ritorno. Sperai che se ne ricordasse. 

Percorrendo il lungo corridoio il jingle delle Breakin’ News fece capolino da un uscio semiaperto.


«Max Payne ha ormai le ore contate. Siamo molto, molto vicini alla sua cattura. Avrà un rapporto dettagliato, ma adesso mi scusi: ho da fare.»
«È tutto quello che siamo riusciti a strappare a Jim Bravura, vice procuratore della polizia di New York.»

Bravura faceva parte dei buoni. Era il destino che ci aveva reso rivali. Ma quando parlava della mia cattura era decisamente fuori strada: avevo seminato i suoi agenti un paio di tetti prima. Almeno per il momento.
Trovai la porta e raggiunsi il tetto. Là feci attenzione a non rimettere un’altra volta il piede in fallo e ritrovai le tracce di Vinnie. Con tutto il sangue che aveva perso, in corpo dovevano esserci rimasti solo i vapori.
Saltai sul tetto del palazzo adiacente, distante un metro e mezzo, come una bambinetta che gioca alla settimana. Mi sembrò di sentire bussare con insistenza ma non vidi nessuno finché l’orizzonte non mi rivelò Gognitti che tempestava di pugni una porta di servizio, bestemmiando perché nessuno era ancora corso ad aprirgli. Tirava e spingeva la maniglia in preda a un disperato isterismo.
Faceva un freddo del diavolo quella notte, eppure Vinnie Gognitti sudava copiosamente. Era il suo corpo che reagiva allo choc di un fisico sempre più scompensato (e inutilmente correva ai ripari mettendo un cerotto su una diga ormai tracimata).
Quando si appoggiò alla porta per arrendersi alla sconfitta e tirare qualche rantolo che riuscisse a farlo ripartire, vedendomi mi affrontò: 
«Payne, ti ucciderò, maledetto poliziotto!»
Quando tentò di sollevare il fucile non fui più tanto magnanimo da lasciarlo fare. Quella volta l’indice e il medio di Vinnie saltarono, sparpagliandosi a terra come bastoncini di Shangai. La canna dell’arma picchiò secca sul pavimento. Vinnie si piegò sul lato di quella nuova ferita e si accasciò senza fare un ultimo passo.
Non che non ci provò, ma non ci riuscì.
I vapori delle canne fumarie davano l’impressione che ci fosse l’inferno a bruciare sotto di noi.
Era l’ora delle confessioni.


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