Alessio Chiadini Beuri: La paura mette le ali

giovedì 14 novembre 2019

La paura mette le ali




Le bombe avevano fatto saltare le scale che conducevano all’ufficio di Lupino. L’unica strada alternativa era passare dal tetto. La sfiga voleva che proprio quella sera avessi dimenticato le chiavi del batwing. Disdetta.
Per salire, quindi, avrei dovuto scendere. Di nuovo.
 Ascoltai il rumore della squadra SWAT riempire l’androne del piano sotto di me.
La caccia continuava e io mi ero appena giocato l’idea di tornare sui miei passi per trovare un’altra strada. Forse avevo ancora tempo per rinculare fino alla scala antincendio. Lo stesso, però, avrebbe fatto la polizia. Non avevo idea se fossimo già passati alla fase “Spariamo a vista e spariamo per uccidere” nel nostro rapporto e non volevo scoprirlo al primo appuntamento. Avevo già l’agenda piena di tizi che si stavano dannando l’anima per avere il mio scalpo e non volevo illudere nessuno. Mi restavano all’incirca trenta secondi prima di scoprire che ordini aveva dato Bravura e li impiegai per cercare una via nuova. Imboccai il corridoio che portava alle stanze che si affacciavano sullo scalone centrale. La mancanza di porte e altri ostacoli fisici velocizzò la scelta delle opportunità man a mano che si presentavano. Sulle macerie il passo era approssimativo. Oltre a pezzi di soffitto crollato, sanitari divelti e proiettati in mezzo ai corridoi, passai in rassegna stanze matrimoniali, un bagno comune e due ripostigli delle scope.
La mente correva più veloce delle gambe e l’istinto di sopravvivenza arrogante aveva occupato la plancia del capitano. Fu per quello che accolsi l’intuizione successiva come un semplice dato di fatto. Gettarsi da una finestra al quarto piano di un palazzo per atterrare su un cumulo di neve quindici metri più sotto?
Sono cose che faccio tra la colazione e il brunch domenicale, bambini.
Mi lanciai verso il varco serrato alla fine dell’ultimo corridoio. Il vetro cedette senza resistenza. Al fragile sostegno del cristallo seguì il pugno dell’aria alla bocca dello stomaco. La vertigine fu un piacevole solletico. Precipitai guardando il cielo cupo allontanarsi velocemente.
Aspettai l’impatto, curioso.
C’era abbastanza neve per non morire?
Cosa c’era sepolto là sotto?
Mi avrebbe ucciso la caduta o lo avrebbe fatto il cuore?
Entrai violentemente dentro l’abbraccio di una gelida tasca uterina. Mentre la neve accoglieva il mio corpo che la violava con arroganza aspettai che qualcosa di acuminato mi infilzasse da parte a parte come meritavo per quella idea idiota che avevo avuto. Il mio cadavere sarebbe riemerso soltanto in primavera, lentamente, come si scoprono gli amanti nei vecchi film. Il cielo si era ridotto a una fessura di forma vagamente umana e il grigio di cui si era vestito quella notte spiccava dalle buie pareti della mia culla.
«Battitore salvo! Max Payne conquista un’altra base, una media impressionante! Se continuerà così, la strada al titolo sarà dura per tutti!»
Mi girai e iniziai a scavare. Smisi di sentire le dita delle mani dopo una decina di affondi nella neve e scomparvero gli spilli che mi trafiggevano la carne sotto le unghie. Almeno potei aumentare il ritmo senza preoccuparmi del dolore. Il tepore del mio affanno era l’unica fonte di calore che mi aiutasse a mantenere i pensieri al caldo e la disperazione lontana. Quando bucai quella sfera di ghiaccio, l’aria calda della bolla si cambiò di posto con quella gelida della notte, ancora una volta. Fu soltanto dopo quell’evento che mi accorsi di essere febbricitante.
La galleria cominciò a crollarmi addosso non appena raccolsi le gambe per controllare a che distanza si trovasse il selciato. Mi sporsi oltre il buco e guardai in su. Nessuno dei ragazzi della squadra speciale avevano avuto il mio stesso ardire. I giovani d’oggi preferiscono le scale e loro ci si erano fiondati come sula foto della mamma nuda di qualcuno. Altra neve mi scivolò lungo la schiena.
Ero ormai fradicio, incazzato e stanco e l’alba era ancora troppo lontana.
Saltai giù seguito da una piccola frana bianca. Mal contati, potevo forse avere quattro minuti di vantaggio sulla squadra SWAT all’interno dell’edificio. Incalcolabile, invece, quello sul resto degli agenti lì attorno. Mi avviai, cercando di capire dove fossi. Una ventina di metri più a Nord l’insegna luminosa di una lavanderia a gettoni mi attrasse come una falena. Un miraggio e un rifugio per tutti i fuggitivi farmacodipendenti con un irrisolto complesso di colpa a zonzo per la città. Gli anni di sporcizia, pioggia, smog e insetti morti si erano depositati come un velo sulla scritta: LAVANDERIA PAGLIACCI.
Bhè, cosa avrebbe potuto farmi una risata, a quel punto, uccidermi?
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