Alessio Chiadini Beuri: Dentro il libro e oltre: ON AIR!

sabato 27 febbraio 2021

Dentro il libro e oltre: ON AIR!

 



Per la maggior parte della vita, molti di noi, fingono di essere qualcuno che non sono. Non lo fanno sistematicamente solo con gli altri, ma anche, e aggiungerei soprattutto, con se stessi. Il perché è presto detto: formare un racconto coerente racconto di noi stessi da trasferire ai nostri inconscio e subconscio per avvalorare tutte quelle impalcature identitarie che artificiosamente ci siamo costruiti mattone su mattone, giorno dopo giorno.

Noi siamo fatti di coscienza e identità. La coscienza (di noi stessi) è in continuo divenire, la modelliamo e la trasformiamo senza sosta in base alle risposte che quotidianamente forniamo agli stimoli del mondo esterno, quella bolla chiamata “realtà” in cui altre miliardi di coscienze convivono ed esistono, e cazzo, esprimono pure opinioni non richieste. L’identità, invece, possiamo modellarla fino ad un certo punto. Fino, cioè, al momento in cui è troppo difficile rivedere il progetto e tornare indietro in caso ci fossero dei problemi strutturali. Noi siamo i costruttori della nostra identità e la coscienza di noi stessi è la nostra malta. Raramente ci guardiamo indietro. Man a mano che gli anni passano, l’edificio cresce e le fondamenta induriscono tanto che, alla fine dello sviluppo, ciò che crediamo di noi stessi non è soltanto un prodotto di noi stessi ma è diventato un manuale di istruzioni, un navigatore satellitare per condurre la nostra vita. È un po’ come inserire il pilota automatico o il cruise control e rilassarsi.


È giusto? È sbagliato?

Non sta a me dirlo. Io personalmente sono portato a non accontentarmi delle risposte preconfezionate, nemmeno se a darmele sono io stesso. La costruzione della nostra identità di essere umani è un racconto che noi facciamo a noi stessi e, come in tutti i racconti, non è sempre vero quello che si legge. A volte lo scrittore usa il suo mestiere per giustificare due paragrafi che, altrimenti, letti uno di seguito all’altro, stonerebbero. Raccorda, cuce e disfa le parti che rendono la narrazione problematica, lenta o noiosa. E poi, non paghi di questo lavoro di taglia e cuci, al momento di sfoggiare ciò che siamo (o che pensiamo di essere), tiriamo fuori il Bignami di noi stessi, la versione corta, e andiamo a braccio con quelle quattro nozioni che abbiamo imparato a menadito.


Ma perché vi racconto tutte queste cose da psicologia da bar che, in teoria, dovremmo parlare di ben altri argomenti, molto più frivoli e all’acqua di rose?

Perché il serio e il faceto, nella vita, devono coesistere e noi non possiamo agire a compartimenti stagni. Per cui può capitare di essere vittime di una “sgrigna” incontenibile durante un funerale, o intristirsi di fronte a qualcosa di assolutamente bello. 

Chi più Re di noi è un romanzo appartenente a un genere tutto suo che ha la capacità di cambiare aspetto e significato a seconda del suo fruitore. Molti non lo capiscono, altri lo giudicano solo dalle battute spinte, alcuni pensano sia un’accozzaglia poco originale di idee di altri pieno di volgarità. Fondamentalmente non ci perdo tanto il sonno, non per arroganza, ma perché è un romanzo che ha dentro ogni brandello d’anima, tutti quegli aspetti contraddittori che regolarmente ci creano crisi d’identità e che non ha paura di mostrarsi. Qualsiasi cosa fatta con cuore, con onestà e con coraggio non deve temere il giudizio di nessuno perché, per il solo fatto di esistere, ha superato il giudizio più spietato di tutti: quello del suo creatore.

Nel capitolo di questa settimana, “On Air”, vediamo il nostro protagonista Spanky darsi un tono da rockstar tra i corridoi della facoltà, con quell’effervescente tracotanza che hanno alcuni (leggi: tanti) ragazzi in quel periodo di vita che va dalle superiori ai trenta anni, più o meno. La durata è variabile, ovviamente. Quel fare che, negli adulti (e ormai lo sono anche io), genera due reazioni discordanti ma coerenti: sorriso compassionevole e urticante fastidio. Non è che gli adulti non capiscano i giovani, né che non ricordino più com’è avere vent'anni: semplicemente sono costretti a fare un tuffo nel passato, guardarsi dall’esterno e realizzare di essere stati degli autentici coglioni. Non è quasi mai una bella esperienza, soprattutto perché ormai non ci si può fare più niente.


In ogni caso, è con questo atteggiamento che troviamo Enrico a sproloquiare con se stesso di liberazione del maschio dal giogo femminile, di Kate Millett e di femminismo radicale e degli innumerevoli fidanzati della Canalis (NDR, era il 2012. Oggi sarebbero quelli di Belen), mentre descrive cerchi di pipì nel bagno di facoltà. All’università è il giorno di inizio dei corsi accademici, o come viene definito dai membri dell’Alsef, “La giornata delle matricole”, in cui ogni uomo dal secondo anno di corso in poi è per definizione un re, per la sua conoscenza dell’ateneo e per l’esperienza che può regalare ai novizi. Esperienza a tutto tondo, s’intende.

Vedete come lui è galvanizzato? Smetterà di esserlo presto perché lei la smollerà alla velocità del suono a uno dell'ultimo anno o, più probabilmente, a qualche assistente.


A Enrico è saltato il colloquio con l’assistente del professore a cui ha chiesto di fargli da relatore per la tesi e approfitta così di una mezza giornata di libera uscita che lo avrebbe altrimenti visto soccombere di fronte all’estenuante attesa del suo turno e all'ennesimo racconto di chi fosse, che cosa ci facesse lì e di cosa parlasse la sua tesi. In Chi più Re di  noi i professori e gli assistenti escono sempre un po’ con le ossa rotte. Ci tengo a precisare che non è colpa mia, è la Realtà che, manifestandosi, ha dato il peggio di sé. Professori inetti e assistenti frustrati ne abbiamo? A container.

Il professore da film americano pronto a corrompere l'anima candida di ogni studentessa che non vede l'ora di zompargli addosso. Sposato, cornifica la moglie e possibile serial killer di giovani donne.

Quello che invece capita agli studenti italiani (in odorama si sentirebbe anche la zaffata di alitosi)
«Avevo solo chiesto una pepsi-senza!»

Ricordo certi esami in cui la difficoltà per prepararlo e le pretese erano inversamente proporzionali all’utilità che ne avrebbe ricavato il candidato una volta conquistata la pergamena di laurea. Quelli che mi hanno segnato di più, in negativo, sono stati quelli di filosofia. Voglio raccontarvi un paio di aneddoti.

C’era un giga esame il primo anno della triennale di antropologia, di Filosofia classica, dieci crediti formativi, il massimo per l’epoca. Questo voleva dire di solito che i manuali da studiare sarebbero stati almeno 4, più gli appunti di tre mesi di lezione in aula.

Lo lasciai per ultimo, come nella letteratura horror Stoker ci ha insegnato a tenere lontani i vampiri: crocifissi, corone d’aglio e acqua santa. Provai a darlo due volte, e al primo tentativo non è che rifiutai il voto, non riuscì nemmeno a vedere il professore, mi fermai all’assistente. Burgio si faceva aiutare da due ricercatori/assistenti/galoppini, di cui ora non ricordo il nome e non ho molta voglia di cercarli. Erano un uomo e una donna e subito sembrarono a tutti stronzissimi. All’esame si occupavano di interrogare gli studenti su tutta la parte monografica comprendente la nascita della filosofia, dai greci fino a Sant'Agostino, all’incirca un intero anno del programma del liceo e importante solo per metà di quell’esame assurdo. Vi dico subito che, su quella parte, non ero preparato alla virgola e ai due punti: sapevo spiccicare al massimo un frase e mezzo di senso compiuta sulla maggior parte dei filosofi in programma. Per i restanti, sapevo a malapena della loro esistenza. Mi accinsi comunque, impavido, a sostenere l’appello di giugno con l’ottimismo di chi crede possa essere tutto una proforma, vista la considerazione della materia nel mondo reale.

«Ma fai davvero?»

Ovviamente, mai errore fu più grave. Bastarono un paio di domande perché l’assistente (mi capitò il maschio) chiudesse il discorso chiedendomi di prepararmi meglio e tornare la volta successiva. Così, in dieci minuti. Non avevo potuto nemmeno riscaldarmi. Capite, se non superi l’assistente non hai nemmeno la possibilità di vedere il prof, un vero e proprio sbarramento, mentre io credevo di potermela cavare con i miei leggendari giri di parole che non portano a nulla se non al mal di testa di chi mi ascolta e arrivare alla media aritmetica della sufficienza tra la sessione con l’assistente e quella col prof. Manco per il sonaglio di Siffredi.


Quella bocciatura non me l’aspettavo: venivo da un primo anno pressoché perfetto, senza bocciatura (ma nemmeno chissà quanti 30). Ci avevo sinceramente preso gusto. La digerì male, come un’offesa personale e così mi ripresentai all’appello successivo con lo stesso livello di studio della prima volta. Direte: allora sei masochista. No, è che ritenevo che la preparazione che avevo compiuto per quell’esame fosse il massimo dello sforzo che quell’esame meritasse. Andai: c’erano di nuovo l’assistente uomo e l’assistente donna a scremare ed alleggerire le fatiche del professore di ruolo, era luglio, faceva caldissimo ed era l’ultimo appello prima dell’estate. Volevo andare in vacanza (see, d’estate lavoravo) senza il fardello mentale dell’anno incompiuto (credetemi: cambierò presto idea). Non volevo finire con l’assistente donna, non volevo che il tizio che mi aveva bocciato, vendendomi con la collega pensasse che avessi voluto aggirare l’ostacolo e ripartire da zero. Non potevo permetterlo. Feci passare davanti a me un ragazzo per poter tornare dal mio amico occhialuto e pallido e confrontarmi una seconda volta. Passai il livello con un onorevolissimo 24, pronto a sfidare il professor Burgio. Com’è andata con lui? Ci arriveremo.

Il secondo aneddoto lo farò più breve, giuro. Credo fosse l’ultimo anno di Antropologia e l’estate, ancora una volta, incombeva sull’emisfero Boreale, io mi ero distrutto un ginocchio e avevo fatto per la seconda volta un tesina su Platone, una gioia incommensurabile. Quando entrai nell’ufficio del professore per discutere il mio elaborato ed essere interrogato sul corso, di cui ad oggi non ricordo nulla (quasi anche allora), con mia sorpresa mi trovai di fronte uno stuolo di persone, accademici, dottorandi e professori tutti in fila dietro a una lunga scrivania. Per un attimo mi domandai se non fosse arrivata una laurea honoris causa in filosofia per il solo merito di essermici cimentato e già mi vedevo stringere mani con le più alte personalità del mondo universitario a alzare sopra la testa prestigiosi premi, fama e gloria imperiture. 


Invece no, dopo due minuti ebbi conferma che ero lì solo per l’esame, e per sudarmi un voto più alto del 18. Dico, magari il professore aveva ingaggiato dei figuranti: non mi capacitavo di quale potesse essere l’interesse di altri professori ad assistere ad egli esami di studenti del terzo anno, che non avrebbero di sicuro portato la filosofia a compiere balzi da gigante e all’avanguardia di secoli. Mi dissi: minchia, davvero non avete di meglio da fare in un caldo pomeriggio di luglio che ascoltarmi blaterare per un’ora sul niente? Siete davvero così a spasso da dovervi riunire per dare uno scopo alle vostre giornate? Poveri filosofi.

Con questo voglio concludere gli aneddoti dicendo che sì, la filosofia è cosa bellissima e necessaria ma, dato che è prodotto di pensiero che risponde alle grandi domande dell’umanità di cui difficilmente si potrà trovare risposta, ognuno è in grado di farne, produrne, concepirne. Tutti i giorni creiamo filosofia da noi stessi rispondendo agli stimoli primordiali che ci rendono dubbiosi sul chi, sul perché, sul come e non possono un Socrate, un Aristotele, un Kant impormi la loro come più importante rispetto alla mia. Sono anch’io un essere pensante? Allora sono!

Questo capitolo parla di come spesso ci sforziamo per apparire in una maniera diversa da chi siamo veramente, semmai un giorno arriveremmo a comprenderlo. L’apparire, come detto, è una pratica che mettiamo in campo sia per gli altri, sia per noi. Apparire ci dà la forza per essere, visto che non è vero che “l’abito non fa il monaco”. Lo fa eccome. Tutti cerchiamo di sembrare migliori, elidendo o omettendo quelli che sono i nostri aspetti meno “mainstream”, quelli che potrebbero non farci accettare dal gruppo di cui vorremmo tanto far parte. Appartenere a un gruppo, identificarci nei suoi valori e nel suo credo è un aspetto che contribuisce a costruire la nostra identità. L’essere umano è un animale sociale, ce l’ha scritto nel DNA e non si può prescindere. Quando ovviamente dico tutti, vorrei invece dire la maggioranza di noi tutti. Ci sono persone che arrivano al concetto che sono proprio quegli aspetti che differiscono dal comportamento fotocopia di un gruppo di persone, di un insieme sociale, a essere ciò che ci rende individui, che ci permette di spiccare, di essere identificabili, di essere unici. Io, in quanto esemplare medio di essere umano, ci sono arrivato soltanto con l’età anagrafica. Sono un conformista di natura, in realtà.

Così, anche Enrico si comporta come se fosse sicuro di ciò che vuole, di ciò che vorrebbe essere e mente quando incontra una matricola, una moretta con caschetto e belle gambe intenta a scrutare la bacheca degli annunci nel corridoio di facoltà. Quello che ci sembra difficile nella vita vera diventa molto divertente nella finzione, e molto semplice. Come attaccare bottone con una sconosciuta senza balbettare o incespicare su una sillaba ogni due parole. Senza almeno un drink in corpo (sono astemio - bevo solo ai matrimoni - e mi basta una bevuta per andare fuori) certe cose non sono mai riuscito a farle. È brutto dirlo ma è una legge di natura ormai dai tempi felici dei baccanali: l’alcool rende forti e senza paura, padroni del mondo e in grado di compiere ogni impresa che prima ci sembrava impossibile (La Felix Felicis inventata da JK Rowling vi dice niente?). La cosa migliore però è che se solo smettessimo di preoccuparci delle conseguenze, delle possibili figure di merda, dei rifiuti e semplicemente “facessimo”, scopriremmo che tutto è alla nostra portata senza dover ricorrere a sostanze che annebbiano la ragione e offuscano le paure.


Spanky si mette a tacchinare la giovane, dicevamo, e con domande innocenti cerca di capire se possa esserci spazio di manovra per uscire da lì con lei, o almeno col suo numero. Quando si scopre che sta cercando qualcuno che le dia lezioni di chitarra e di canto, lui si inventa di far parte di una cover band dei Dire Straits anche se l’unica cosa in grado di suonare (male) è una chitarra classica rinvenuta, non si sa perché né come, in un armadio dell’appartamento. 

Cosa vera, tra l’altro. Ho iniziato così a suonare la chitarra: per caso. E porchiddi che si sprecavano dalla camera da letto quando la mattina alle 8:30 accennavo, pianissimo, tre accordi in cucina, dall’altra parte della casa. Scusa ancora, Marco!

Comunque, la ragazza, di fronte a quell’armonia d’intenti artistici che scopre di condividere con il nuovo, espansivo ed amichevole conoscente, lascia cadere l’imbarazzo da matricola tanto da portare a credere a Enrico che presto potrà vederla con l’abito da Eva (quello biblico, non Kant - che comunque sarebbe andato bene lo stesso). Tutto questo, però, prima che faccia la sua comparsa un terzo protagonista: un fattone di nome Ivan, sputato al personaggio di Shaggy di Scooby-Doo. Lui e la ragazza, Livia, sono amici ed è lei a proporgli di ospitare Spanky nel suo programma radio, in qualità di chitarrista della farlocca cover band.


Un bel boomerang per il nostro, che ora ha davanti due scelte: dichiararsi per quello che è in realtà, perdendo la ragazza o seguire Shaggy e fare la sua prima ospitata nella radio universitaria, fare una figura di merda e perdere la ragazza. Enrico sceglie di mantenere la barra dritta e va avanti con la menzogna, che tanto il panorama è migliore quando si precipita da più in alto.

La sua fortuna, maledetto bastardo, è che Ivan è così fumato di roba buona che la prima domanda dell’intervista è talmente generica da lasciare lo spazio di manovra per un’astronave-madre aliena che deve fare inversione e tornarsene a casa in fretta: “Cosa pensi quando ti dico MUSICA?”

Così, prendendo a prestito da Ligabue il monologo di Radiofreccia, Enrico ci parla dei suoi gusti musicali (e dei miei), togliendosi letteralmente la patata bollente dal culo (perdonatemi: ho fatto i Gesuiti): la bellezza di certe suonate di pianoforte alla Billy Joel, le musiche da scaldamuscoli tipo Flashdance, certi pezzi di buon rap, Bruce Springteen, Phil collins e Eric Clapton che accompagnarono i miei tormentati anni liceali, Bryan Adams, gli assoli di Brian May, Stevie Wonder, Bob Dylan, il sassofono simbolo di una certa musica anni 80, gli U2 di Sunday bloody sunday, gli Oasis, l’essenza rock degli Aerosmith, allo stravagante Elvis Costello degli anni 70.




Sembra limitata la mia cultura musicale perché è in costante espansione.

Non a caso, al termine di questo lunghissimo post pieno di concetti, aneddoti e psicologia spicciola, vi propongo il pezzo della settimana e del capitolo “on Air”: Under Pressure by Queen & David Bowie, uno dei pezzi più belli della storia della musica. L’ho scelto perché, soprattutto per l’iconico intro a cura di Roger Taylor, mi faceva pensare a un nuovo giorno, frenetico, che inizia e che si ripopola delle nostre abitudini, a volte insensate, e dei nostri spazi, che ci sembrano importanti e che vogliamo difendere a tutti i costi senza renderci conto che potremmo farne a meno e vivere bene ugualmente. A volte anche meglio.

Ogni giorno è il giorno giusto per cambiare, per dare una svolta alla nostra vita, per liberarci di quegli intralci che ci impediscono di volare. Non è facile farlo ma continuare a ricordarcelo aiuta a non allontanarci dalla ricompensa.




Per finire, non dimenticarti che il romanzo su Max Payne esiste e lo puoi leggere senza spendere un euro che è uno!



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