Alessio Chiadini Beuri: Dentro il libro e oltre - Il Re del palazzo e l'antropologia "urbana"

mercoledì 11 novembre 2020

Dentro il libro e oltre - Il Re del palazzo e l'antropologia "urbana"

 


Il re del palazzo è il terzo, embrionale, capitolo di quella Commedia Dantesca che di divina ha solo l’ebbrezza, alcolica, in cui spesso si trovano a confrontarsi con il mondo i suoi protagonisti maschili. Non tanto perché siano dediti all’alcol. Non più che ad altri vizi umani, comunque. Enrico, Tette’ e Zanna sono ubriachi per la vita che scorre in loro così forte, incontenibile, irrefrenabile (ineluttabile?) che l’incoscienza della giovane età gli ha regalato. Sarà ancora lontana anni la grigia sfumatura di chi cresce troppo e si lascia indietro il colore dei giorni trasognati con il naso all’insù. Quel mondo dove i bianchi e i neri si confondono senza più prevaricare uno sull’altro e dove la ragione pura e semplice dovrà sempre di più lasciare il posto al relativismo imperante dei punti di vista. Mi rendo conto che sono discorsi da vecchio (non più utile allo sforzo produttivo del paese) bacchettone ma sono entrato in questa fase nuova del mio essere solo da poco e sa ancora così tanto di macchina nuova che non posso fare a meno che salirci il più possibile. Sarà l’età adulta, sarà questa pandemia che ci ha rivoltato come calzini rivelando di noi stessi più di quanto saremmo stati disposti a scoprire ma il vento è di poppa e va assecondato. Indietro non si torna.

Dicevo di Enrico, Zanna e Tette’: loro mica lo sanno il perché di tante cazzate. Aprono la bocca e le danno fiato perché hanno scoperto che non è male il suono della loro voce e perché non ci sono adulti attorno che li possano zittire, riprendere, squadrare facendoli sentire piccoli e insignificanti. Sono esploratori scesi su un continente sconosciuto e hanno moschetti carichi e una fede incrollabile in loro stessi da esportare alle popolazioni indigene (il resto del mondo). Con quell’egocentrismo, per nulla malevolo comunque, che deriva dal sentirsi al centro del mondo proprio perché fino al giorno prima esso era molto più piccolo (casa propria, la propria città, gli amici di una vita) li vediamo confrontarsi, goffamente, con una realtà molto più grande e per cui loro non sono che pulci. Perciò parlano a voce troppo alta, sono sboccati perché cercano di attirare l’attenzione, si muovono sopra le righe per far vedere quanto sono bravi a fare le capriole. Mamma guardami, dai guardami, non mi stai guardando, però, mamma. 

Bisogna volergli bene a Enrico, Tette’ e Zanna perché non sono cattivi ragazzi: siamo noi, i nostri padri, i nostri figli. Siamo noi, spacconi perché spaventati da un viaggio di cui non conosciamo nulla. Smargiassi perché vediamo e combattiamo nemici ad ogni angolo e ad ogni piè sospinto con quell’avventatezza Donchisciottesca che vista da fuori fa arrossire e sorridere. Volgari e gonfi di petto per impressionare qualcuno su cui vogliamo fare colpo ma la cui vicinanza ci spaventa terribilmente. 

Il Re del Palazzo non è un capitolo lungo (l’ironia è che il pezzo che gli è dedicato lo è almeno il doppio) e non succedono cose memorabili: Enrico è ancora solo nello squallido appartamento che divide con gli altri, che sono però ancora in vacanza, e non ha ancora dato una forma o un’identità a chi lo tiene sveglio di notte passeggiando sul soffitto della sua stanza. Annoiato com’è, s’interroga su chi possa essere. Si apposta sulle scale per vederlo/a passare ma ogni tentativo si rivela inutile. Tutto qua insomma, nulla di trascendentale. 

A parte che.

A parte che è qui che, per la prima volta, facciamo la conoscenza di un personaggio che poi si rivelerà cardine della storia e del mondo di Chi più Re di Noi: Tetteballerine.

Si rivela a voi così come si è rivelato a me quando l’ho scritto, perché non lo avevo programmato e certamente non mi sarei aspettato che diventasse quello che è diventato alla fine. Quando uno scrittore dice che non sa nemmeno lui che cosa succederà in un romanzo o starà a guardare dove lo porteranno i personaggi credetegli, perché è vero. Sicuramente per molti scrittori lo è. Non vuol dire che vi lasceranno, come lettori, in balia delle loro storie e dei loro personaggi una narrazione confusa e deludente, no. Sanno dove vogliono arrivare, lo hanno pianificato. Conoscono le stazioni lungo il viaggio, certo. Quello che non sanno è come sarà il paesaggio tra le fermate intermedie. Per quello sono spettatori al pari vostro. E il viaggio se lo godranno come voi. Se i personaggi sono vividi, se sono delineati e hanno un’identità ben precisa basta metterli nella direzione giusta e stare a guardare. Il resto verrà da solo. L’autore non dovrà far altro che il cronista. Gas a martello e al via scatenate l’inferno.

Tetteballerine è stato proprio questo: una sorpresa inattesa. Neanche aveva un nome e un cognome. Solo un soprannome, mai sentito, per altro. Non potevo chiamarlo Schizzo, Ciccio, Bisonte o roba così, no, troppo banale. Troppo penosa scimmiettatura italiana di un teenage-movie americano. L’idea del personaggio, lo scheletro centrale del suo modo di essere pescava a piene mani nella vita vera. Come dicevo nei ringraziamenti della prima edizione di Chi Più Re di Noi (2012 - Ed. Amici & Parenti): Tetteballerine esiste davvero ed è un Cristo. Scriviamo di ciò che conosciamo per scrivere meglio. 

Sì, Tetteballerine è preciso a Patriota


Tette’ non era solo il personaggio che doveva fare da contraltare al più razionale Spanky/Enrico ma era il portatore di uno stile senza cui Chi Più Re di Noi non avrebbe visto la luce. Ciò che avevo scritto fino ad allora non mi avrebbe aiutato a sciorinare una storia convincente che parlasse di studenti, di bolgie, di sesso e dolce anarchia. Tetteballerine è stato il gonfalone, l’ambasciatore di una bestialità sopita, vergognosamente nascosta dietro una facciata di bei versi ordinati, di una morale santa e un verbo ricercato e nobile. Con lui come scudo umano (e i suoi possenti muscoli pettorali e la sua stazza che se mi capitava Zanna da un pezzo che ero morto) sono riuscito a esprimere un Io fatto di carne, imperfetto e mortale che poteva essere ineducato, volgare, politicamente scorretto ma che, fondamentalmente, dicesse quello che pensava nel modo che preferiva.

Imparai a conoscere Tetteballerine un po’ alla volta perchè non sarei stato in grado di formare un personaggio completo che fosse sfacettato così bene da sembrare reale. Da mancarci quando non avremmo più letto di lui, da soffrirne quando sarebbe morto. E Tette’, così come gli altri protagonisti di Chi Più Re di Noi, sono stati capaci di stupirmi fino alla fine, e mostrare una psicologia e un background sempre più complessi. Questa è la vita, in fondo: ognuno di noi è immerso in un hummus di relazioni, esperienze, errori commessi che ci forma, ci modella, ci cambia e mentre noi cresciamo, questo si modifica con noi. Non può non essere la stessa cosa per coloro che popolano le storie che leggiamo.

Non vi nascondo che non saprei dirvi se tutte queste interpretazioni filosofiche che vi propino siano dovute ai miei studi accademici o al  vizio che ho di razionalizzare anche l’aria che respiro, perchè la respiro, che significato avrebbe se la respirassi senza coscienza? 

Dato che siamo le scelte che facciamo e scegliamo in quanto siamo, passerei oltre a questo circolo vizioso con la convinzione che senza i miei studi in antropologia non avremmo avuto “La sindrome del finesettimana”, la “Regola di Platino”, il “Teorema Miyagi” o “L'algoritmo Briatore-Gregoraci”, giusto per  fare qualche esempio. Per sapere di cosa trattano nello specifico dovrete leggere il romanzo ma nulla mi vieta di dirvi che sì, sembrano scopiazzature dei codici e dei decaloghi snocciolati dal personaggio di Barney Stinson in 9 stagioni di How I Met Your Mother ma diciamo che, come per Tetteballerine e il suo doppio nella vita reale, esse sono soltanto la spinta di partenza per qualcosa che poi, dalla scintilla di vita, ha iniziato a camminare senza stampelle. Perché l’antropologia è soprattutto questo: osservare come l’essere umano si comporta in un contesto e indagarne le ragioni. Si può fare antropologia ovunque, ogni giorno, per ogni comportamento. E non c’è bisogno di spostarsi molto. Dove c’è l’uomo, c’è l’antropologia. Si può praticarla al bar, in fila alla posta, dentro il vagone di un treno. Diffidate dalle discipline che pretendono di consegnarvi la verità e si fregiano di dogmi. L’antropologia dà interpretazioni, punti di vista ma sono certo che ogni volta che nel romanzo incontrerete una teoria dal nome pittoresco (mai prendersi troppo sul serio) vi troverete a realizzare che sì, quella cosa è capitata anche a voi e che avete pensato le stesse cose.



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