Alessio Chiadini Beuri: un treno sotto l'albero

mercoledì 13 novembre 2019

un treno sotto l'albero






Scesi fino alla linea numero 2. Laggiù avevo trovato il poliziotto sotto sequestro, l’unico dei suoi colleghi ad essere ancora vivo al mio arrivo in quel casino fottuto.
A cosa gli serviva, là sotto?




Avevo già perlustrato il piccolo ufficio e i locali del personale ma farlo di nuovo non mi avrebbe fatto male. Come una mosca intrappolata dall’altra parte di una finestra avrei continuato a sbatterci contro finché qualcuno non fosse stato così gentile da farmi uscire o schiacciarmi.
A parte il cadavere con il cervello spappolato e il tanfo di paura che aleggiava come un nebbia tossica nella stanza non trovai altro. Nel locale spogliatoi, oltre alle docce e ai bagni, si apriva un lungo corridoio che finiva nel buio.
La beretta sarebbe ormai potuta restare attaccata al palmo solo grazie al sudore che impregnava il calcio. Quella era la strada che a forza di cercare avevo trovato. C’era solo da capire se me l’ero andata a cercare o se la fortuna con me quel giorno era decisa a fare sul serio.
Il corridoio era illuminato solo per il tratto iniziale poi cominciavano i neon guasti o mancanti. Alcuni che si sforzavano di rimanere accesi mi facevano l’occhiolino. Sembravano dire “Andiamo Max, avvicinati. Puoi fidarti di noi”.
Lungo i tratti illuminati avanzai acquattato alla parete facendomi scudo con le colonne che scandivano il passo con una cadenza di cinque metri alla volta.
Soltanto quando ne ebbi già percorso la metà fui capace di distinguerne la fine: un grosso cancello d’acciaio sbarrava la strada. Oltre, l’oscurità più nera.
Un refolo di aria fredda soffiava da quella direzione, mischiata al fetore di terra fradicia e muffa. Proseguì fino in fondo per controllare il cancello: chiusura doppia mandata e una grossa catena con lucchetto rimarcavano il concetto che la mia presenza dall’altra parte era gradita come un foruncolo sul culo. Sbirciai dentro al buio pesto con la probabilità di ritrovarmi la bocca violata dalla canna di una pistola per un’ultima fellatio alla morte. La luce flebile di un’uscita di sicurezza a dieci metri dentro quel pozzo oscuro mi permise di vedere che era un altro binario di manutenzione, dove venivano condotte le locomotive in caso di guasti.
La linea chiusa per manutenzione, l’agente tenuto in vita proprio là sotto, la corrente mancante solo a quel settore. E poi quella catena, nuova di zecca, a chiudere un ingresso a cui avrebbero potuto accedere solo gli addetti ai lavori.
Ripercorsi il corridoio a ritroso e tornai al binario. Mi sporsi sull’antro nero della galleria per vedere se avrei potuto farcela da lì. Qualcuno aveva pensato anche a quello: il tunnel finiva in una paratia di travi. Un bel binario fantasma. Sperai che chi avesse voluto rinchiudersi là dentro fosse stato altrettanto furbo da portarsi la TV via cavo. Era un costruzione tirata su in fretta ma adatta allo scopo: tenere lontani i curiosi e i tutori dell’ordine.
Era più che plausibile anche che nessuno sapesse che la linea 2 a Roscoe St. fosse chiusa. Quello che era certo era che non era rimasto più nessuno in grado di dirottare il traffico sugli altri binari.
C’erano tutti i presupposti per mettere su una grigliata coi fiocchi.
Quel pensiero mi portò alla memoria il dolce ricordo di una mattina di Natale di tanti anni prima:
«Finalmente il vecchio ciccione in rosso mi ha portato un trenino!»
Le porte della locomotiva erano sbloccate. Le forzai con po’ pressione e loro si aprirono come le gambe di una bella donna. Misi in moto il bestione e quando abbassai la leva di marcia, le bobine elettriche ronzarono sopra la mia testa e sotto i palmi appoggiati ai comandi. Mi aggrappai al quadro e mi puntellai sulle gambe perché il locomotore era scattato in avanti e aveva preso velocità prima di quanto mi aspettassi. Puntavamo dritti verso la cortina di legno. Prima dell’impatto mi rannicchiai sul quadro comandi il più possibile. Ci fermammo di schianto e io caddi. La barriera aveva ceduto come burro in una nebbia di polvere e calcinacci. I freni di emergenza erano entrati in azione fermando la giostra.
Estrassi la Desert Eagle e scesi dopo aver dato una lunga occhiata dentro la nebbia. Il cancello che avevo visto dai locali del personale era a una decina di metri avanti, l’occhio scuro del lucchetto mi guardava. Sull’altro lato del binario una scala di cemento conduceva a una pesante porta blindata deturpata dalla ruggine. Davanti a me, l’antro oscuro della linea 2.
Dovevo trovare una radio e dirottare il traffico diretto lì.


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