Alessio Chiadini Beuri: Dentro il libro e oltre - La regola di Platino

venerdì 20 novembre 2020

Dentro il libro e oltre - La regola di Platino

 



Ne “La regola di Platino” fa la sua comparsa Cecilia, la migliore amica di Enrico, la sua confidente preferita, colei che lo comprende, lo capisce e anticipa i suoi pensieri e le sue mosse future, tagliandogli le gambe in anticipo prima che possa farsi del male o farne ad altri (soprattutto in ambito femminile). Non c’è attrazione di tipo fisico tra loro ma non escludo che segretamente Cecilia possa aver provato, in un punto imprecisato del passato della loro rapporto, un’attrazione per il nostro. I bravi ragazzi come Enrico, si sa, attraggono per la loro dolcezza e sensibilità e conoscono il loro momento di gloria tendenzialmente superati gli anta, quando gli stronzi e i pirati hanno deluso le aspettative d’amore del parterre femminile per tutto il ventennio precedente. Ma è un fenomeno che si manifesta anche prima della tanto temuta pubertà, cioè quando l’educazione assorbita in ambito familiare ci tiene ancora stretta a sè e in cui tipi senza verso, sboccati e un po’ maleducati tipo Tetteballerine sono tacciati come soggetti da evitare categoricamente.

Non penso che Enrico abbia avuto altro che non una simpatia asessuata per Cecilia. Questo mi ha portato a definire La Regola di Platino di Chi più Re di Noi, il vero inizio di un grande corollario di postille e decaloghi comportamentali già descritti ampiamente nella puntata precedente.

Un altro aspetto comportamentale che Spanky ha ereditato dal sottoscritto è la sua ritrosia al mantenimento dei rapporti sociali, umani, di amicizia. Per me era abbastanza tipico durante le scuole dell’obbligo (durante le vacanze, che fossero pasquali, natalizie o estive) darmi alla macchia: interrompevo le comunicazioni con i miei compagni di classe, mi mettevo in silenzio radio fino a quando le lezioni non ricominciavano.

Il perché? 

Perché sono uno stronzo asociale potrebbe essere una risposta ma lo è anche il fatto che condividere tutti i giorni, le ore e ore di stress da compiti in classe e da interrogazioni a sorpresa, quelle emozioni ansiose, quegli stati d’animo negativi mi costringeva a interrompere momentaneamente i rapporti. Il continuare a sentirli durante i momenti di pausa non mi avrebbe permesso di staccare completamente il cervello, che mi avrebbe insistentemente ricordato quanto il ritorno a quegli incubi scolastici fosse più prossimo ogni minuto, ora o giorno che passassi a godermi le meritate vacanze.

Quindi, con almeno 15 anni di ritardo, mi vorrei scusare con i miei compagni di classe per essermi sempre fatto di nebbia quando la scuola non incombeva su di noi, alleggerendo il peso delle nostre sacche scrotali.

Il periodo del liceo è quello che mi ha messo più in crisi e, allo stesso tempo, quello che rivivrei senza pensarci su troppo. Da un lato ho vissuto male certi professori, più che altro, che non erano in grado di spiegare, o lo facevano male, dall’altro dovevo combattere contro certe insicurezze insite nel mio carattere ancora in fase di sviluppo in quegli anni e che solo il tempo, le tranvate nei denti e i rimorsi mi avrebbero cucito addosso per farmele andare più comode o(non sarebbe un mio post senza una deriva da vecchio bacchettone rincoglionito e acido). Oltretutto, la stessa inesperienza verso le questioni sentimentali, che a quei tempi occupavano la maggior parte dei miei pensieri e dei miei sforzi (c’è un’età in cui tutti, a parte eccezioni - tipo Tette’ - siamo insindacabilmente brutti come la fame senza apparente possibilità di redenzione) colorava il mondo di alti e bassi così accentuati da farmi girare su un ottovolante emozionale costante, con colori vividi, pugni allo stomaco lancinanti e oscuri stati di depressione. E grazie, in ogni caso, agli amici bistrattati ma così fondamentali che mi hanno mostrato come poter affrontare al meglio i momenti bui e le rotture di cazzo. Con le risate. 

Chi più Re di Noi è soprattutto grazie a/per loro.

Ne “La regola di Platino” Spanky confessa a Cecilia, e solo a lei per il momento, che si è convinto che chi lo tiene sveglio durante la notte sia una ragazza. Una ragazza che sta piantando nel nostro Enrico una bandiera del colore di un’ossessione ferina che sarà difficile da divellere.

Ho parlato ampiamente della genesi di Chi Più Re di Noi, dell’ispirazione che ha portato all’idea primigenia (trovate tutto nella postfazione dell’edizione 2020) ma non dell’inclinazione naturale che ha portato a partorirla. Come papà e mamma si sono incontrati, capiti, piaciuti, intesi, accoppiati, insomma. Perché due possono essere anche belli come Dei e simpatici da morire ma se manca la sintonia, quel piglio senza il quale i bruchi nello stomaco non si trasformano mai in farfalle, non nascerà mai niente. Per cui Chi Più Re di Noi parla sì di un gruppo di universitari più o meno ligi ai loro doveri accademici guidati dagli ormoni per il 90% del viaggio, di una città (Bologna) in cui l’aria è magica e sembra che qualsiasi cosa sia possibile e di una misteriosa ragazza che continuerà a sfuggire fino all’ultima pagina ma principalmente è un romanzo che ha come tema centrale l’importanza dell’immaginazione, dell’influenza che ha sulle nostre vite, di come condizioni le nostre scelte e il nostro umore dal primo attimo della giornata all’ultima nota della sera. 


A Enrico non serve molto per legare le sue emozioni a quella proiezione sensoriale a cui dà l’aspetto di una bellissima ragazza. In lei proietterà tutte le aspettative che una vita sentimentalmente solitaria come la sua, fatta solo di qualche sporadico flirt e tante disillusioni, ha creato. E quell’idea attecchirà così a fondo in lui da prendere il controllo anche quando Enrico è inconsapevole. In questo caso Enrico/Spanky è ricalcato pari pari sul profilo del suo autore, ne condivide l’inclinazione a sognare, a distaccarsi dalle cose materiali e dare più importanza alla pancia, alle emozioni, alle sensazioni. Come me, Enrico vive in un mondo parallelo fatto di mille scenari possibili, mondi paralleli, conversazioni che non avverranno mai e incontri mancati solo per un battito d’ali di farfallo sul continente asiatico. 


Quella è una vita vissuta in una realtà silenziosa, in cui degli esseri-iceberg mostrano solo una piccola parte di loro stessi e tutto il resto si svolge negli abissi del loro animo. Forse è per questo che mi escono bene tante storie diverse, perché se mi tenessi dentro tutte quelle che ho un giorno potrei deflagrare in una gloriosa esplosione di frustrazione e bisogno di rivalsa. 

I tipi silenziosi, i riflessivi, quelli che hanno spesso lo sguardo fisso e muovono le labbra impercettibilmente come impegnati in chissà quale dialogo sono coloro che vivono migliaia di vite diverse non potendo, e non volendo, sceglierne una sola. Io prendo esempio dal mio “me stesso” che vive nella mia immaginazione e nella mia fantasia, lo vedo reagire a quello che mi capita nel mondo reale e prendo appunti, rosicando da matti perché lui fa cose che io non sogno nemmeno. Con il tempo sono riuscito a accorciare le distanze ma lui è sempre più avanti, non c’è niente da fare.

Se innamorarsi di un pensiero, di un mondo che si è costruito partendo dal nulla, fosse un superpotere, sotto i vestiti indosserei una calzamaglia sgargiante e terrei sempre d’occhio ogni cabina telefonica nei paraggi per cambiarmici appena qualche minaccia interplanetaria metta a rischio il mondo. Avrei una gloriosa “P” ricamata sul petto e uno stato di delusione costante. Tendenzialmente LA “P” starebbe per Pindaro, come quel poeta dell’antica Grecia diventato famoso per il suo volo e per come riuscisse, con apparente sospensione della logica, a passare da un argomento all’altro così come i miei improvvisi distacchi dalla Realtà, ma potrebbe anche essere declinata in una decina di aggettivi e nomi con la medesima iniziale non molto edificanti. Me ne viene subito un esempio calzante: Patacca (non la parte anatomica femminile nota in Romagna ma il tizio scemo, stralunato, ingenuo che trovate su ogni spiaggia della Riviera). 


Enrico resterà imprigionato nella sua fantasia per tutto il romanzo e questo condizionerà irremediabilmente i suoi rapporti con il resto del mondo. 

Non c’era nulla di bello che potesse strapparlo prima da quel regno incantato? 

Sì, ma il sognatore non lo vede, non lo sente con la stessa forza, non viene spinto con la stessa determinazione. Per destrasi il sognatore ha bisogno di correre contro il treno in corsa e rimanerci sotto. 

È un morbo che si può curare?

Non si può guarire del tutto, bisogna imparare a conviverci.

Mi viene alla mente, rischiando di essere tacciato di blasfemia, la novella “Il treno ha fischiato” di Luigi Pirandello. Qui il protagonista, il signor Belluca, oppresso dai problemi, dall’angoscia per una condizione che lo rende infelice e sottomesso in famiglia e al lavoro, in un ripetersi di giorni sempre uguali a loro stessi si ricorda, incredibile come avesse potuto dimenticarlo, che il mondo esiste. Il fischio di un treno lontano lo risveglia e gli rammenta che un altro mondo, oltre il suo, è sempre stato lì, a portata di mano, appena oltre la linea dell’orizzonte di quelle pile di carte sulla sua scrivania, alte ogni giorno di più. A quella rivelazione Belluca impazzisce aggredendo il capoufficio, reo di averlo subissato di rimproveri non più dei giorni precedenti. Quindi viene ricoverato finché i suoi nervi non si calmano. Tornerà alla sua solita vita come prima, o quasi, qualche mese dopo. Quella prima volta, in cui aveva ascoltatoil fischio del treno, si era riempito di sogni di un’altra esistenza, di leggerezza e di evasione fino ad esplodere. Ne aveva fatto una scorpacciata, si era ingozzato di vita e non aveva retto. Belluca imparerà ad attingere a quella fonte di sogni poco alla volta, senza più farne indigestione ma un’abitudine di pacifica fuga da una realtà opprimente.

Alle stessa maniera del signor Belluca, col tempo Enrico, io e ogni altro sognatore impariamo a scendere più spesso dalle nuvole soffici e sicure per camminare in un mondo freddo, ventoso e opaco per la semplice ragione che è lì che i sogni nascono, prendono vita e crescono.

La canzone che ho scelto per aprire questo capitolo (Our House by Madness) mi permetteva di trasmettere l’idea di famiglia unita e allegra, caotica e solidale fatta di individui con peculiarità diverse e spesso contrastanti ma che restavano insieme senza uccidersi perchè si volevano un gran bene. Ed è proprio l’atmosfera che si respira in quell’appartamento fatiscente al civico 49, interno C. Enrico, Zanna, Tetteballerine, Cecilia e Virginia sono i componenti di una famiglia che restano insieme nonostante tutto perché, alla fine, si sono scelti. In quella casa, proprio come nella canzone, c’è sempre un gran via vai e succede sempre qualcosa, e molto spesso a volume alto/rumorosamente. È il caos allegro, la cosiddetta bolgia, l’anarchia festante che fa piangere le mamme, la dissolutezza scomposta che fa inorridire i benpensanti, l’amoralità giovanile che scuote le fondamenta dello status quo.

Ascoltate la canzone dei Madness, non ci troverete un testo profondo e sopportate la melodia, se non è proprio di vostro gradimento (in fondo è un brano pop degli anni 80, e si sente). E poi quell’atmosfera british con case di mattoni rossi a vista, comignoli fumanti e nebbia così densa che la si può toccare mi scalda, mi riporta a casa anche se la casa a cui penso non è fisica, ma ha tetto e pareti di un tempo lontano i cui confini sono i ricordi di un’altra storia, che non vi racconterò oggi.





        
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