Alessio Chiadini Beuri: Burn in hell, Jesus!

giovedì 14 novembre 2019

Burn in hell, Jesus!









Avevo appena vinto un viaggio nel paese delle meraviglie: una terra dei balocchi fatta di camere da letto sudice in cui la vita la consumi a ore. Come in una maratona arrabattata alla rinfusa, circa ogni dieci camere c’erano un distributore di bibite e un ripostiglio di scope, stracci e ciarpame vario, comprese alcune grosse bombole. La tristezza del posto era tale che certi ospiti non si prendevano nemmeno la briga di ricavarsi un boccone di privacy chiudendosi la porta alle spalle.
Quell’ hotel era una comune di tossici e puttane. Una stanza su due era addobbata con insegne al neon sfrigolanti dove gli insetti andavano a sbatterci il muso e a farsi una lampada abbronzante; poster di donne nude appesi alle pareti e arricciati da quelle che speravo fossero perdite d’acqua del vecchio impianto arrugginito; moncherini di candele profumate che accendevano l’atmosfera romantica tra giovani ragazzine europee e vecchi bavosi soli e pieni di rancore. Al centro delle stanze torreggiavano letti a forma di cuore o letti vibranti che se li lasci accesi per un po’ ti portano anche fino al bagno per una pisciatina liberatoria. La moquette era mangiucchiata dalle tarme e butterata da centinaia di ustioni da sigaretta. La principale causa di incendio in motel di quella risma erano gli impeti da sveltina e secondi tempi con la squinzia di turno. Per finire, ogni televisore, ritrovati a tubo catodico antidiluviani, era sintonizzato sulle previsioni del meteo che inframezzavano notiziari straordinari, televendite di materassi e telenovela argentine piene di Carlos, Maria, Dolores, pesos rubati, miniere e peones piegati al volere del Don di turno.
Quando captai il jingle del notiziario speciale che interrompeva le trasmissioni mi fermai e sbirciai attraverso l’uscio aperto di una di quelle dimore di lusso. Peccato, stavo quasi per scoprire chi aveva sottratto il contratto della miniera di Santa Fe dalle gelide mani del malvagio Antonio Morales. Il dubbio mi avrebbe perseguitato per giorni.
«Stanotte, la guerra alla terribile droga Valchiria ha purtroppo fatto registrare una nuova vittima illustre: l’agente speciale della DEA Alex Balder, trovato ucciso nella stazione di Roscoe Street. Un sospetto è stato visto allontanarsi poco dopo che i colpi letali sono stati esplosi. La polizia ha motivo di ritenere che si trattasse di Max Payne, un criminale armato ed estremamente pericoloso. E adesso le previsioni atmosferiche, con la terribile tempesta di neve che continua a imperversare sulla città.»
Les jeaux sont faites.
Splendido, Bravura aveva dato fondo a tutto il suo acume e ne aveva tratto la conclusione sbagliata. Non aspiravo a vincere il premio di poliziotto infiltrato dell’anno ma non era così che speravo di passare il fine settimana. Il notiziario mi aveva inquadrato come criminale perché così diceva la dichiarazione che il dipartimento aveva rilasciato ai cronisti di nera. Se Lupino e Puncinello mi stavano dando la caccia perché sapevano chi fossi in realtà, mamma polizia mi aveva disconosciuto per un eccessivo moto di vergogna. Senza rancore, comunque: non ero mai stato una di quelle ragazze che pretendono l’esclusiva. E che si offende quando si vede declassare da “desiderio sessuale incontenibile” a “crudele indifferenza post-coito”.
Ero grato a mamma NYPD anche se mi stava ripudiando. Lei mi aveva dato le capacità e gli strumenti che avrei impiegato per portare pace nel quartiere. Un quartiere di nome Michelle che aveva in sé un bellissimo giardino, Rose, in cui i bambini possono andare a giocare felici e senza temere di non essere amati.
Mi allontanai dalla porta, la 321, sapendo in che direzione andare.
Mi accovacciai dietro un distributore automatico di fronte alla 317. Il mio traguardo si trovava solo a una dozzina di metri. Con l’orecchio appoggiato alla carcassa d’alluminio, il ronzio fastidioso della mia emicrania crescente veniva cullato dal borbottio costante del refrigeratore all’interno del distributore.
Allungai la mano fino allo sportellino del resto.
Regola numero uno dell’eroe senza macchia e senza paura: mai uscire di casa senza spiccioli. La giornata potrebbe essere più lunga di quanto si possa immaginare. Comunque niente, gli altri ospiti dell’hotel erano già passati a far man bassa dei valori dimenticati da altri prima di loro. Considerai di alzarmi e prendere a calci il distributore finché non fossi riuscito a fare cadere qualcosa di commestibile ma non la ritenni una mossa astuta. Non volevo arrivare da Rico Muerte spompato ma non volevo arrivarci neanche troppo morto.
Basta chiacchiere Mr. Payne.
Mi sporsi oltre il mio riparo e scrutai il pianerottolo di fronte alla 313. Non c’erano né santi né farabutti, né ragazze di molti né padri di tutti. Emersi dal nascondiglio con la sola Glock pronta all’offesa. No, la 313 se ne stava là senza sorveglianza, chiusa al mondo esterno e gelosa dei suoi segreti. Mi avvicinai e accostai l’orecchio allo stipite ma nulla da fare: o vi si riposava una bella addormentata o l’inquilino se n’era andato a fare una sudata nel bagno turco. Non volevo neanche illudermi sognando un plotone d’esecuzione tutto per me in attesa che mettessi il naso dentro.
«Cameriera ai piani! Qualcuno ha bagnato il letto?» bussai con la mano della Desert Eagle.
Nessuna risposta. Neanche una sventagliata d’accoglienza.
Peccato perché mi ero anche spostato di lato per farmi mancare. Liberai una mano e serrai le dita attorno alla maniglia. Considerai che, vista l’importanza del suo ospite, la porta potesse essere stata minata per scoraggiare eventuali ospiti non graditi ma quasi subito scacciai il pensiero. Non cercavo di fare il duro ma gli indizi avevano portato a quella camera, e se non avessi attraversato quel confine il mio viaggio sarebbe finito là davanti, bomba o meno.
Un rivolo di sudore scese lungo la fronte mentre l’orecchio teso allo scatto della serratura cercava di captare altri rumori inconsueti, presagio di brutte sorprese. Il meccanismo ruotò completamente, il mondo non brillò a giorno e la porta rientrò nella stanza disegnando un’ombra sulla moquette viscida. La spinsi ad aprirsi di slancio. Così come nessuno aveva risposto al mio bussare anche quella mossa non destò interesse. I cazzi amari che vendevo sembravano non interessare a nessuno. Mi tuffai dentro producendomi in una capriola degna del Cirque du Soleil. Scandagliai la 313 con l’aiuto di due pistole, nell’attesa del lampo di uno sparo o della luce che si rifletteva sull’acciaio di una semiautomatica puntata contro di me.
Trovai lo stesso scenario di tante altre camere prima di quella: odore di umanità, strisce di cocaina sul tavolino di fronte alla TV, il notiziario della sera e un posacenere gravido di mozziconi. Andai dritto verso il cesso e lo trovai vuoto, come la modesta cabina-armadio nel corridoio alla mia destra. Rico Muerte non c’era, ed io ero ancora tutto intero.
Mi prodigai allora in quello che avevo sempre ritenuto uno dei miei talenti: rovistare nei cassonetti della società per trovare la merda. Tirai lo sciacquone, come qualcuno si era dimenticato di fare al momento giusto e tornai al soggiorno. Setacciai i vani della cassettiera accanto al letto e dell’unico comodino con sopra un’abat-jour ingiallita dal fumo e dagli strati di polvere. Trovai una bibbia in pelle rossa su cui qualcuno si era divertito ad incidere con una tronchese per unghie la scritta “BURN IN HELL, JESUS, BURN!” e un profilattico superstite del glorioso 1982, anno in cui spopolava la moda delle malattie trasmesse dallo scambio di fluidi corporali; un cartello “non disturbare” da appendere alla porta e alcuni trucioli di tabacco che ora se ne andavano da una parte a causa del mio respiro e dell’aria condizionata. Quest’ultima, più che un soffio appena accennato incapace di disturbare i sogni stanchi dei viaggiatori, era un rantolo affaticato e rauco. Rivoltai i cuscini e sollevai il materasso. Non trovai nemmeno uno scheletro di squillo morta e nell’armadio non c’erano camerieri in putrefazione, tanto meno cadaveri di mariti gelosi.
Che fortuna, forse era la 315 a contenere tutte quelle sorprese, o la 319. Dietro al televisore e nella vaschetta sopra il water cercai le armi. Nada. Sulla minuscola scrivania torreggiava una tazza di caffè incrostata impegnata a tenere fermo un unico foglio, segnato da una calligrafia fitta e obliqua.
Io e Alex non eravamo ancora riusciti a collegare Angelo Puncinello, capo dell’omonima famiglia, alla droga Valchiria. E non che non c’avessimo provato. Sapevamo che era lui il grande burattinaio ma non potevamo dimostrarlo di fronte ad una corte di giustizia. Quindi: “Bravi Max Payne e Alex Balder ma sarete più fortunati la prossima volta. Ritentate. Ricchi premi e cotillons per tutti!”
Tutte le tracce ci avevano sempre portato a Jack Lupino.
Fino a quel momento.



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