Alessio Chiadini Beuri: febbraio 2021

sabato 27 febbraio 2021

Dentro il libro e oltre: ON AIR!

 



Per la maggior parte della vita, molti di noi, fingono di essere qualcuno che non sono. Non lo fanno sistematicamente solo con gli altri, ma anche, e aggiungerei soprattutto, con se stessi. Il perché è presto detto: formare un racconto coerente racconto di noi stessi da trasferire ai nostri inconscio e subconscio per avvalorare tutte quelle impalcature identitarie che artificiosamente ci siamo costruiti mattone su mattone, giorno dopo giorno.

Noi siamo fatti di coscienza e identità. La coscienza (di noi stessi) è in continuo divenire, la modelliamo e la trasformiamo senza sosta in base alle risposte che quotidianamente forniamo agli stimoli del mondo esterno, quella bolla chiamata “realtà” in cui altre miliardi di coscienze convivono ed esistono, e cazzo, esprimono pure opinioni non richieste. L’identità, invece, possiamo modellarla fino ad un certo punto. Fino, cioè, al momento in cui è troppo difficile rivedere il progetto e tornare indietro in caso ci fossero dei problemi strutturali. Noi siamo i costruttori della nostra identità e la coscienza di noi stessi è la nostra malta. Raramente ci guardiamo indietro. Man a mano che gli anni passano, l’edificio cresce e le fondamenta induriscono tanto che, alla fine dello sviluppo, ciò che crediamo di noi stessi non è soltanto un prodotto di noi stessi ma è diventato un manuale di istruzioni, un navigatore satellitare per condurre la nostra vita. È un po’ come inserire il pilota automatico o il cruise control e rilassarsi.


È giusto? È sbagliato?

Non sta a me dirlo. Io personalmente sono portato a non accontentarmi delle risposte preconfezionate, nemmeno se a darmele sono io stesso. La costruzione della nostra identità di essere umani è un racconto che noi facciamo a noi stessi e, come in tutti i racconti, non è sempre vero quello che si legge. A volte lo scrittore usa il suo mestiere per giustificare due paragrafi che, altrimenti, letti uno di seguito all’altro, stonerebbero. Raccorda, cuce e disfa le parti che rendono la narrazione problematica, lenta o noiosa. E poi, non paghi di questo lavoro di taglia e cuci, al momento di sfoggiare ciò che siamo (o che pensiamo di essere), tiriamo fuori il Bignami di noi stessi, la versione corta, e andiamo a braccio con quelle quattro nozioni che abbiamo imparato a menadito.


Ma perché vi racconto tutte queste cose da psicologia da bar che, in teoria, dovremmo parlare di ben altri argomenti, molto più frivoli e all’acqua di rose?

Perché il serio e il faceto, nella vita, devono coesistere e noi non possiamo agire a compartimenti stagni. Per cui può capitare di essere vittime di una “sgrigna” incontenibile durante un funerale, o intristirsi di fronte a qualcosa di assolutamente bello. 

Chi più Re di noi è un romanzo appartenente a un genere tutto suo che ha la capacità di cambiare aspetto e significato a seconda del suo fruitore. Molti non lo capiscono, altri lo giudicano solo dalle battute spinte, alcuni pensano sia un’accozzaglia poco originale di idee di altri pieno di volgarità. Fondamentalmente non ci perdo tanto il sonno, non per arroganza, ma perché è un romanzo che ha dentro ogni brandello d’anima, tutti quegli aspetti contraddittori che regolarmente ci creano crisi d’identità e che non ha paura di mostrarsi. Qualsiasi cosa fatta con cuore, con onestà e con coraggio non deve temere il giudizio di nessuno perché, per il solo fatto di esistere, ha superato il giudizio più spietato di tutti: quello del suo creatore.

Nel capitolo di questa settimana, “On Air”, vediamo il nostro protagonista Spanky darsi un tono da rockstar tra i corridoi della facoltà, con quell’effervescente tracotanza che hanno alcuni (leggi: tanti) ragazzi in quel periodo di vita che va dalle superiori ai trenta anni, più o meno. La durata è variabile, ovviamente. Quel fare che, negli adulti (e ormai lo sono anche io), genera due reazioni discordanti ma coerenti: sorriso compassionevole e urticante fastidio. Non è che gli adulti non capiscano i giovani, né che non ricordino più com’è avere vent'anni: semplicemente sono costretti a fare un tuffo nel passato, guardarsi dall’esterno e realizzare di essere stati degli autentici coglioni. Non è quasi mai una bella esperienza, soprattutto perché ormai non ci si può fare più niente.


In ogni caso, è con questo atteggiamento che troviamo Enrico a sproloquiare con se stesso di liberazione del maschio dal giogo femminile, di Kate Millett e di femminismo radicale e degli innumerevoli fidanzati della Canalis (NDR, era il 2012. Oggi sarebbero quelli di Belen), mentre descrive cerchi di pipì nel bagno di facoltà. All’università è il giorno di inizio dei corsi accademici, o come viene definito dai membri dell’Alsef, “La giornata delle matricole”, in cui ogni uomo dal secondo anno di corso in poi è per definizione un re, per la sua conoscenza dell’ateneo e per l’esperienza che può regalare ai novizi. Esperienza a tutto tondo, s’intende.

Vedete come lui è galvanizzato? Smetterà di esserlo presto perché lei la smollerà alla velocità del suono a uno dell'ultimo anno o, più probabilmente, a qualche assistente.


A Enrico è saltato il colloquio con l’assistente del professore a cui ha chiesto di fargli da relatore per la tesi e approfitta così di una mezza giornata di libera uscita che lo avrebbe altrimenti visto soccombere di fronte all’estenuante attesa del suo turno e all'ennesimo racconto di chi fosse, che cosa ci facesse lì e di cosa parlasse la sua tesi. In Chi più Re di  noi i professori e gli assistenti escono sempre un po’ con le ossa rotte. Ci tengo a precisare che non è colpa mia, è la Realtà che, manifestandosi, ha dato il peggio di sé. Professori inetti e assistenti frustrati ne abbiamo? A container.

Il professore da film americano pronto a corrompere l'anima candida di ogni studentessa che non vede l'ora di zompargli addosso. Sposato, cornifica la moglie e possibile serial killer di giovani donne.

Quello che invece capita agli studenti italiani (in odorama si sentirebbe anche la zaffata di alitosi)
«Avevo solo chiesto una pepsi-senza!»

Ricordo certi esami in cui la difficoltà per prepararlo e le pretese erano inversamente proporzionali all’utilità che ne avrebbe ricavato il candidato una volta conquistata la pergamena di laurea. Quelli che mi hanno segnato di più, in negativo, sono stati quelli di filosofia. Voglio raccontarvi un paio di aneddoti.

C’era un giga esame il primo anno della triennale di antropologia, di Filosofia classica, dieci crediti formativi, il massimo per l’epoca. Questo voleva dire di solito che i manuali da studiare sarebbero stati almeno 4, più gli appunti di tre mesi di lezione in aula.

Lo lasciai per ultimo, come nella letteratura horror Stoker ci ha insegnato a tenere lontani i vampiri: crocifissi, corone d’aglio e acqua santa. Provai a darlo due volte, e al primo tentativo non è che rifiutai il voto, non riuscì nemmeno a vedere il professore, mi fermai all’assistente. Burgio si faceva aiutare da due ricercatori/assistenti/galoppini, di cui ora non ricordo il nome e non ho molta voglia di cercarli. Erano un uomo e una donna e subito sembrarono a tutti stronzissimi. All’esame si occupavano di interrogare gli studenti su tutta la parte monografica comprendente la nascita della filosofia, dai greci fino a Sant'Agostino, all’incirca un intero anno del programma del liceo e importante solo per metà di quell’esame assurdo. Vi dico subito che, su quella parte, non ero preparato alla virgola e ai due punti: sapevo spiccicare al massimo un frase e mezzo di senso compiuta sulla maggior parte dei filosofi in programma. Per i restanti, sapevo a malapena della loro esistenza. Mi accinsi comunque, impavido, a sostenere l’appello di giugno con l’ottimismo di chi crede possa essere tutto una proforma, vista la considerazione della materia nel mondo reale.

«Ma fai davvero?»

Ovviamente, mai errore fu più grave. Bastarono un paio di domande perché l’assistente (mi capitò il maschio) chiudesse il discorso chiedendomi di prepararmi meglio e tornare la volta successiva. Così, in dieci minuti. Non avevo potuto nemmeno riscaldarmi. Capite, se non superi l’assistente non hai nemmeno la possibilità di vedere il prof, un vero e proprio sbarramento, mentre io credevo di potermela cavare con i miei leggendari giri di parole che non portano a nulla se non al mal di testa di chi mi ascolta e arrivare alla media aritmetica della sufficienza tra la sessione con l’assistente e quella col prof. Manco per il sonaglio di Siffredi.


Quella bocciatura non me l’aspettavo: venivo da un primo anno pressoché perfetto, senza bocciatura (ma nemmeno chissà quanti 30). Ci avevo sinceramente preso gusto. La digerì male, come un’offesa personale e così mi ripresentai all’appello successivo con lo stesso livello di studio della prima volta. Direte: allora sei masochista. No, è che ritenevo che la preparazione che avevo compiuto per quell’esame fosse il massimo dello sforzo che quell’esame meritasse. Andai: c’erano di nuovo l’assistente uomo e l’assistente donna a scremare ed alleggerire le fatiche del professore di ruolo, era luglio, faceva caldissimo ed era l’ultimo appello prima dell’estate. Volevo andare in vacanza (see, d’estate lavoravo) senza il fardello mentale dell’anno incompiuto (credetemi: cambierò presto idea). Non volevo finire con l’assistente donna, non volevo che il tizio che mi aveva bocciato, vendendomi con la collega pensasse che avessi voluto aggirare l’ostacolo e ripartire da zero. Non potevo permetterlo. Feci passare davanti a me un ragazzo per poter tornare dal mio amico occhialuto e pallido e confrontarmi una seconda volta. Passai il livello con un onorevolissimo 24, pronto a sfidare il professor Burgio. Com’è andata con lui? Ci arriveremo.

Il secondo aneddoto lo farò più breve, giuro. Credo fosse l’ultimo anno di Antropologia e l’estate, ancora una volta, incombeva sull’emisfero Boreale, io mi ero distrutto un ginocchio e avevo fatto per la seconda volta un tesina su Platone, una gioia incommensurabile. Quando entrai nell’ufficio del professore per discutere il mio elaborato ed essere interrogato sul corso, di cui ad oggi non ricordo nulla (quasi anche allora), con mia sorpresa mi trovai di fronte uno stuolo di persone, accademici, dottorandi e professori tutti in fila dietro a una lunga scrivania. Per un attimo mi domandai se non fosse arrivata una laurea honoris causa in filosofia per il solo merito di essermici cimentato e già mi vedevo stringere mani con le più alte personalità del mondo universitario a alzare sopra la testa prestigiosi premi, fama e gloria imperiture. 


Invece no, dopo due minuti ebbi conferma che ero lì solo per l’esame, e per sudarmi un voto più alto del 18. Dico, magari il professore aveva ingaggiato dei figuranti: non mi capacitavo di quale potesse essere l’interesse di altri professori ad assistere ad egli esami di studenti del terzo anno, che non avrebbero di sicuro portato la filosofia a compiere balzi da gigante e all’avanguardia di secoli. Mi dissi: minchia, davvero non avete di meglio da fare in un caldo pomeriggio di luglio che ascoltarmi blaterare per un’ora sul niente? Siete davvero così a spasso da dovervi riunire per dare uno scopo alle vostre giornate? Poveri filosofi.

Con questo voglio concludere gli aneddoti dicendo che sì, la filosofia è cosa bellissima e necessaria ma, dato che è prodotto di pensiero che risponde alle grandi domande dell’umanità di cui difficilmente si potrà trovare risposta, ognuno è in grado di farne, produrne, concepirne. Tutti i giorni creiamo filosofia da noi stessi rispondendo agli stimoli primordiali che ci rendono dubbiosi sul chi, sul perché, sul come e non possono un Socrate, un Aristotele, un Kant impormi la loro come più importante rispetto alla mia. Sono anch’io un essere pensante? Allora sono!

Questo capitolo parla di come spesso ci sforziamo per apparire in una maniera diversa da chi siamo veramente, semmai un giorno arriveremmo a comprenderlo. L’apparire, come detto, è una pratica che mettiamo in campo sia per gli altri, sia per noi. Apparire ci dà la forza per essere, visto che non è vero che “l’abito non fa il monaco”. Lo fa eccome. Tutti cerchiamo di sembrare migliori, elidendo o omettendo quelli che sono i nostri aspetti meno “mainstream”, quelli che potrebbero non farci accettare dal gruppo di cui vorremmo tanto far parte. Appartenere a un gruppo, identificarci nei suoi valori e nel suo credo è un aspetto che contribuisce a costruire la nostra identità. L’essere umano è un animale sociale, ce l’ha scritto nel DNA e non si può prescindere. Quando ovviamente dico tutti, vorrei invece dire la maggioranza di noi tutti. Ci sono persone che arrivano al concetto che sono proprio quegli aspetti che differiscono dal comportamento fotocopia di un gruppo di persone, di un insieme sociale, a essere ciò che ci rende individui, che ci permette di spiccare, di essere identificabili, di essere unici. Io, in quanto esemplare medio di essere umano, ci sono arrivato soltanto con l’età anagrafica. Sono un conformista di natura, in realtà.

Così, anche Enrico si comporta come se fosse sicuro di ciò che vuole, di ciò che vorrebbe essere e mente quando incontra una matricola, una moretta con caschetto e belle gambe intenta a scrutare la bacheca degli annunci nel corridoio di facoltà. Quello che ci sembra difficile nella vita vera diventa molto divertente nella finzione, e molto semplice. Come attaccare bottone con una sconosciuta senza balbettare o incespicare su una sillaba ogni due parole. Senza almeno un drink in corpo (sono astemio - bevo solo ai matrimoni - e mi basta una bevuta per andare fuori) certe cose non sono mai riuscito a farle. È brutto dirlo ma è una legge di natura ormai dai tempi felici dei baccanali: l’alcool rende forti e senza paura, padroni del mondo e in grado di compiere ogni impresa che prima ci sembrava impossibile (La Felix Felicis inventata da JK Rowling vi dice niente?). La cosa migliore però è che se solo smettessimo di preoccuparci delle conseguenze, delle possibili figure di merda, dei rifiuti e semplicemente “facessimo”, scopriremmo che tutto è alla nostra portata senza dover ricorrere a sostanze che annebbiano la ragione e offuscano le paure.


Spanky si mette a tacchinare la giovane, dicevamo, e con domande innocenti cerca di capire se possa esserci spazio di manovra per uscire da lì con lei, o almeno col suo numero. Quando si scopre che sta cercando qualcuno che le dia lezioni di chitarra e di canto, lui si inventa di far parte di una cover band dei Dire Straits anche se l’unica cosa in grado di suonare (male) è una chitarra classica rinvenuta, non si sa perché né come, in un armadio dell’appartamento. 

Cosa vera, tra l’altro. Ho iniziato così a suonare la chitarra: per caso. E porchiddi che si sprecavano dalla camera da letto quando la mattina alle 8:30 accennavo, pianissimo, tre accordi in cucina, dall’altra parte della casa. Scusa ancora, Marco!

Comunque, la ragazza, di fronte a quell’armonia d’intenti artistici che scopre di condividere con il nuovo, espansivo ed amichevole conoscente, lascia cadere l’imbarazzo da matricola tanto da portare a credere a Enrico che presto potrà vederla con l’abito da Eva (quello biblico, non Kant - che comunque sarebbe andato bene lo stesso). Tutto questo, però, prima che faccia la sua comparsa un terzo protagonista: un fattone di nome Ivan, sputato al personaggio di Shaggy di Scooby-Doo. Lui e la ragazza, Livia, sono amici ed è lei a proporgli di ospitare Spanky nel suo programma radio, in qualità di chitarrista della farlocca cover band.


Un bel boomerang per il nostro, che ora ha davanti due scelte: dichiararsi per quello che è in realtà, perdendo la ragazza o seguire Shaggy e fare la sua prima ospitata nella radio universitaria, fare una figura di merda e perdere la ragazza. Enrico sceglie di mantenere la barra dritta e va avanti con la menzogna, che tanto il panorama è migliore quando si precipita da più in alto.

La sua fortuna, maledetto bastardo, è che Ivan è così fumato di roba buona che la prima domanda dell’intervista è talmente generica da lasciare lo spazio di manovra per un’astronave-madre aliena che deve fare inversione e tornarsene a casa in fretta: “Cosa pensi quando ti dico MUSICA?”

Così, prendendo a prestito da Ligabue il monologo di Radiofreccia, Enrico ci parla dei suoi gusti musicali (e dei miei), togliendosi letteralmente la patata bollente dal culo (perdonatemi: ho fatto i Gesuiti): la bellezza di certe suonate di pianoforte alla Billy Joel, le musiche da scaldamuscoli tipo Flashdance, certi pezzi di buon rap, Bruce Springteen, Phil collins e Eric Clapton che accompagnarono i miei tormentati anni liceali, Bryan Adams, gli assoli di Brian May, Stevie Wonder, Bob Dylan, il sassofono simbolo di una certa musica anni 80, gli U2 di Sunday bloody sunday, gli Oasis, l’essenza rock degli Aerosmith, allo stravagante Elvis Costello degli anni 70.




Sembra limitata la mia cultura musicale perché è in costante espansione.

Non a caso, al termine di questo lunghissimo post pieno di concetti, aneddoti e psicologia spicciola, vi propongo il pezzo della settimana e del capitolo “on Air”: Under Pressure by Queen & David Bowie, uno dei pezzi più belli della storia della musica. L’ho scelto perché, soprattutto per l’iconico intro a cura di Roger Taylor, mi faceva pensare a un nuovo giorno, frenetico, che inizia e che si ripopola delle nostre abitudini, a volte insensate, e dei nostri spazi, che ci sembrano importanti e che vogliamo difendere a tutti i costi senza renderci conto che potremmo farne a meno e vivere bene ugualmente. A volte anche meglio.

Ogni giorno è il giorno giusto per cambiare, per dare una svolta alla nostra vita, per liberarci di quegli intralci che ci impediscono di volare. Non è facile farlo ma continuare a ricordarcelo aiuta a non allontanarci dalla ricompensa.




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giovedì 18 febbraio 2021

Dentro il libro e oltre: Ehi tu, porco!

 


Non possiamo cominciare senza questo video:


Dopo quasi 20 capitoli abbiamo riunito la ciurma. Ce l’abbiamo fatta. È il caso di festeggiare, che ne dite?

E allora usciamo per andare a bere, anche se nella vita vera ancora non si può (vi scrivo dal passato: 15 febbraio 2021, per voi 19 febbraio 2021). Concediamocelo, ce lo siamo meritato.

In “Ehi tu, porco!” tutti e cinque gli inquilini dell’interno C al numero 49 di via Saffi, Bologna, escono per concedersi una serata di dichiarato ludibrio (è vero almeno per i tre quinti della compagine, quella portatrice del cromosa Y). Virginia e Cecilia li accompagnano al Fantasy, ma con obiettivi diametralmente opposti: farsi gli affari loro e raccontarsi le vacanze.

Mentre Enrico, Tetteballerine e Zanna si preparano anticipando il bidet mensile e cospargendosi di acqua di colonia come nei film degli anni '80 fischiettano When Johnny comes marchin’home, celebre canzone popolare americana coeva alla Guerra di Secessione, ripresa dal terzo film della saga di Die Hard quando Jeremy Irons fa il suo ingresso in banca per rapinarla. I ragazzi la usano come loro Haka, per caricarsi allo scontro che prevedono di avere con il gentil sesso. È la prima serata Erasmus della stagione e, si sa, chi ben comincia è a metà dell’opera. Come Fondatori e membri Alsef (Associazione libera soccorso Erasmus femmine, di cui trovate i gadgets e le magliette (QUI), sentono il dovere morale di fare bene e fino in fondo. Abbiamo già parlato di come siano i ragazzi e le ragazze in vacanza/viaggio: sono in libera uscita e non vedono l’ora di contravvenire alle raccomandazioni e ai divieti degli adulti di casa trasgredendoli alla grande con simultanea coerenza: alcol, convenzioni sociali, lussuria e tutto il vasto campionario di peccati da vecchio testamento. E se questi gironi infernali hanno anche una serata a loro dedicata in cui possono fiorire in ogni bar, pub e locale del centro chi siamo noi per imbracciare i forconi e farci strada nella notte con le torce e dei cappucci calati in testa? Nessuno.


Di cappucci però, ne sono attrezzati anche i nostri, ma hanno evitato di indossarli, per il momento, che non sta bene. Niente è lasciato al caso, nemmeno nella posizione del locale da cui passare la serata. La vita, in fondo, è tutta una questione di tattica e scelte. Su degli sgabelli e/o un piano rialzato, meglio se rivolti verso il bancone o l’ingresso, vicino alle toilette o al passaggio obbligato che gli tutti, prima o poi, dovranno percorrere per andarci. Gli sgabelli o i piani rialzati, se presenti nel posto, servono per avere una maggior visione di quello che accade: chi litiga con chi, chi si accompagna con chi, chi vorrebbe farlo con chi, chi sono i galli, chi sono i frequentatori assidui a cui strappare informazioni utili, chi sono i novizi, chi è ubriaca fino al midollo che se ride troppo si fa pipì addosso. Potete fare una cosa simile, negli intenti, anche quando andate a mangiare al ristorante (ovviamente se non siete fidanzati): scegliete il posto che più si confà a mostrarvi il locale, la porta d’ingresso, gli altri tavoli. È un po’ come andare a teatro. Certo, se ci andate da soli, il troppo fissare gli altri clienti mentre stanno mangiando può dare fastidio e, alla lunga, concentrare tutta l’attenzione su di voi. Se, invece, buttate un’occhiata ogni tanto mentre chiacchierate con un amico vedrete che le cose andranno più sciolte.

Ma che c’entra la toilette?

Non fa un po’ schifo passare la serata in rassegna a quelli e quelle che vanno a fare i propri bisogni e poi magari escono e toccano cose senza essersi nemmeno lavati le mani?

È una roba un po’ da sudicioni?

No, niente di tutto questo. È pura logica matematica e la spiegazione ve la lascio scoprire nel capitolo vero e proprio. Scommetto che non ci avete mai pensato. Mi ringrazierete.

Ma torniamo a noi, appena arrivano al Fantasy, il locale designato per la serata, Zanna dice agli altri di aver visto una ragazza che conosce e con cui in passato ha avuto un breve flirt (ovviamente, ormai conoscete il soggetto, Zanna non si esprime in questi termini appartenenti al gergo di qualcuno immerso nel qui e ora di questa realtà) e si allontana dal gruppo regalando una citazione cinematografica di un film da premio Oscar che, però, potrebbe facilmente passare inosservata. 


Tetteballerine, invece, mentre passa lascia la bava, come le lumache. Solo che non la produce lui ma, bello come un adone, fa sbavare tutta la fauna femminile presente a dieci metri da lui. Tetteballerine non è ispirato a me, io sono più come quel tizio che si incarica di prendere i drink per tutti e sta in fila un’ora e tre quarti perché vorrebbe rispettare l’ordine e si fa passare avanti da chiunque. Per questo sono Cecilia e Virginia le addette alle libagioni, non tanto perché piccole e filiformi in mezzo alla masnada maschile che si accalca, si sbraccia e si spintona, quanto più perché di fronte a due giovani pulzelle non contano più ordini d’arrivo, podi, orari sugli scontrini: ciò che importa è lasciarle passare per valutare la mercanzia e, eventualmente, riscattare il favore appena la gradazione alcolica dei loro drink abbia fatto il suo corso. Che facciamo schifo l’ho già detto? Beh, fatevene una ragione perché mi sentirete ripeterlo spesso.


Insomma, tra un partita senza partita a biliardo tra Tette’ e Spanky, un Zanna sconvolto perché la tipa da cui è andato non avesse la minima idea di chi fosse e una chiacchierata chiocciante tra Virginia e Cecilia nel gruppo si insinua un pericolo che avrebbero dovuto prevedere: Harry Belafonte. No, non il cantante in carne e ossa ma uno che per bellezza e magnetismo potesse rivaleggiare con chiunque e portare scompiglio: un gallo nel pollaio di Spanky Tette’ e Zanna deciso a spiumare Cecilia, Virginia o, chissà mai, entrambe. A fargli abbassare la cresta ci pensa subito l’acidità di Virginia ma è Spanky che interviene, cercando di limitare i danni all’autostima che un rifiuto così, di fronte a tutto il locale, può portare. Dice all’amico che Virginia sta con lui e che non è il caso di continuare. Anche se su fronti avversi, Spanky riconosce in Harry lo spirito di un vero Alsef e tenta di alleggerirgli l’umiliazione.

Il ragazzo si rimette le palle in saccoccia e si allontana, permettendo ai i nostri di riprendere la loro serata. 

“Tetteballerine fa ballare i pettorali tutte le volte che segna un punto” è qui che c’è, per la prima volta nel romanzo, la descrizione del perché Tetteballerine si chiami Tetteballerine. Non mi sono mai soffermato a descrivere i miei personaggi nel dettaglio. Non serve: il lettore ha la libertà, la capacità, il divertimento di riempire il romanzo con la propria fantasia, creandone una versione unica e tutta sua. Di Zanna sappiamo che ha i capelli rossi ed è gracile, di Cecilia che è amorevole e un po’ pacioccona, di Virginia che è acida che la metà basta e che è stressata dall’università nel suo primeggiare a tutti i costi, di Tette’ che è bellissimo ma che se non apre la bocca è meglio, di Enrico sappiamo solo che al liceo non era uno che veniva notato e che è un continuo pensare. Questo fino a oggi, almeno. Con “Ehi tu, porco!” Impariamo che Tetteballerine non è solo bello ma è anche così fisicato da poter esprimere le proprie emozioni facendo uso e sfoggio del controllo indipendente dei suoi muscoli pettorali. Non sapete quante volte mi sia trovato a dover spiegare che, in realtà, Tette’ non era affatto un ragazzo ciccione che correndo doveva tenersi il petto troppo abbondante. Questa incomprensione non mi ha mai infastidito anzi, mi dava modo di parlare del personaggio e del romanzo. Ah, tutti coloro che leggono il romanzo, dopo un po’ mi chiedono ridendo “Ma Tetteballerine…?”. Non mi domandano di Spanky, Zanna e nemmeno di Fangio. Mi chiedono tutti di raccontargli di Tetteballerine e quanto di vero ci sia in quello che ho scritto.

Non avrei mai pensato di dirlo, ma Tetteballerine è probabilmente il miglior personaggio che abbia inventato finora. E gli voglio molto bene. Come lui ne vuole a me, a voi e alle vostre madri.


Ma ritorniamo alla capitolo e a un finale che davvero non vi aspettereste. Harry Belafonte ci ripensa sul suo orgoglio ferito e ritorna con il cugino grosso e stupido: il rancore. Insulti e battutacce non sconvolgono i ragazzi che cercano di ignorare lui e la sua compagine di decorticati livorosi ma quando i bersagli diventano Cecilia e Virginia allora la musica cambia. Prima che Tette’ possa scatenare una rissa sanguinosa in stile Termopili, Spanky lo anticipa e invita tutti ad andare nel vicolo e mettersi d’accordo con i cazzotti. Prende una lattina di 7up vuota e replica la celebre frase di Kurt Russel in “1997: Fuga da Los Angeles”


Tette si esalta e cita “I Guerrieri della notte”


Zanna, come Will Smith in “Independence Day”, gli augura:





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giovedì 11 febbraio 2021

Dentro il libro e oltre: Uptown Zanna


Cominciamo dalla fine, questa volta: la parodia della scena dello shopping di Pretty Woman penso che l’abbiamo fatta in molti, scemi goliardici che non siamo altro, anche se non tutti abbiamo il coraggio di ammetterlo. Se guardate da questa parte mi vedrete con la mano alzata, con fierezza. Nel cinema, di parodie di quella scena con Julia Roberts ce ne sono a bizzeffe. Praticamente è quasi d’obbligo quando in sceneggiatura i protagonisti si trovano in un atelier o al centro commerciale (Vi dichiaro marito e marito, Crazy, Stupid Love per la versione al maschile, Mia moglie per finta, Highlander 2,Stranger Things, etc etc): ci si provano tonnellate di vestiti, di combinazioni improbabili solo per farsi dire di no dalla persona che ci accompagna e che se ne resta comoda su un divanetto davanti alle cabine per quelle che sono sei ore, nella più rosea delle ipotesi, con le commesse che a una certa vorrebbero pure chiudere e andarsene; no provati questo, gira su te stessa da brava, no che orrore, ma quanti ne ha ancora là dentro? Il parchimetro è ormai scaduto da un paio d'anni.


Per tutto questo immaginario che si porta dietro non potevo non scegliere “Oh, pretty woman” per la colonna sonora di questo capitolo. Perché se vai al centro commerciale a provarti dei vestiti è Roy Orbison l’eroe che devi chiamare.


Dopo aver quasi incontrato l’inquilina del piano di sopra, Enrico ne ha ora un’immagine più vivida grazie alla descrizione che gli ha fatto Sahid, il pakistano dell’alimentari sotto casa. Un personaggione da macchietta di cui mi diverte sempre leggere ad alta voce le battute, mentre le sto scrivendo, in quell’idioma inventato mezzo paki - mezzo italiano. Sahid è un personaggio che tornerà spesso in Chi più Re di noi, un po’ come il Ranjit di How I met your mother.


“Uptown Zanna” inizia con Spanky svegliato dall’inquilina del piano di sopra. Come la goccia che scava la roccia, così anche brevissime manifestazioni della sua presenza si fanno strada nei pensieri di Enrico che ora ha a disposizione più elementi per dipingerne un ritratto dai contorni definiti. Ma come se la immagina una ragazza della sua stessa età, universitaria come lui, in una città come Bologna? Riversandoci quelle caratteristiche che a lui piacciono, che lo farebbero interessare a lei, facendo in modo che il sogno rivesta senza difetti il suo stereotipo di ragazza perfetta. Guardando il soffitto se la immagina con quelle sue lunghe gambe affusolate seduta sul letto, intenta a leggere un libro, la chioma raccolta in uno chignon che ne lascia in vista il collo, sottile. Se non è autoerotismo onirico questo, ditemi voi cosa lo è. L’inquilina non se la figura, per esempio, come Cecilia o Virginia: nervosa per un esame, arrabbiata a morte con qualcuno, incasinata o fragile. L’inquilina è una ragazza idealizzata che sa benissimo quello che sta facendo, dove vuole arrivare. È serena e consapevole di se stessa, è misteriosa, però, e non si presenta alla porta di Enrico per farsi conoscere, ma sfugge, non si fa trovare. Enrico lo sa che c’è un motivo per quel comportamento e non si risponde che è stronza, ma che se fa così è perchè sta agendo nell'interesse e per la felicità di entrambi, per quando ovviamente coroneranno il loro amore stando insieme.

Enrico è un sognatore. Passa molto più tempo nei suoi pensieri a elucubrare immaginari ipotetici che a viverli.

Un roba da espianto di cornee


Enrico è così sveglio dalle 6:00 di mattina perché l’inquilina lo ha svegliato e, non potendo più dormire, si è alzato e ha preparato il caffè, stupendo Virginia e chiacchierando con Cecilia, a cui però ha evitato di parlare della ragazza di sopra.

Quando riemergono dal coma profondo anche Zanna e Tetteballerine, Spanky gli comunica che il giorno è arrivato. Tette’ si galvanizza, Zanna si dispera. La missione è quella di rendere meno alieno Zanna, cambiandogli il guardaroba (come esempio negativo di stile vengono citati i The Communards, anche perché Zanna potrebbe effettivamente assomigliare al cantante Jimmy Somerville) e il modo di comportarsi con il gentil sesso.  Non c'è bisogno di dire che a nulla valgono le suppliche, i due amici lo portano a fare spese.

E qui, finalmente, partono gli omaggi. Il primo è quello a Full Metal Jacket, di Stanley Kubrick. Per un certo periodo della mia vita scappavo da questo film perché la faccia di Vincent D’Onofrio, seduto sulla tazza del cesso, appena prima di infilarsi in bocca il fucile e farsi saltare la testa, mi ha perseguitato negli incubi per tutta l’infanzia. Il motivo per cui i miei miei mi permettevano di guardare con loro certi film non riuscirò mai a spiegarmelo. Qui, a fare le veci del Sergente istruttore Hartman, è Tetteballerine (soprannominato per assonanza “recordman”, in quanto detentore dei principali record prestazionali dell’Alsef). 


Ovviamente, tutto declinato in versione rimorchio, unico scopo e fine del tutto quantico maschile: accoppiarsi come animali in calore. Segue ilare momento Pretty Woman stile videoclip e secondo monologo importante di oggi, quello dell’agente Zeta alla giovane recluta Will Smith in Men in Black.

Anche se ho già usato il momento colonna sonora di oggi, voglio entrarvi a gamba tesa sui padiglioni auricolari e concedervi l’onore della Bonus Track. I meno distratti tra voi, avranno già afferrato la citazione contenuta nel titolo del capitolo, per tutti gli altri eccola qua: Uptown Girl by Billy Joel, pezzone anni 80, l’unico, purtroppo, per cui la massa ricorda il talento di Billy Joel nonostante sia dagli anni 70 (Songs in the Attic è il primo album suo che comprai) che influenza la cultura di massa. La sigla di “Sentieri” (This is the time) è la sua; è il cantante preferito dal personaggio interpretato da Zach Galifianakis nella trilogia di “Una notte da leoni. Vedi qui qui, e ancora qui (Downeaster Alexa, My life e Allentown). Per non parlare della stanza di Alan e della gigantografia dell'album "Glass Houses".

Glass Houses (1980)

Però lo ricordiamo per Uptwon Girl, a posto così, va bene.

Questa canzone l’ho incontrata diverse volte nella mia vita, e ha sempre avuto un impatto diverso. È il ricordo che leghiamo a qualcosa a renderla diversa. La prima volta la ascoltai nelle cuffie di un walkman, avevo dodici anni e mi trovavo nel sud dell’Inghilterra, nell’estate del mio primo viaggio fuori dai confini nazionali. Un viaggio che mi ha cambiato la vita per sempre anche se, lo so, a quell’età, tutto è in grado di farlo perché, della vita, non hai sbirciato ancora che dallo spiraglio della porta.

La seconda, invece, risale a quando un pc collegato a internet è entrato in casa nostra e io ho potuto finalmente dare uno sguardo ai videoclip di quelle canzoni (pochissime rispetto ad oggi) che ascoltavo e riascoltavo incessantemente, stufandomene soltanto alla cinquecentesima ripetizione, forse. Ammetto che quel video fosse piuttosto kitch e che Billy Joel non era bellissimo da vedere nemmeno da giovane, né alto ma riuscì a colpirmi l’autoironia che infarciva il tutto, in cui un meccanico unto di grasso, diversamente alto e che oggi verrebbe denunciato per molestie sessuali, si prodiga con i compagni di officina , non meno arrapati di lui, in fischi, apprezzamenti e corteggiamenti non richiesti nei confronti della cliente top model alta un metro e “non te la presterei nemmeno se fosse di un’altra”. Ironia su ironia dei malpensanti, quella modella, Billy Joel, alla fine l’ha sposata davvero. E ci si è poi anche divorziato, ma restiamo concentrati. 

Uptown Girl, cioè ragazza di Uptown, intesa come quella parte ricca della città in cui la gente, per andare in bagno la mattina, deve farsi largo tra i propri quattrini, diventa Uptown Zanna perché l’amico impari a darsi un tono, a credersi e agire come se fosse importante. A tirarsela nel senso buono del termine, cioè facendo capire agli altri, a chi lo guarda, che è consapevole di essere qualcuno, di aver un'importanza e un valore, che farebbero bene a capire, prima di giudicarlo male.

L’ho compreso solo con l’avvento delle playlist infinite di Spotify e di programmi similari, quanto eravamo eroici da piccoli, a riascoltare in continuazione 80 minuti di cassetta o sempre gli stessi 10-12 brani nel lettore cd, o quanto lo erano i nostri padri e i nostri nonni che di tracce, sui dischi, ne avevano ancora meno. E lo facevamo senza averne a noia. Ho provato, recentemente, a mettere un CD in macchina. Esperienza orribile. Noi e la nostra sindrome dello Skippo in avanti.





Per finire, non dimenticarti che il romanzo su Max Payne esiste e lo puoi leggere senza spendere un euro che è uno!



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lunedì 8 febbraio 2021

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giovedì 4 febbraio 2021

Dentro il libro e oltre: Internet a 33k


Internet a 33k, come vedrete, non è un capitolo particolarmente lungo ma è da leggere con attenzione perché, vi assicuro, è FONDANTE.

Molte delle cose che ci troverete ve le porterete fino alla fine del romanzo.

Se avete letto la postfazione all’edizione 2020 di Chi più Re di noi allora sapete che una delle fonti d’ispirazione per questo libro l’ho avuto grazie al blog ICoinquilini, fondato nel lontano 2008 e chiuso pochi anni più tardi. È stato l’antesignano di quelle pagine che hanno poi spopolato su Facebook come Il Coinquilino di Merda, Roba da coinquilini e Il coinquilino geniale.

Storie di vita universitaria vissuta e di coinquilini. Voglio confessarvi che oggi, prima della stesura di questo pezzo, ho provato a contattare gli amministratori del blog attraverso l’indirizzo di posta che lasciarono allora. Non so se quella casella viene ogni tanto controllata (ne dubito), ma nel caso succedesse il miracolo, ringrazierò di cuore per esserci stati e aver dato un senso a una piccola parte della mia vita che in qualche, strana maniera, mi ha definito come persona e come scrittore.



Prima di iniziare a scrivere Chi più Re di noi, proprio come un infante che deve muovere i suoi primi, incerti passi nel soggiorno di casa, avevo bisogno di un girello e diversi aiuti per muovermi verso mamma e papà. Queste routine le prendevo dalla conversazioni che ascoltavo in giro, dalle serata con i miei amici e da quello che leggevo per “documentarmi”, per entrare di più nel mood che volevo raccontare. Per questo, nei primi capitoli, poi sempre meno frequentemente, ho usato espressioni e situazioni lette nel blog che mi avevano fatto ridere, che mi avevano acceso in testa una scena che poteva funzionare, che mi avevano dato lo spunto per creare qualcosa di mio.

Prima di inoltrarci nella disamina del capitolo settimanale, “Internet a 33k” vorrei trascrivere, come testimonianza per i posteri e per coloro che non sono stati così fortunati da incappare ne ICoinquilini negli anni in cui era attivo e presente nell’internet, il pezzo originale da cui ho tratto il titolo del capitolo.


Storia 23 (legata a storia 17): La giusta misura


Del periodo in cui eravamo in tre in trenta metri quadrati i divertimenti erano pochi. Le televisione c’era ma funzionava solo con il videoregistratore. Per un periodo ci siamo guardati un po’ di film in cassetta, ma senza colore. Poi, un giorno, anche senza audio.

La cosa più divertente era quando, verso ora di pranzo, mettevamo l’acqua sul gas per la pasta. Io e Massimo avevamo comprato le palline rimbalzine alla macchinetta del supermercato. Le lanciavamo con volenza per terra e poi dove colpivano colpivano. Una volta una pallina fece una mora nel braccio a Ghino, un’altra rovesciò la pentola con l’acqua che bolliva rischiando di ustionarci tutti.

E noi giù a ridere come pazzi. Cosa vuoi, ancora internet andava a 33k.


Ed era così anche per noi, che abitavamo in via Saffi. Non avevamo internet in appartamento (vivevo in una tripla per risparmiare figurarsi se potevo indebitarmi per avere la linea in casa) ma uno dei ragazzi con cui abitavo, ingegnere elettronico, mi sembra di ricordare, in qualche occasione provò a hackerare e inserirsi nella banda internet del vicino, con zero successo. Per controllare le mail e fare qualche navigata su internet, parlare con i gli amici lontani su MSN (siamo ancora nell’era pre-facebook, capiamoci) si andava in dipartimento e davanti a quei due computer, scrausi e macinati per il troppo uso, in fondo al corridoio del piano terra del 38 di via Zamboni. Il problema è che non avevi privacy mentre ti facevi gli affari tuoi perché dietro la tua schiena avevi sempre qualcuno che aspettava il suo turno e poteva benissimo sbirciare lo schermo da sopra la tua spalla durante l’attesa. Se mi ricordo bene, ogni sessione, poteva durare al massimo 30 minuti, poi ti dovevi ricollegare (se non c’era nessuno a farti la posta) o cedere a quello dopo. Ah, per giunta, cosa mai capita, uno dei due pc aveva la sedia, mentre se ti capitava libero l’altro dovevi stare in piedi tutto il tempo. Uno schifo vero. Ma non avevamo così bisogno di internet, io avevo un Nokia 3330 che non mandava nemmeno gli mms e dopo un po’ dovevo decidere quali messaggi cancellare per fare spazio.

Ma ora torniamo a noi lasciando la malinconia per i momenti di nostalgia depressa.

Internet a 33k si apre un po’ come quel post, solo che per Zanna, Enrico e Tette’ creo un gioco da salotto chiamato Lloydball (è un diminutivo, il vero nome è molto più lungo, complicato e politicamente scorretto) che in pratica è una versione del Baseball in cui al posto della palla c’è un saracchio (uno sputo, NDR), al posto della mazza c’è un mestolo (solo Zanna fa l’infelice scelta di usare una ramina, che quando intercetta la palla di saliva, questa si nebulizza e gli arriva a inzaccherare la faccia) e al posto dell’eliminazione decretata dall’arbitro c’è una scoreggia acida sfiatata in pieno muso.


Mentre i decorticati sono impegnati a scambiarsi deiezioni e fluidi corporali Virginia entra in appartamento con uno sbattere di porta poderoso. Ed ecco che, dopo un omaggio a Xena la principessa guerriera con i suoi completini di pelle, comincia una sfilza di citazioni alte di cui vado molto fiero. Virginia passa davanti ai ragazzi, che si chiedono ancora cosa stia succedendo e va a prepararsi il caffè, incazzata come un bufalo e resa muta dalla collera. Enrico, Tette’ e Zanna sanno di dover fare qualcosa ma sono pietrificati da Virginia. Fino a che qualcuno non propone di andarci a parlare e un altro non dirà che sa lui cosa fare, che ha un piano. Se la cosa non vi ha ancora fatto scattare nulla vi dico che ho ricostruito una delle scene più belle e iconiche di Ghostbusters del 1984, quella del primo confronto tra Ray, Peter e Egon con un fantasma, senza strumentazione e zaini protonici. Ora andate a godervela e poi tornate qua.


Dopodiché Zanna racconta un aneddoto sullo zio, Vladimiro Zannetti. Quello che, morendo, ha lasciato libero l’appartamento di sopra, in cui è andata a vivere la misteriosa inquilina. In vita, lo zio di Zanna era un vero rompicoglioni. Un solitario che non sopportava il prossimo e vessava i nostri, con scontri epici con il mai domo Tetteballerine, che non aveva remore reverenziali nei confronti di un anziano. In ogni caso è un aneddoto che qualcuno mi raccontò durante una delle mie stagioni alla Cantina Sociale di Forlì e ha a che fare con un ragazzo camerunense particolarmente prestante e una battuta smaccatamente razzista, anche se detta senza l’intento di offendere o denigrare ma solo di richiamare un umorismo di provincia, di campagna, circoscritto in un canone stilistico difficilmente esportabile.

Virginia è ormai tornata nella sua stanza quando iniziano a sentirsi forti rumori in tutta casa. Subito i ragazzi danno la colpa alla compagna d’appartamento ma presto capiscono che non è lei a causare quei tonfi e quel baccano. Vengono dal piano superiore. Dall’appartamento gemello al terzo piano, quello in cui abita l’inquilina misteriosa che Enrico sta inseguendo ormai da settimane.

È la prima volta che gli altri la sentono e Enrico può finalmente scrollarsi di dosso la sensazione di essere considerato totalmente sciroccato dagli altri. Tetteballerine è quello che, ovviamente, ha la reazione più esagerata di tutti: urla esattamente quello che urla un arrapato Kevin Bacon in Tremors quando scorge in lontananza la figura della ricercatrice (interpretata da Finn Carter, e love interest del film). 


Appena una battuta per ricordare Ace Ventura l’acchiappanimali e si ritorna a Tremors, quando Zanna, Terrorizzato da quel frastuono increscendo, chiede a tutti di non muoversi, che l’essere li può sentire attraverso le vibrazioni provenienti dal  “soprasuolo” (dato che usare il termine soffitto sembrava troppo banale). Tette’ e Enrico gli danno corda mentre Virginia no, è uscita dopo aver spezzato le illusioni di Enrico sull’aspetto dell’inquilina. Purtroppo, però, è proprio in quel momento che il vecchio frigorifero decide di imbizzarrirsi come un cavallo e saltellare per la cucina. Zanna ci si avventa sopra tentando di ammutolirlo ma il Graboid che sta scavando sotto la superficie della loro suggestioni li ha sentiti e sbatte di nuovo, con più forza, una porta. 


Enrico però quel suono lo riconosce e si proietta fuori dall’appartamento. Se era il portone del condominio vuol dire che l’inquilina è appena scesa. Quale momento migliore per seguirla e, finalmente, incontrarla? Però il destino beffardo ci metterà lo zampino e riempirà la strada della consueta, affollata, giornata di mercato. L’unica cosa che resta da fare al nostro Spanky è quella di rivolgersi al Pakistano dell’alimentari sotto il condominio per chiedergli se ha visto qualcuno uscire dal portone prima di lui. Quella che sentirà, in quell’italiano abbozzato al curry, sarà la prima descrizione dell’inquilina del terzo piano.

Bella, alta e russa.

Tenetevi stretti questi indizi fino alla fine del romanzo. Ne arriveranno altri.


La canzone del capitolo: New York groove by Kiss

Voi immaginateveli quei tre a giocare a questa versione infettiva del baseball per casa, correndo attorno a un tavolo, saltando sul divano, facendo slalom tra le sedie e praticamente mettendo a repentaglio la loro incolumità e la resistenza strutturale dell’edificio stesso, in quella assolato pomeriggio di fine estate/vacanze. Guardatevi gli schizzi di saliva nebulizzata al rallentatore descrivere meravigliosi archi in aria, prima di impattare umiliante addosso a qualcuno. Non è proprio una canonica scena di training da film sportivo, ma ha la stessa forza galvanizzante.





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lunedì 1 febbraio 2021

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