Alessio Chiadini Beuri: 2020

giovedì 31 dicembre 2020

Dentro il libro e oltre: Il Guru dell'Ammore




 Veniamo a noi, alle cose serie. Come preannunciato nelle puntate precedenti, c’è un altro personaggio fondamentale nel mondo di Chi più Re di noi e lo è diventato, non era previsto: il Fangio. All’apparenza sembrerebbe molto simile, come attitudine al mondo femminile, a Tetteballerine e quindi ridondante ma, a differenza del biondo colosso, Fangio non è dotato per nascita di un aspetto fisico piacente né di un’altezza imponente. Viene detto subito: Fangio è fastidioso da guardare, per quanto è brutto. Per questo, dove a uno viene tutto facile finché non apre la bocca e straparla, il secondo deve bucare quella bolla di resistenza con la parlantina e una certa faccia come il culo (in questo caso la terminologia ne indica la sfacciataggine dell’approccio piuttosto che la deficienza estetica). Come tutti i personaggi di Chi più Re di noi lo vedrete crescere nel corso del romanzo e ogni volta sarà per voi una sorpresa. Ma non facciamo prendere dalla foga e andiamo con ordine.


È durante un giorno di autogestione che i nostri ragazzi (Enrico, Tette’ e Zanna) fanno la sua conoscenza. Si trovano tutti dentro l’aula magna del dipartimento al 38 di via Zamboni, L’aula III o la V, ha poca importanza e, mentre la rappresentante degli studenti spiega i motivi della protesta, Fangio entra nell’inquadratura, di terga. È appollaiato su un banco, intento a importunare (pasturare) una delle tante studentesse che annualmente si iscrivono a Lettere e Filosofia e congestionano i corridoi e i cuori di altrettanti studenti. È un punkettone vestito di nero, smilzo ma con l’addome da bevitore, capelli lunghi e unti e un pantalone a vita bassa che mostra a tutti il pelo che spunta dall’addome e dal culo pallido. Se volete dare un volto a questo soggetto, scrivendo il seguito di Chi più Re di noi (Noi, Re di vivi) me lo sono raffigurato come un giovane Frank Zappa, noto soprattutto per il suo scarso igiene personale e non certo portatore di un canone di bellezza greco.


Il primo vero contatto tra Enrico e Fangio avviene nei bagni d’istituto, finita l’assemblea. Lo annuncio senza vergogna, ho copiato pari pari l’incontro tra Ted e Barney di How I met your mother, compresa la battuta “Ti insegnerò a vivere!”. Non me ne vergogno: avevo bisogno di un gancio che mi desse fiducia e ho pescato da quello che mi era più familiare. Come la prima vittima di molti serial killer, per altro. Ricordatevi sempre che non avevo mai scritto niente di simile a questo genere prima.


Non ho mai spiegato perché Fangio punta proprio Enrico, in quei bagni, e perché si attacca a lui e alla sua vita come una cozza. Probabilmente ha notato questi tre animali ingrifati, in mezzo a una stanza gremita di studentesse grondanti desiderio di ribellione (che fosse verso le istituzioni, i genitori o il senso di pudore a Fangio non importa: è l’attitudine che conta), non provare neanche mezzo approccio e ha visto la necessità di dare una mano.

È lui, tra l’altro, ad affibbiare a Enrico il soprannome di Spanky. Scelsi di chiamare così il mio principale alter-ego letterario perché così si chiamava il protagonista, il capobanda, di “Simpatiche canaglie” il programma televisivo del 1922 che vedeva dei ragazzini piccoli combinarne di ogni (il mio episodio preferito è quello in cui si costruiscono da soli una macchina a pedali con materiali di scarto, assi di legno, vecchi copertoni e chewing gum). La particolarità di questo gruppo di bambini scavezzacollo è che che era costituito solo da maschi. Quando compaiono le ragazze, spesso civettuole e viziate, si rompono le amicizie e ci si spacca il culo a vicenda. Femmine, tsk!

Per questo motivo Spanky non ammette che ci siano bambine all’interno della compagnia. Non le vuole. Puzzano.

Per un motivo analogo Enrico sarà Spanky, perché nella sua spasmodica ricerca della ragazza dei suoi sogni combatte con se stesso, con le proprie emozioni e con il sesso femminile, quando lo illude e delude le sue aspettative, allontanando il sogno di essere finalmente felice. Per Spanky, quindi, le donne che lo illudono e poi lo abbandonano, che trattano i suoi sentimenti con leggerezza, che smontano sistematicamente, la speranza di trovare la sua metà identica e fondersi con lei, possono starsene fuori dalla sua vita.

Fangio li porta in un bar in mezzo a un incrocio pericolosissimo e attacca una litania di verità che non interrompe nemmeno quando i testicoli dei nostri si svitano e rotolano via. Vi lascio godere da soli delle perle di vita che ha sciorinato nella sua prima, storica, lezione.

Del Fangio hanno un crocifisso posticcio appeso in bagno. Il perché è presto detto: ricordate la famosa Tombola di Natale indetta dai compagni di liceo e che ha raggiunto ormai la ventesima edizione? Ebbene, proprio durante lo svolgimento di una di quelle, qualcuno vinse un crocifisso e qualcun altro la figurina Panini di Luca Marchegiani, storico portiere di Lazio, Torino e Chievo. Ciò che successe dopo fu una blasfema conseguenza: coprire il volto del Cristo sofferente con quella di colui che da quel momento in poi divenne il messia di una nuova religione, il Marchegianesimo. Il nostro Natale divenne il 22 febbraio e quell’idolo di cartone, ma splendente nei nostri cuori, restò appeso in classe per i successivi cinque anni, per buona pace dei compagni di Comunione e Liberazione che non la presero bene, e di quella del prete che resistette alla tentazione di farci un esorcismo.

Ad essere proprio sincero con voi, non ho memoria della creazione del crocifisso di Marchegiani quindi temo che non fossi fisicamente presente a quella tombola (non era strano visto che, all’inizio del liceo, ero piuttosto restio a dare corda ai miei compagni di classe e alle loro stranezze) ma, in compenso, nessuno si scordò più di farmi gli auguri di compleanno visto che condividevo lo stesso giorno di nascita con “Nostro signore, che esiste e sta’ tra i pali”. Certo, prima gli auguri si facevano a Marchegiani e solo in un secondo momento, a me, con scarso entusiasmo.


La colonna sonora: Hold on by Green Day

Ho scelto questa canzone perché “Il guru dell’ammore” ha tutte le caratteristiche di un capitolo di ribellione giovanile, a partire dall’autogestione in università e dallo stesso modo di affrontarla che hanno Spanky & Co. È una canzone che mi scatena memorie ancora più antiche di quelle dei miei anni universitari. Qua affondiamo nella melma preistorica dei ricordi liceali, seconda superiore, al massimo. Fu all’incirca in quel periodo che scoprì il punk rock (fu come un amore estivo: iniziai dai Blink 182 e nel giro di due mesi chiusi il capitolo coi Green Day, anche se all’epoca era tutto un fiorire di band commerciali che suonavano punk e che magari sparivano dopo due sole hit) e il momento non poteva che essere quello più giusto, quando usciamo dal bozzolo dell’infanzia e ci troviamo dentro un corpo con cui dobbiamo prendere confidenza e gestire un animo inquieto che sembra trovare ogni pretesto per metterci nei guai. Ai brani contenuti nell’album Warning ho fissato molti ricordi ma Hold On è quello che ancora oggi ascolto non per rivivere sensazioni del passato ma per affrontare il presente. C’è un film che scoprì lo stesso anno in cui iniziai a far girare a ripetizione il nastro dei Green Day nel walkman, e si tratta di Stand By Me di Rob Reiner, tratto dal racconto “The Body” di Stephen King. Apparentemente Green Day e Stand by me sembrano non avere niente a che fare tra loro ma è qui che la mente umana tesse i suoi legami misteriosi. Stand by me è un film che parla di bambini che affrontano il passaggio all’età adulta, disubbidendo ai padri che non li comprendono e al mondo che li ha già etichettati senza lasciar loro la speranza di essere chi vorrebbero. Lo fanno restando insieme, facendo squadra, legandosi in un’amicizia che ricorderanno per sempre.

Quando ascolto Hold On, io sento le loro scarpe da ginnastica sporche correre lungo le rotaie per sfuggire alla locomotiva, ascolto gli sfottò amorevoli che i quattro amici si lanciano per farsi coraggio e sentirsi più grandi, avverto il pugno allo stomaco dell’avventura che stanno vivendo esattamente come ho fatto io decine e decine di volte in altrettante afose estati.



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venerdì 25 dicembre 2020

Dentro il libro e oltre: Ombre di città

 


“[...]dall’appartamento alla mia facoltà c’è un po’ da camminare..” 

Circa 25 minuti da via Zamboni, Dipartimento di Storia e filosofia, a porta Saffi. Benché fossi in possesso di una mountain bike color verde radioattivo che lanciata poteva tranquillamente toccare i 50 chilometri orari, in quell’inverno del 2008, io inforcavo il mio eskimo verde ribellione e andavo, qualsiasi tempo facesse. 

Era bellissimo, poetico. Respiravo la città, mi riempivo di lei e fantasticavo dentro il mio involucro fatto di musica. Stavo nel mondo vivendo il mio mondo interiore. 

Tutte le mattine, dal lunedì al venerdì, uscivo di casa molto presto e, anche se lezione cominciava solo alle 9:00, alle 8:00 ero già in fila per prendere una postazione tesi a palazzo Paleotti, che aveva la seduta più comoda e più spazio tra uno studente e l’altro. Non lavoravo alla tesi, che avrei cominciato solo l’autunno successivo, ma scrivevo. Avevo messo a punto la mia routine di scrittura due anni prima. Mi ero imposto di scrivere, non importa come, almeno un’ora la mattina prima di andare a lavorare, un’ora durante la pausa pranzo e un’ora la sera dopo essere tornato a casa. Tutti i giorni, senza stacco.

In fondo scrivere non è un lavoro, per me, ma una distrazione dalla realtà, un parco giochi in cui dimenticare tutto per un po’ e lasciarsi trasportare (anche se di fatto lo scrittore ha le mani sul volante) in un altro mondo. Appena avevo un momento che me lo potesse permettere andavo al Paleotti e ricominciavo a scrivere. All’epoca lavoravo su un progetto davvero ambizioso: scrivere un romanzo che potesse competere con I Tre moschettieri di Dumas, prendendo a presto la musicalità dei versi del Cyrano De Bergerac di Rostand. È ancora tutto in piedi, anche se per il momento fermo. Per scrivere quel romanzo serve una totale immersione linguistica che finisce per coinvolgere il mio parlato quotidiano facendomi suonare come un viaggiatore del tempo approdato in un’era che non è la sua. Quando ero in quel mood pensavo e parlavo (anche limitandomi e facendo attenzione suonavo comunque un po’ strano rispetto a coloro che mi erano attorno) come un moschettiere e vedete, anche adesso, ricordando quel periodo, un po’ di teatralità è incapace di restarsene buona. Ero sempre l’ultimo a uscire dall'aula studio e i miei compagni di appartamento mi chiedevano perché rientrassi tutti i giorni alle 21.00 quando le lezioni terminavano alle 19.00. Io sorridevo mentre mi guardavano stralunati, perché lungo il tragitto di ritorno lasciavo l’eskimo aperto a svolazzare come un mantello. Era bellissimo, ragazzi. Quelle passeggiate nella Bologna di sera, con il freddo pungente a morderti le guance, sognando un sogno e sentendosi impavido e guascone è uno dei ricordi più cari del mio periodo bolognese.



La storia di come l’ho attraversata tutta, da periferia a periferia, da una porta all’altra, il giorno del mio compleanno (Febbraio, eh!) con addosso soltanto una camicia di cotone, una giacca di pelle che poco copriva (ma era figa perché era come essere l’ispettore Coliandro o Serpico), un paio di scarpe eleganti, anche loro di pelle è la storia di un due di picche. Uno dei tanti della mia vita. 


Avevo un appuntamento con questa ragazza di Bologna, a cui avevo raccontato la balla di essere anch’io di Bologna (credendo stupidamente che, al contrario, non mi avrebbe dato mezza possibilità per via dell’eventuale distanza), che sgamò dopo mezzo secondo ma che non mi fece pesare troppo. Dovevamo vederci in questo locale fuori dalle mura, una discoteca che in prima serata aveva in cartellone uno spettacolo di Giacobazzi. Non festeggiai il compleanno a Forlì con la mia famiglia e con i miei amici (non fu l’unica volta in cui sacrificai gli affetti per inseguire qualcuno - è sempre la storia di colui che antepone i sogni a ciò che ha già), ma salì sull’autobus giallo della Tper che mi scaricò a qualche centinaio di metri dal locale. Non mi portai altro che quello che avevo addosso, non volevo essere impacciato con una giacca o con altre cose a cui avrei dovuto badare per tutta la serata: dovevo essere concentrato sull’obiettivo, senza distrazioni. Era fondamentale per avere successo. 

Lei arrivò quando già la sala era stipata e non vedemmo insieme il siparietto comico ma ero certo che, una volta riunitici per il ballo (minchia, sembra di essere finiti in una scena di Footloose) avrei potuto rifarmi su quel contrattempo. Ma sbagliavo ancora. Non avevo considerato che la ragazza aveva un ingombrante strascico di una lunga storia finita da poco. Non me n’ero preoccupato perché, beh, comunque ci sentivamo e mi aveva invitato lei. Per. Il. Mio. Compleanno.

Ripeto: PER IL MIO COMPLEANNO. 

È normale che uno i buoni pensieri se li fa, no? 

No. Bisogna purtroppo fare sempre i conti sul fatto che uomini e donne sono complicati e sconosciuti a loro stessi. Per certe cose non si può confidare in nessuno. Il cuore ha una mente tutta sua. Ma questo lo capì bene solo qualche giorno più tardi, quando passai quasi tutta una giornata fra trenini locali e autobus per prendere un caffè con lei, il giorno prima di sostenere un esame molto difficile (letteratura romanza). Ottenni un 30, ma non ebbi lo stesso successo con la ragazza.

Comunque, alla fine lo spettacolo di Giacobazzi fu bellissimo, risi come un matto.


La canzone: Sinnerman by Nina Simone (1965) l'ho conosciuta grazie a Scrubs. Era la canzone che chiudeva la puntata natalizia della prima stagione. Ho quest’immagine nitida di Turk che, la notte di Natale, si precipita fuori dal Sacro Cuore per correre da una paziente che è scappata dall’ospedale ma che sta per partorire. La troverà sotto il grande albero di Natale della città. Mi è venuta subito in mente questa canzone per la colonna sonora di questo capitolo proprio perché avevo scolpito in testa la scena di Spanky/me stesso che camminava senza meta in una Bologna notturna, fatta di luci calde, sferzate di vento gelido e tanta strada da fare. I propri peccati nessuno li grida al mondo, se li tiene ben stretti, un fardello pesante da portare e scomodo da indossare che però ci teniamo addosso, troppo difficile da togliere, troppo rischioso da lasciare in giro. Sinnerman è una canzone da colonna sonora intimistica perché non va ascoltata a tutto volume dalle casse dello stereo ma con gli auricolari. Come i segreti inconfessabili e i peccati di ciascuno di noi: si raccontano all’orecchio. 




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venerdì 18 dicembre 2020

Dentro il libro e oltre, speciale Natale: un Natale da Guasconi

 



Come ogni serie Tv che si rispetti (e Chi più Re di Noi non è da meno, anche se il mezzo non è lo stesso) c’è una puntata speciale a tema Natale. Seguirà quella di Capodanno e il classico viaggio che impegnerà tre episodi invece che il solito canonico (nelle sitcom ho sempre odiato le puntate spezzate ma la liturgia è la liturgia e va rispettata).

In “Un Natale da Guasconi” siamo più avanti con la storia rispetto a dove eravamo rimasti la settimana scorsa e la falange maschile (questa espressione farebbe "ghignare" Tetteballerine fino alla morte perchè lui sa bene come usare le sue falangi) si è allargata (ok, devo imparare meglio a scegliere i termini): insieme a Enrico, Tette’ e Zanna ci sono Fangio (da non perdere la puntata in cui fa il suo ingresso) e alcune matricole che i nostri hanno raccolto dal mezzo di una strada già scritta di depressione, occhi pesti, nottate solitarie e fazzoletti umidi (non di pioggia né di lacrime).


L’episodio inizia con una festa, un invito non scritto e tanta neve. L’invito non scritto è perché tutti insieme si sono imbucati a una festa in casa della sorella di una delle matricole. Tetteballerine ha dichiarato subito il “Mia!” quando ha saputo che si trattava di una ragazza. Non ha chiesto come fosse, a lui queste cose non interessano, in fondo: quello che conta è il punteggio.

Per quanto mi riguarda, non mi sono mai imbucato ad una festa di Natale, ma a un compleanno sì. Ero nel mio periodo “Yesman” (dire di sì alla vita funziona, credetemi!) e mi sono divertito un sacco. Non conoscevo nessuno degli astanti e pochissimo la festeggiata ma grazie a quel matto del mio amico Ciccio (che della ragazza, invece, era amico) sono andato anche io. Insieme le abbiamo regalato un oggetto stimolante a batterie (la ragazza era single e non ho dovuto fare a botte con nessuno moroso incazzato per il goliardico presente) e ho intrapreso la piacevole conoscenza di una ragazza, a cui sedevo accanto. Ho fatto vere e proprie magie con lei, ma questa è un’altra storia che vi racconterò più avanti, ora non siete pronti.

Il motto per la serata sfoggiato da Tette’, e valido per ogni evento in cui capita di imbucarsi (certo, come se fosse del tutto involontario!) è stato: “Arrivare là dove gli altri non ci vogliono”, ed è ovviamente declamato con fiero orgoglio. Se l’Alsef avesse uno stemma, di quelli cuciti sulle tute delle missioni NASA e che al momento opportuno si strappano per lasciarli all’unico astronauta che si salverà e tornerà sulla terra, certamente sarebbe questa la frase da tradurre in latino da riportare sul bordo. E non è detto che non ci sarà, un giorno. Il marketing è importante per qualsiasi attività.


Comunque, Testabietta (che ovviamente è il soprannome affibbiato alla matricola che ci ha messo la casa, e l’acidissima sorella, se Tette’ riuscirà nella sua impresa) ha vinto, come segno del suo valore e della stima riconosciutagli dai fondatori della confraternita (Spanky, Zanna, Tetteballerine e Fangio) un anello vibrante scaduto.

Vedo i vostri occhi solcati da due grandi interrogativi:

Perché proprio un anello vibrante per peni?

Perché comprarlo e farlo scadere? Cioè, si compra per farne scorta, per un’eventuale uso futuro. Si fa magazzino? E in casa dove lo metti, poi, nel mobile dei medicinali sopra al lavello in bagno, nel cassetto dove tieni i cavi per ricaricare lo smartphone e i gommini per gli auricolari che non ti serviranno mai perché non hai le orecchie così grandi?

Beh, signori e signore, ragazze e ragazzi, bambine e bambini, voi non conoscete la Leggenda della Tombola di Natale dei Tangengamma. Durante questo antico rito, che si svolge in una data imprecisata con il favore delle tenebre, alla fine dell’ultimo mese di ogni anno, in un luogo sempre diverso e comunicato solo all’ultimo momento, i partecipanti non ricevono doni canonici, banali e scontati ma santissimi, immondi Graal. Delle reliquie di schifo vario dall'improbabile provenienza. Manufatti portatori di pestilenze ignote al mondo. Beh, penso di aver reso l’idea. Per questo un anello vibrante non è un regalo così strambo da ricevere a questa tombola, anzi, potrebbe essere al massimo una cinquina tirata per i capelli.

I Tangengamma sono gli stessi compagni del liceo di cui vi ho già narrato e che non mancheranno di tornare ancora.


Ad ogni festa c’è sempre una compilation di classici da ballare che, in momenti normali della vita di ognuno, nessuno si mette mai ad ascoltare di sua sponte (vi siete mai trovati nella solitudine della vostra cameretta con Gioca-Jouer sparato nelle orecchie, per esempio?). Il responsabile di questa decisione scellerata non si trova mai, né si scopre mai l’identità di colui che preme il tasto play sul Windows Media Player. La compilation si manifesta, semplicemente, un attimo dopo che il livello di ubriachezza è passato da “timido” a “curioso”. Serve a far cadere le ultime resistenze di vergogna e lasciare campo libero al centravanti di fronte al portiere dell F.C. Atletico Comfort Zone.

È durante il momento Dirty Dancing che, come per magia, ho trovato lo spunto per una delle mie battute preferite di sempre. Lascio che la scopriate da soli, per non rovinarvi pathos e risata. Posso solo dirvi che ha a che fare con Patrick Swayze, il film Ghost e Whoopi Goldberg.

Oltre a Dirty Dancing, sono tanti i film omaggiati con una citazione, da Risky Business, film del 1983 con un giovanissimo Tom Cruise, a Ritorno al futuro (quando Zanna rivela a Spanky una notizia sconvolgente che lo riguarda e che cambierà il corso degli eventi); e ancora dal film I Guerrieri della notte del 1979 a Corda tesa quando si parla di fare a qualcuna un “pigiamino di saliva". Ricordo che quella fu una battuta che la prima volta mi fece ridere tantissimo perché non me l’aspettavo da un tipo come Clint Eastwood, che avevo sempre guardato come un duro di poche parole ma dalla risposta pronta, come un padre severo e riservato su certe questioni. Anche pudico se vogliamo. È quella convinzione che abbiamo molti, fino a un certo punto della maturazione in esseri complessi, per cui le persone più grandi e più vicine a noi, quali genitori, zii e nonni, non sappiano cosa sia il sesso, o se ne tengano lontani, non ne pratichino ora e non lo abbiano mai praticato in passato dato che non ne parlano quando siamo presenti o ci rimproverano quando siamo noi a farci battute o parlarne con leggerezza. “Vorrei provarle a fare un pigiamino di saliva” è comunque una frase che ho usato poi altre volte nella mia vita perché mi aiutava sia a smorzare la tensione e rompere il ghiaccio introducendo un desiderio, anche se celato da risate imbarazzate. Ovviamente il contesto è importante: mai usata durante un colloquio di lavoro, alla cena di Natale in famiglia o al casello dell’autostrada, se ve lo steste chiedendo. E il modo in cui la si pronuncia pure, è fondamentale: se sembrate Anthony Hopkins che riceve Jodie Foster durante il loro primo incontro ne “Il silenzio degli innocenti” (in piedi in mezzo alla cella che l’aspetta, gli occhi sgranati, il sorriso tirato di un serpente) probabilmente la poverina temerà che la tramortiate a sorpresa, la carichiate nel baule della vostra macchina e che farete ritrovare il suo cadavere sulla sponda di un fiume.


Per finire con le citazioni cinematografiche e passare alle cose serie, scopriamo qui che Tetteballerine parteciperà all’Adunanza, termine mutuato dal film Highlander: l’ultimo immortale ma qui usato per raccontare che il nostro si riunirà, un giorno, a esseri come lui che, da furbi, sono avvezzi ad avere più storie contemporaneamente grazie al propinamento di un cospicuo ventaglio di balle a ciascuna delle malcapitate che si offrono loro nel desiderio di un amore sincero.

Ma veniamo al motivo per cui questo capitolo si chiama “Un Natale da Guasconi”, che ancora non si è capito. Durante l’odiato, e al contempo amato segretamente, Gioca-Jouer, una delle matricole spara un pugno in faccia a Spanky (Superman! PAM!) facendogli pisciare il naso di sangue. È in questo momento che comincia l’omaggio. Fuori nevica copiosamente, Spanky cerca del ghiaccio per tamponare l’epistassi ma tutto quello che c'era è stato usato per i secchielli di mojito e quindi esce di casa e ficca la testa dentro un cumulo di neve. Gli altri lo seguono, soprattutto perché Zanna è in crisi, come dicevamo: gli è bastato uno sguardo per innamorarsi di un’amica della proprietaria di casa, una giga-topa con cui, in una situazione normale, non avrebbe alcuna chance. Zanna non ha proprio una gran dialettica né la sfacciataggine cazzuta di Tetteballerine e di fronte alla ragazza balbetta e si sbava addosso. Ma è Natale, si dice Enrico-Spanky, e si può sempre auspicare in un miracolo, se si è meritevoli. Con il naso gonfio come una zampogna Enrico aiuterà, quindi, camuffando la sua voce e nascosto dalla chioma di un albero, a conquistare il cuore della ragazza per il suo amico Zanna in una rivisitazione in chiave moderna dell’opera teatrale di Edmond Rostand, “Cyrano De Bergerac”.

Questo è un libro che, da quando mi è stato fatto scoprire al liceo (grazie professoressa -5 politico- Gaudenzi!), leggo almeno una volta all’anno. È un testo straordinario, è musicale, è impavido e sbruffone, esattamente come i cadetti di Guascogna. E io mi sentivo come Cyrano, al liceo, per i motivi che ho già ampiamente spiegato, perché solo nella scrittura riuscivo a trovare la mia dimensione ed esprimermi, essere e sentirmi me stesso, vivendo la vita che avrei voluto. Esattamente come Cirano Ercole Saviniano signore di Bergerac che alla cugina, Rossana, non dirà mai, se non in punto di morte, quanto fosse grande l’amore che provava per lei e quanto, per la sua felicità, avesse sacrificato della sua.

Un capolavoro.

Ma qual è stata la prima, istintiva reazione di Zanna al cospetto con la giovane capace di prendergli il cuore rapidamente come un dardo scoccato con forza?

«Adesso torno di là e me la guardo finché non sarà ore di tornare a casa! Sarò felice così!»

Che visto così sembra un ragionamento davvero fantascientifico, soprattutto per quanto riguarda la parte della felicità, ma in verità è stato un atteggiamento molto frequente nella mia vita e, immagino, in quella di coloro che la vita amano più immaginarla e modellarla come desiderano che viverla. Coloro non così coraggiosi da afferrarla al volo, quelli che leggono male le situazioni quando è il momento e che arrivano alla soluzione solo dopo ore e giorni dall’effettivo svolgimento dei fatti, quando è oramai inutile. La paura è ciò che ci frena, una paura scaturita dall’insicurezza. Un’insicurezza che il più delle volte non è supportata da dimostrazioni oggettive e che quindi è solo primordiale, istintiva: quella di essere rifiutati. Quel NO pesante come un macigno che minaccia di affossarci in un vortice di disperazione così profondo da non poter mai più assistere al sorgere del sole. Capita a coloro, però, che nel mondo vero non si sono mai immersi veramente, che si sono bagnati la punta dei piedi come a saggiarne soltanto la temperatura. Nel mondo bisogna tuffarsi senza pensare, di testa.

  


 
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lunedì 14 dicembre 2020

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Pubblicato da Alessio Chiadini su Domenica 13 dicembre 2020

venerdì 11 dicembre 2020

Dentro il libro e oltre: Il duro del Lisander & I tre giorni del Coguaro

 


Ne "Il duro del Lisander", poco dopo che Enrico fa ritorno dal bar in cui era convinto di trovare l’inquilina del terzo piano intenta ad aperativiggiare, lo vediamo andare a prendere il sol…studiare duro sul tetto del condominio.

Credo si trattasse di un giorno di primavera quando io, l’autore delle prefazione all’edizione 2020 (Marco Guardanti) e Sir Giorgio, decidemmo di esplorare il condominio da cima a fondo (in casa non avevamo internet e prima dell’avvento del digitale terrestre probabilmente tutto ciò che proponevano i palinsesti per rallegrare il nostro pomeriggio annoiato, ci faceva cagare). Esplorammo gli scantinati bardati come avventurieri (anche se anagraficamente l’infanzia avrebbe dovuto abbandonarci da un pezzo, una scheggia di quella magia ci è rimasta conficcata dentro e brilla intensamente ogni volta che ci ricordiamo di essere stupidi e di non avere una reputazione da difendere a tutti i costi. Io non ce l’ho mai avuta, Marco e Giorgio, probabilmente, ora sì). Le cantine non ci regalarono grandi aneddoti e non ne ricavammo che tetano ma il tetto ci diede soddisfazioni. Quella, ad esempio, di vedere Giorgio frustato a sangue da un estensore per pettorali, non prima però di averlo ammirato prodigarsi in un vero stunt da duri da film d’azione (immaginatevi quando Tango e Cash evadono dal carcere di massima sicurezza gettandosi dal tetto dell’edificio con l’ausilio dei cavi dell’alta tensione e della loro cintura). 


È bello esserci stato e avere assistito allo spettacolo. Giorgio ha sempre avuto tutte le caratteristiche giuste da portarci a pensare che fosse un genio assoluto, filosofo, artista e viveur, campione di imprese che se le avessi affrontato io, sarei morto quasi certamente alla seconda. Quando mi permetterà di scrivere il libro della sua vita ne vedremo delle belle. 

Quel tetto, poi, lo usammo per un aperitivo tra colleghi di università. Faceva un freddo che pelava (ndr. gran freddo). Quando ci venne a trovare Miguel, invece, facemmo le foto saltanti. In cosa consistono? Nel farsi fotografare mentre si compie un salto assumendo però un atteggiamento normale, come se si stesse facendo altro. Il risultato è esilarante. Mettersi a saltare sul tetto, un’idea che non smette di sfoggiare furbizia anche dopo anni. Abbiamo mancato i Darwin Awards per un soffio, lo so.

Scusate la rozzezza della foto ma non ho avuto tempo di definirla e migliorarla!
-Tranquillo, Doc!


In questo capitolo c’è una delle descrizioni di Tetteballerine che mi sono più care perchè in una manciata di parole sono riuscito ad esprimerne la possanza fisica, l’agilità e l’arroganza guerriera. 

“…è una macchina da guerra praticamente inarrestabile che quando nevica e la città è bloccata dal ghiaccio corre a frustare lo Yeti con l'asciugamani. È un Legolas con le braccia di The Rock.”

Se Tette’ fosse un personaggio dei videogiochi sarebbe il cimmero con l’ascia, ignorante come un rutto e devastante come un D20.


Al tempo di Facebook, MSN, Badoo, dei profili Fake e di Lesbiche che spadroneggiavano su chat in tumulto, il single disperato invocava il soccorso di un eroe per riconquistare la libertà. Finalmente arrivò Hitch, l'incredibile principe di Bel Air forgiato dal fuoco di mille battaglie. Le dichiarazioni di cuore, le sfrenate passioni, gli appuntamenti al buio furono affrontati con indomito coraggio da colui che, solo, poteva cambiare il mondo.

Tutto ciò avvenne in un’era giurassica in cui i social non erano quello che sono oggi e il bipede maschio era ancora costretto a spingersi fuori dalla sua caverna per procacciarsi ciò che gli serviva. Quando vidi al cinema Hitch ci andai con mia madre, ed ero ancora un cucciolo di uomo che doveva dimostrare alla tribù il suo valore e conquistarsi il titolo di guerriero. Con mio padre andavo a vedere solo film di guerra e polizieschi. Praticamente, finché mio fratello ed io non abbiamo avuto l’età per toglierci dai coglioni, è stato nostro il merito di far sì che i nostri genitori continuassero a vedere film al cinema.

Così portai mia mamma a vedere il film di Will Smith anche se, fisicamente, fu lei a portare me. Il 2005 era un periodaccio di merda, la stessa merda che avevo masticato gli anni prima con la differenza che quell’anno era un anno in più di merda da mandare giù. La trafila della mia situazione sentimentale desertica andava avanti da più o meno 5 anni (tutti gli anni del liceo, senza saltarne nemmeno uno), proprio quando le giovani donzelle che percorrevano insieme a me gli stessi corridoi della scuola sbocciavano e fiorivano nella loro forma migliore, producendo in me e nei miei compagni una processo di extra salivazione costante. Il morale della favola fu che tutto ciò che arrivai a scorticarmi al liceo furono le cornee, per il troppo guardare, perché non riuscì a fare che quello. Ciò era causato anche dal fatto che lo sviluppo, nei maschi rispetto che nelle femmine, si traduce in periodi di bruttezza atomica e di mancanza d’identità ben formata che ti regalano una profondità di concetti e interessi da sfoggiare pari a zero. 

E quello ero io, senza ombra di dubbio. 

Il liceo è per me è stato come scartare un regalo di Natale tanto desiderato e non poterci giocare. Tra l’altro non avevo la minima idea di come avvicinare una ragazza, farla interessare a me, figuriamoci di convincerla a cedermi il suo fiore a tempo indeterminato (ho sempre cercato solo storie serie e durature, l’amore della vita che trovi a che non lasci più, con cui costruisci una famiglia, fai progetti, realizzi i sogni). Ero brutto, scrivevo poesie smielate, ascoltavo musica vecchia (non vecchia come quella classica che comunque ti dà un certo tono con il gentil sesso ma nel senso che non conosceva nessuno) impedendomi così degli spunti di conversazione, non ero politicamente impegnato e non avevo talenti apprezzabili che potessero farmi spiccare. Un disastro, insomma. 

Almeno vi garantisco di aver vissuto le storie d’amore più belle, accese e perfette come mai altri vissero. Nella mia testa.

Hitch, dicevamo: ben scritto, ben interpretato, ottima risorsa per citazioni nella vita di tutti i giorni. Lo guardai avidamente, la prima volta, con un bloc-notes mentale fatto di granito, pronto a uscire dal cinema e fare strage di cuori, finalmente dotto su quel grande mistero dell’universo: le donne. E invece, infrangendo la quarta parete, proprio appena prima che il sipario si chiuda e lo schermo vada a nero, Will Smith si volta verso il pubblico del cinema e parlando a me, ne sono certo, dice: “Regole fondamentali? Non esistono!” sfanculando le due ore appena passate e polverizzando il taccuino forgiato nel granito. Mi hai fregato Will, non si fa così, da te non me lo aspettavo proprio, e dire che ho rinunciato alle lezioni di canto perché coincidevano con la messa in onda di Willy il Principe di Bel Air. Adesso avrei potuto solcare i palcoscenici di mezzo pianeta e fare la vita dissoluta del rocker.


Devo dire che, dopo il liceo, la fortuna ha girato e qualche soddisfazione è arrivata. O forse è la legge dei grandi numeri che, prima o poi ti tocca, come l’esame della prostata.

L’aneddoto su “La mamma” è preso pari pari così come si è svolto in realtà, quindi vi invito ad andarlo a leggere nel romanzo. Ma la questione dei primi appuntamenti, quella sì, è roba seria. Cerco sempre di mettermi nei panni di coloro con cui ho a che fare e, quando riesco, a comprenderli e vedermi con i loro occhi. Non è mai un’esperienza edificante, purtroppo, ma non ho mai avuto problemi a fare amicizia o instaurare dei legami sociali, più o meno superficiali, quindi vuol dire che quello che vedevo di me e che non mi piaceva, per tutti gli altri non era poi così limitante. Quello, oppure sono in grado di mascherare bene i miei innumerevoli difetti e contraddizioni. Chi lo sa, chiederete al mio terapista, quando si sarà ripreso dalla crisi di nervi.

Anche il “colpo alla Fonzie” mi è riuscito davvero ma ammetto che sia stata solo questione di culo e che non avessi nessuna idea di quello che stavo facendo.

Arriviamo di corsa a una creatura mitologica che vive in mezzo a tutti noi e che io ho incontrato molte volte: la donna LEGO. La disciplina è sempre quella dell’antropologia urbana di mio conio e l’oggetto di studio è costituito da quel genere di ragazza che, all’interno di una storia o di una frequentazione amorosa con un altro essere vivente, non si pone mai all’interno di quell’equazione chiamata “relazione”. Come i pezzi del Lego, che si possono sostituire con altri di altro colore e ricreare sempre la stessa costruzione. Sono mattoncini colorati intercambiabili proprio perché quando il rapporto non funziona, va in pezzi, si sfascia, la colpa è sempre attribuita all’altro per sue manifeste mancanze, e solo sue, quando invece un vecchio adagio recita che un fiume ha bisogno di due sponde. Voi ne avete mai incontrati, di esseri-LEGO, sia uomini che donne, per cui l’uomo è solo un maiale e la donna solo una troia e che la relazione avrebbe vomitato merda come un cesso intasato anche se al posto suo ci fosse stata qualsiasi altra persona?

Sono insopportabili.


“Il duro del Lisander” si apre con Sharp dressed man by ZZ Top mentre “I tre giorni del coguaro” con Love Train by The O’Jays. Il primo è un brano rock del 1983 e l’ho scelto perché fa tanto videoclip anni 80 con quell’accompagnamento di chitarra elettrica. Se fossimo in un film questa sarebbe la scena che ci racconta, senza parole, che tipo sia il nostro protagonista. Per come la vedo io, Enrico indosserebbe un paio di rayban wayfarer, l’inquadratura dal basso verso l’alto a riprendere tutta la sua gloriosa camminata sul tetto del condominio, il walkman infilato nel costume da bagno, lo sdraio sotto braccio e tutto il mondo ai suoi piedi. Il classico figo che nei film affronta i guai con risolutezza ma senza perdere mai il suo senso dell’umorismo, che buca lo schermo. Mentre leggete il capitolo, fate partire la musica, sono sicuro che mi darete ragione.


Love Train è, invece, un pezzo R&B del 1972 e i toni cambiano in modo drastico. Prima di tutto arriva direttamente dalla soundtrack di Hitch, da cui “I tre giorni del Coguaro” prende il cuore. Volevo descrivere l’immensa pluralità caotica che Enrico lamenta quando parla di social e di come abbiano rimpicciolito il mondo e accorciato le distanze tra le persone. Possibilità amorose che fino al giorno prima sarebbe state irraggiungibili diventano a portata di mano e in quel mondo che ruota così veloce è facile perdere il ritmo e farsi staccare. È una realtà colorata di infinite possibilità che abbacina e può farti perdere i sensi se non vissuta nella maniera giusta. Il brano è gioioso e godibile e suggerisce a noi come al protagonista, il giusto mood per affrontare quelle novità. Con sorriso, leggerezza e zero ansia, che non ce n'è proprio bisogno.




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lunedì 7 dicembre 2020

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venerdì 4 dicembre 2020

Gli immancabili di NATALE




Cosa fa il giorno di Natale davvero Natale, per me.
La lista non segue un ordine cronologico, o di importanza o di bellezza e, soprattutto, non è oggettiva né universale per cui probabilmente non troverete magari quel titolo che vi aspettavate (però se volete segnalarlo, poi ne parlerò con piacere!)
Fatte le dovute premesse, aiutatemi a dire: «A tutta birra, Rudolph!»



  • Harry potter e la pietra filosofale:
    film del 2001, non l’ho visto al cinema e non ho recuperato il romanzo per i successivi 6-7 anni. Quindi si può dire che non sia un Potterhead nativo e che i Natali più significativi e memorabili dell’infanzia li ho passati senza il maghetto creato dalla penna di JK Rowling. Nonostante questo, come vedete, eccolo qua. La prima volta l’ho visto in tv e ammetto che non sapevo nulla sulla storia, sul fatto che si trattasse di una saga letteraria né se fosse il primo o l'ultimo film. Nel 2001 frequentavo il liceo e Harry Potter, enorme fenomeno planetario, era visto più che altro come una storia per bambini facendosi sì che il mio radar di interesse non facesse bip. Capitai per caso sul quel canale, penso fosse Raiuno (non so se fossimo sotto le feste ma fuori era buio e faceva freddo quindi, nella fantasia infantile che Natale duri almeno 3 mesi l’anno, ogni volta che le condizioni atmosferiche sono favorevoli, per me il calendario torna al 25 dicembre). Considero la gioia provata da Harry la prima volta che, insieme a Hagrid, entra nel mondo dei maghi e delle streghe a Diagon Alley, o quella in cui scorge il profilo di Hogwarts stagliarsi all’orizzonte o ancora la miriade di odori, sapori e colori con cui si riempì la Sala Grande durante il banchetto di benvenuto, paragonabile alla felicità di un bambino che si sveglia la mattina di Natale (in casa mia si festeggia il 25 mattina invece che la Vigilia) e corre fino all’albero addobbato in soggiorno. Chi, da piccolo, non avrebbe desiderato scoprire di possedere dei poteri magici, in fondo? Sì, la Pietra Filosofale è necessariamente un film che può essere annoverato in questa lista piena di zucchero a velo e agrifoglio. Insieme a lui, possiamo inserirli tutti fino a "L’ordine della fenice". Hogwarts, d’inverno, trasmette quel calore che vorremmo avere nelle nostre case quando fuori il termometro sfiora lo zero, davanti al camino acceso con un sacchetto di cioccorane in mano.


  • Canto di Natale di Topolino Walt Disney (1983):
    ogni 24 sera, su Raiuno, lo aspettavo con ansia. Una tradizione natalizia vera  propria. Uno dei migliori prodotti Disney di sempre, la carica narrativa in grado di muovere emotivamente vere e proprie montagne aride di sentimenti. Il groppo in gola matematico quando il cuore di zio Paperone finalmente si schiude alla bontà e diventa il personaggio da cui tutti avremmo sempre desiderato ricevere un gesto d’affetto. Imprescindibile. 


  • Pomi d'ottone e manici di scopa (1971)
    : come sopra, nella programmazione del palinsesto Rai i due film  sono andati a braccetto per lustri e lustri e, anche se a tutt’oggi non riesco a ricordare bene la trama se non che avesse come protagonista una strega provetta (interpretata da Angela Lansbury) che, non sapendo gli incantesimi a memoria doveva leggerli direttamente dal manuale inforcando gli occhialetti. Non soddisfatta faceva volare un letto girandone il pomo (d’ottone) finendo, insieme ai giovani comprimari e al mister Banks di Mary Poppins (David Tomlinson), in una partita di calcio tra animali antropomorfi e un leone-re piuttosto incazzoso.


  • SOS fantasmi(1988):
    rappresentante di quello che definisco il mio “Natale nascosto” visto che con questa pellicola ci si discosta di qualche passo dagli stilemi classici della cinematografia della Natività. Certamente, è in tutto e per tutto un film natalizio con un finale strappalacrime ma è anche, a tutti gli effetti, un prodotto marchiato anni '80 e l’irriverenza è presente in ogni singolo fotogramma. Linguaggio scurrile, cinismo, riferimenti al sesso e morti assiderati. Il classico immortale di Dickens declinato alla cultura materialistica che ha imperniato quel decennio tutto neon e giacche con le spalline. Un film con Bill Murray e per Bill Murray. La scena che mi è rimasta più in mente alla prima visione: Frank Cross (Murray) appeso fuori dalla finestra, retto dal braccio del suo defunto capo che inesorabilmente si sfalda in polvere e brandelli di carne morta. La mia scena preferita: l’incontro con il fantasma dei Natali passati per la caratterizzazione del tassista, un sadico stronzo e guardone. La mia battuta preferita: quella sui capezzoli della ballerina («Anche Charles Dickens avrebbe voluto vedere i suoi capezzoli!»)


  • Ricomincio da capo (1993):
    anche se tecnicamente il film è ambientato a febbraio (2 febbraio, 2 febbraio, 2 febbraio, 2 feb..) a Natale a me piace guardare i film fatti di buoni sentimenti che, più adesso che quando ero ragazzo, mi fanno venire il magone e piangere come un vitello. Amo sentirmi buono, altruista e pieno d’amore, stilando una sfilza di buoni propositi per quando, finalmente, mi alzerò dal divano e varcherò di nuovo la soglia di casa. Bill Murray è straripante («Sono un Dio!») e le trovate di Harold Ramis (Egon) esplorano senza censure quello che un uomo intrappolato in un loop temporale sarebbe portato a fare, considerare, imparare. Quando ti trovi in una situazione senza via di fuga non c’è altro che puoi fare se non andare avanti ed affrontarla. Esattamente come l’esistenza di ognuno di noi: abbiamo solo questa vita e con questa dobbiamo imparare convivere, senza scorciatoie o trucchi, fino in fondo. «...non solo ieri sono esploso, mi sono avvelenato, pugnalato, sparato, congelato, impiccato, fulminato e bruciato!» (Vi ricorda qualcosa, tipo un altro film iconico degli anni '80 ambientato a New York con quella grande signora che, sai è francese, non le porta le mutande là sotto?).


  • Die Hard-trappola di cristallo (1988):
    se non è un film natalizio Die Hard, non so, ditemi voi che è ambientato la vigilia di Natale alla sede della Nakatomi. Bruce Willis ha il merito di averci regalato un Babbo Natale che ha superato la prova del tempo. Un nazista morto, coi piedi piccoli e una maglia griffata da urlo, oh-oh-oh! È un film che ha avuto il merito di riscrivere un genere ponendo al centro non un eroe invincibile e senza paura come era stato fino a quel momento ma un uomo che si trova davanti a una situazione più grande di lui ma a cui non può sottrarsi (Trappola di Cristallo è comunque un unicum in quanto il genere ha deviato presto sulle vecchie abitudini, a partire anche dai capitoli successivi di questa saga). Questo è il film che ha consacrato Bruce Willis come star del grande schermo (era considerato dai più non adatto al ruolo darto che veniva dal successo di Moonlighting, la serie tv comica che vi invito di recuperare al più presto se volete vedere un Bruce Willis più che mai poliedrico).


  • La storia Fantastica (1987)
    : Natale è un periodo in cui sognare è concesso più che in altri momenti dell’anno e non c’è modo migliore di farlo che con una fiaba. Da piccolo volevo essere il pirata Roberts, imbattibile spadaccino vestito di nero capace di affrontare ogni nemico e sconfiggerlo: era forte, abile nella scherma, astuto, pieno di risorse e puro di cuore. Epico il duello di spada con l’altra immortale icona degli anni 80, Inigo Montoya e la sua sete di vendetta («Hola. Mi nombre es Iñigo Montoya. Tu hai ucciso mi padre, preparate a morir.»). Memorabili gli scambi tra il nonno (Peter Falk) che legge la fiaba di Westley e Bottondoro al nipote influenzato (Fred Savage - Piccoli mostri, Blue Jeans, il piccolo grande mago dei videogames). Robin Wright (Bottondoro) mozzafiato. «Quel giorno si accorse con stupore che tutte le volte che lui le diceva "ai tuoi ordini", in realtà voleva dirle "ti amo".»


  • Una poltrona per due (1983):
    Babbo Natale non si mette nemmeno le mutande se prima non ha controllato che nel palinsesto di Italia 1 del 24 dicembre rientri questa commedia del 1983 firmata John Landis. Gli alti dirigenti del Biscione farebbero bene a non dimenticarselo se non vogliono rovinare il Natale a tutti. Un film di Natale in cui si vede un tentato suicidio, si odono parolacce ogni volta che un angelo mette le ali e si ammirano tette a profusione («Sei mi dai una botta con quelle tette mi ammazzi.»), prostitute e svariate droghe psicotrope per addobbare l’albero. Vista così, capisco perché in prima serata non ci finisce mai. Aspettiamo che i benpensanti escano di casa per andare alla funzione di mezzanotte. Eddie Murphy dà il meglio di sé nella parte del veterano di guerra senzatetto, cieco e pure zoppo. Esilarante l’incontro con i poliziotti che gli fa ritrovare le gambe mutilate in azione (compresa la vista). Dan Aykroyd è il dirigente che perde tutto, compresa dignità e voglia di vivere per colpa di una sciocca scommessa, che troverà conforto in Jamie Lee Curtis (come lo capisco). La scena dello scambio di valigette sul treno è l’esatta trasposizione di come scrivo gli episodi più spassosi di Chi Più Re di Noi: situazioni oltre al limite del credibile condotte con una faccia tosta da applausi. Due menzioni d’onore: il maggiordomo di Dan Aykroyd prima e di Eddie Murphy poi, è niente popò di meno che Denholm Elliot (interprete del Dr. Marcus Brody nella saga di Indiana Jones); il famigerato Clarence Beeks che fa il doppio gioco per i fratelli Duke invece è Paul Gleason, iconico preside del liceo di Breakfast Club. Ma il gorilla sul treno poi, lo sapete chi è?


  • Mamma ho perso l’aereo & Mamma ho riperso l'aereo:
    mi sono smarrito a New York: l’accoppiata esiste per pura par-condicio in quanto il secondo non esisterebbe senza il primo. In realtà quello che ha caratterizzato di più la mia infanzia è stato il capitolo ambientato a New York (la VHS di Mamma ho perso l’aereo in casa mia non c’era). Chi non ha mai desiderato, da piccolo, di ritrovarsi in casa senza genitori, fratelli stronzi, cugini piscialetto e zii insopportabili? Cosa avreste fatto? Tutto quello che mamma a papà vi avevano sempre proibito di fare: saltare sul letto, andare a dormire tardi, guardare film violenti, ingurgitare qualsiasi tipo di schifezza immaginabile. Facciamo parte, allora, dello stesso club del piccolo di casa McCullister, Kevin («KEVIN!!!») alias Macaulay Culkin, attore prodigio degli anni 90. Una piccola peste in grado di sgominare due ladri maldestri ma determinati (Joe Pesci e Daniel Stern) ma non di sconfiggere la sua paura del seminterrato e del vecchio che si aggira nel quartiere armato di pala e secchio in cui, si racconta (Buzz), che infili i corpi delle sue vittime. Nel secondo capitolo ci sono le luci della città che non dorme mai a fare compagnia a Kevin e una sfarzosissima suite d’albergo (gestito dai migliori idioti della città - semicit), tra cui Tim Curry e il suo inquietante sorriso da Grinch e Rob Schneider (caratterista in quasi i tutti i film di Adam Sandler). Qui Kevin fa amicizia con una senzatetto che dà da mangiare ai piccioni a Central Park (interpretata da Brenda Fricker). Tra l’uomo con la pala e la signora dei piccioni ho le idee chiare su chi sia il mio “aiutante dell’eroe” preferito, ma non lo dirò. Nota finale: è stata scritta per Home Alone 2 la canzone che appena l’ho ascoltata è diventata LA canzone di Natale: All alone on Christmas by Darlene Love (nel videoclip ufficiale anche la E Street Band con il piratesco Steven Van Zandt a gigioneggiare e il sassofono di Clarence Clemons a spruzzare il tutto di puro sound anni ‘80).


  • Love Actually (2003):
    un film corale che funziona senza annoiare e che conclude tutte le storyline in maniera eccellente, lasciando lo spettatore pienamente soddisfatto e con l’amore tutt’attorno. Adoro le commedie britanniche per il loro humour e, perché, gira e rigira gli attori sono sempre gli stessi e ogni volta sembra di entrare in casa dei nonni per il cenone e ritrovare i parenti che non vedevi dallo scorso Natale. Il grande nome in cartellone è quello del re per eccellenza della commedia romantica all’inglese: Hugh Grant, qui nei panni del nuovo primo ministro inglese appena insediatosi. Celebre il ballo sulle scale sulle note delle Pointer Sisters “Jump (for my love)” e della battuta di fronte al ritratto di Margareth Thatcher. La seconda storyline è quella che vede il futuro sceriffo di The Walking Dead, Andrew Lincoln, innamorato della fidanzata (dopo cinque minuti dall’inizio del film la vediamo diventare moglie) del suo migliore amico. Il gesto della dichiarazione d’amore davanti alla porta di lei (Keira Knightley) con i cartelli ci ha messo trenta secondi per diventare iconica. La terza storia ha per protagonista il nostro compianto Alan Rickman, alle prese con una segretaria avvenente e civettuola decisa a portarlo sulla strada dell’adulterio (Emma Thompson interpreta la moglie). Inaspettato il cameo di Rowan Atkinson nella parte del commesso del centro commerciale in cui Rickman si ferma per comprare un regalo. In tema di corna, Colin Firth è qui uno scrittore che scopre la fidanzata a letto con suo fratello e parte per Marsiglia per dimenticare la delusione d'amore e finire di scrivere il suo romanzo. A mio modesto parere, è il finale che spetta a questo personaggio quello più toccante del film. Tenetevi saldi perché siamo solo alla quinta storia, quella che vede Liam Neeson come vedovo e padre di un ragazzo in preda alle gioie e ai dolori del primo innamoramento. Piuttosto irreale ma entusiasmante l’inseguimento in aeroporto. Laura Linney e Kris Marshall sono rispettivamente un’impiegata perdutamente innamorata di un suo collega e un giovane coglione in fotta che parte verso gli Stati Uniti con il solo piano di fornicare come un coniglio nella ferma convinzione che il suo accento britannico gli spalanchi le gambe di qualsiasi donna. Martin Freeman, che sarà poi Bilbo Baggins per Peter Jackson e il Dottor Watson nel magistrale serial Tv “Sherlock”, fa qui la parte di un’impacciata controfigura per film hard. Ho lasciato invece per ultimo il fenomeno, quello che meriterebbe uno Stand-alone che però quasi certamente vanificherebbe tutte le aspettative lasciandoci interdetti e pentiti: il rocker in declino Billy Mack (Bill Nighy) è l’irriverenza allo stato puro. Sboccato, offensivo, sconclusionato e senza nessun filtro tra il suo pensiero e il comune pudore è il personaggio più memorabile di questo film fatto di individualità tutte connesse tra loro e che invoglia a guardarlo ogni volta che l’occasione si presenta, spontanea o forzata che sia.


  • La vita è meravigliosa (1946)
    : un vero classico di Natale che io ho scoperto solo da adulto. Questo anche perché, non so da dove, avevo la ferma convinzione che i film “vecchi” fossero banali, piatti e frivoli. Questo film del 1946 diretto da Frank Capra, che annovera un cast di eccellenze quali James Stewart e la bellissima Donna Reed, è profondo, cupo e brillante. L’alchimia tra i due protagonisti è palpabile e, nel momento in cui tra loro scatta l’amore, ci innamoriamo anche noi (da sospiri la scena della telefonata). Il plot del film risponde alla domanda: come sarebbe cambiato il mondo se io non fossi mai esistito? È questo ciò che desidera il protagonista George Baley guardando le acque nere del fiume sotto di lui mentre medita il suicidio, la notte della vigilia di Natale sotto una tormenta di neve. Fanno sorridere le rappresentazioni di Dio, Gesù e l’angelo custode che scenderà in missione per salvare James Stewart ma è l’unico indizio che si tratti di un film che ha più settant’anni. Non scopro l’acqua calda ma trovo James Stewart di una bravura ineguagliabile e, diversamente da quello che la sua fisicità allampanata e sottile potrebbe far pensare, scopriamo che è credibile anche come strategico tombeur-de-femmes. Un film che al suo esordio non ebbe il successo sperato ma divenuto poi un imprescindibile classico.


  • Prossima fermata: paradiso (1991)
    : un uomo muore in un incidente automobilistico e finisce in un mondo ultraterreno dove dovrà affrontare un processo alla sua vita. Se riuscirà a dimostrare di non essere più schiavo della paura andrà avanti, altrimenti dovrà tornare indietro e riprovarci, ancora e ancora. Un film scritto e interpretato dal comico Albert Brooks con una protagonista d’eccezione: Meryl Streep. Credo davvero che siamo in pochi a conoscerlo ma vi consiglio di recuperarlo se non altro per la filosofia che sottende all’immaginazione de “La città del giudizio”, dove le anime attendono di conoscere il loro destino:  si può mangiare a sazietà senza mai prendere un etto, qualsiasi cosa ha un gusto delizioso e tutto è permesso. Durante la visione non si riesce proprio a non farsi un esame di coscienza sul modo in cui conduciamo la nostra vita. La paura è insita nel nostro DNA e anche se è un meccanismo di autodifesa, allo stesso tempo è un freno che ci limita, ci chiude e ci impedisce di trovare quella felicità che, come esseri umani, cerchiamo senza riposo e che sta proprio al di là della nostra zona di comfort. NB: molto divertenti i dialoghi sul cibo tra il protagonista e il suo avvocato che, con un’intelligenza di gran lunga superiore a quella umana, è in grado di modulare la percezione dei sapori e ingurgita poltiglie per nulla invitanti. 

  • Dutch è molto meglio di papà (1991):
    altro film sconosciuto ai più e che io conosco soltanto perché avevo la solita VHS registrata dalla TV. In realtà è una storia ambientata per la festa del Ringraziamento che però, si sa, fa da apripista a tutte le altre. Scritto da John Hughes, padre del Brat pack e di tutte le commedie adolescenziali degli anni 80. Nominatene una e quasi sicuramente c’è lo zampino di Hughes (Sixteen candles, The Breakfast Club, La donna esplosiva, Bella in rosa, Una pazza giornata di vacanza, etc etc). Il film è considerato un flop ma trovo formidabile la performance di Ed O’neill che per la maggior parte di voi è Nonno Jay di Modern Family. Dutch è il nuovo compagno della madre dell’adolescente Doyle, che si offre di andare a prendere dal college privato e facoltoso in cui studia, per portarlo a casa per le feste. Doyle stravede per il padre, che però non lo calcola di striscio e preferisce passare il Ringraziamento con una delle sue tante squinzie. Il rapporto di Doyle e Dutch parte subito storto, soprattutto per quest’ultimo che viene preso a pedate nei testicoli ancora prima di scambiarsi un saluto (la madre non li ha ancora presentati). “Dutch è molto meglio di papà” è un divertente road movie che, però, credo perda un po’ del suo umorismo con il doppiaggio italiano. Mi aspetto questo dall’enorme verve di Ed O’Neill che si è fatto le ossa nel vasto mondo delle situation comedy americane. Dutch è un padre adottivo pieno di risorse, non sempre politicamente corretto, vizioso, sadico e dal cuore grande.


  • Star wars trilogia classica
    : non sono proprio film a tema Natale, e forse il Natale nemmeno esiste nel mondo creato dalla mente di George Lucas (se vogliamo escludere, e lo vogliamo, lo speciale di Natale con protagonista la famiglia Chewbacca), però ho questo nitido ricordo che per alcuni anni Mediaset li proponeva la sera del 31 dicembre. Chi mi conosce sa che non sono un fan accanito, un attimo…non sono proprio un fan di Guerre Stellari (i cambi sequenza mi scatenano la narcolessia e trovo ripetitive le soluzioni per sconfiggere l’impero - attacchiamo la nave grossa con un manipolo di suicida raccattati tra le file della Resistenza e puntiamo verso quel gigantesco errore di progettazione) ma guardare, anche se di sfuggita, storie epiche di mondi incredibili, proiettati in un futuro mirabolante pieno di magia, eroismo e salti nell’iperspazio con QUELLA colonna sonora di John Williams, immagino fosse un buon modo per pensare a un nuovo inizio, appena la lancetta di mezzanotte avesse compiuto uno scatto in avanti.


  • Armageddon, Men in Black, Il Quinto Elemento
    : ok, di natalizio non hanno niente ma questa non è una lista rigorosa e universale ma mia, piccola e di parte. Siamo al Natale del 1999 (io avevo 13 anni) e nella letterina sotto l’albero avevo chiesto di ricevere questi tre film perché in due di questi c’era il mio eroe d’azione preferito, Bruce Willis e nell’altro il mio attore afroamericano preferito, Will Smith. Nient’altro ma impeditemi voi di pensare al Natale quando li riguardo, se ci riuscite.


  • Notting hill (1999)
    : l’anno me lo ricordo, era il 2000 e ricordo anche dove fossi quando l’ho visto per la prima volta: durante le feste a casa della nonna. Mio zio, che aveva registrato il film da Tele+, mi fece una premessa prima di inserire la cassetta nel videoregistratore: “Mi chiederai di rivederlo”. E fu proprio così. L’arco narrativo di questo film dura circa un anno (celebre la scena in cui Hugh Grant passeggia lungo Portobello Road passando da una stagione all’altra) ma per l’associazione legata al ricordo della prima visione e per il messaggio (un sogno quasi impossibile - avevo 14 anni, guardavo un sacco di film e mi innamoravo di tutte le protagoniste - che diventa Realtà: il ragazzo della porta accanto che conquista il cuore della più lucente stella di Hollywood) è una storia che mi piace riguardare ogni Natale. Film con una soundtrack di tutto rispetto (Ain’t no sunshine By Bill Withers; Gimme some lovin’ by Spencer Davis Group; She by Elvis Costello), anche se alcuni brani risentono di un sound eccessivamente anni ‘90 che ad ascoltarli oggi ti fanno sentire addosso tutto il tempo trascorso e salire la malinconia bastarda (Do Cherish you by 98 Degrees). La canzone interpretata da Ronan Keating “When you say nothing at all” è probabilmente quella, ad oggi, più associata alla pellicola e quella scolpita di più nella memoria di chi, in quel periodo, viveva una relazione o ne cominciava una. Decine, centinaia, migliaia di coppie, ne sono sicuro, nell’estate del 1999 e in quella successiva si sono strette ballando questa canzone. Chissà a quanti DJ è stato chiesto di metterla su ancora e ancora, matrimonio dopo matrimonio. «Brutto cazzone avariato!» è la battuta più celebre se non si tiene conto della dichiarazione d’amore che Julia Roberts fa a Hugh Grant («Sono solo una semplice ragazza che sta di fronte a un ragazzo e gli sta chiedendo di amarla.»), anche questa entrata nella lista delle frasi più belle e citate della storia del cinema. La mia scena preferita? Quella della cena a casa degli amici, in cui William (Grant) si presenta accompagnato da Anna Scott (Roberts), scioccando tutti, tranne uno. Bhè, che dire ancora: i lettori di Cavalli e Segugi ne saranno deliziati.