Alessio Chiadini Beuri: 2019

sabato 16 novembre 2019

doppio whisky



   «Credo che sia morto, ormai.»
Una voce alle mie spalle, femminile, mi colse di sorpresa e quando mi girai, sono sicuro che sortì la stessa impressione su di lei anche la mia raffinata dialettica.
«Uhu?!»
Mi ero imbattuto in una donna fatale che mi puntava una pistola in faccia. E le restituì il favore.
«Vivo o morto che sia, hai colpito la persona sbagliata.» disse, senza aggiungere altro. La vista di quella brunetta mi folgorò. Non me lo aspettavo né ero pronto a quella bellezza. Indossava un trench di pelle e i lunghi capelli neri si raccoglievano in una coda.
«Lisa Puncinello?» domandai sbigottito. Lisa Puncinello era la moglie di Angelo Puncinello, la mela marcia più grossa del frutteto. Che diavolo ci faceva al Ragna Rock la moglie del boss?
E perché mi minacciava con un’automatica invece di godersi i frutti dei peccati del marito in qualche esclusivo country club?
«Mona Sax, la sorella gemella di Lisa.» mi corresse.
Ecco spiegata quell’aria da dura che non avevo mai notato in Lisa.
«Vacci piano con le armi, sorellina. Sai che potresti anche fare del male a qualcuno?»
«Lisa era quella fragile. Io sono la forte. Potrei farti saltare il cervello senza battere ciglio.»
«Certo, e tu puoi controllare le mie credenziali spiattellate su tutte le pareti.»
«È stato Angelo Puncinello a uccidere il tuo amico e a far ricadere la colpa su di te.»
«Ne sei certa?»
«Ho le mie fonti.»
«In questi giorni non sono più sicuro di niente e nel dubbio sparo. A chi toccherà sistemarlo?»
«Deve essere mio. Non sopporto chi prova gusto a picchiare sua moglie. Perché non risparmiare i nostri proiettili per lui?»
«Pensavo non me l’avresti mai chiesto: il dito iniziava a indolenzirsi.»
«Come lo vuoi il tuo whisky?»
«Mi basta il profumo, e che il sapore accarezzi il palato.»
«Sei un vero intenditore, Max.»
Mona mi servì il drink. Era roba buona. Scese nella gola come fosse miele.
«Niente di personale ma non posso correre il rischio che nella frenesia Lisa resti uccisa.»
Sentì appena la fine della frase e tutti i rumori del mondo sembrarono provenire da un luogo lontano, un oltretomba ovattato e confuso. Un torpore assassino mi avvolse come in un feretro d’oblio. La coscienza si dissolse in un mal di testa feroce. Stramazzai al suolo.




jack lupino




L’incendio mi asciugava i vestiti e il sangue che si coagulava li inamidava. Servizio completo.
Andai verso il sipario nero, che le fiamme avrebbero raggiunto nel giro di cinque minuti e divorato in meno di dieci. Ne scovai un lembo e mi infilai senza pensarci troppo. Se avessero voluto ammazzarmi subito avrebbero potuto unirsi alle danze, o almeno portare un cocomero.
Dietro un glorioso altare di marmo bianco mi aspettava Jack Lupino, sacerdote di depravazione. Lupino era un grosso figlio di puttana dalla testa rasata e la faccia tatuata: un tribale si arzigogolava dall’occhio sinistro fino alla guancia, come se un involontario schizzo di fango lo avesse raggiunto durante una scampagnata fuori città. Jack però non brandiva un pugnale da cerimonia: aveva optato per un più pragmatico fucile UZI e una camicia che mi ricordò il vecchio divano di mia nonna che aveva sempre odorato di rabarbaro e vecchie scoregge. Oltre ad adorarmi, la nonna non aveva mai avuto gusto per nient’altro.
Per quanto assurda, la situazione sembrava avere una coerenza, anche se non riuscivo a capire quale. Lupino era strafatto e sembrava pronto ad affrontare un alligatore mutante. Quindi riprese i suoi discorsi deliranti, come in un incubo. Il mio.
«Ho assaporato la carne degli angeli caduti.»
«Lo so, è un po’ stopposa, vero?»
«Ho assaggiato il sangue verde del demonio. Scorre nelle mie vene. Ho visto oltre il mondo della carne, l’intera architettura di sangue e ossa.»
«Preferisco i documentari della stagione degli accoppiamenti.» ma non mi sentì nemmeno. Il disco di Lupino non si sarebbe fermato fino alla fine.
«La Morte sta arrivando! Sarà presto fra noi con l’inferno al suo seguito! Ecco l’alba dell’eterno inverno. Sono pronto per diventare suo figlio! È arrivato il suo momento e chiunque si opporrà al suo cammino dovrà morire!» concluse in una risata che non aveva nulla di rassicurante. «MORIRAI ADESSO!»
Alla fine della messa Lupino scattò puntandomi contro il suo UZI. Io feci lo stesso con quello che avevo.
Gridando a mia volta.
Non mi seppi spiegare cosa gridai a fare.
Gridai e basta.
Sparammo entrambi ma eravamo già così vicini da non colpirci neanche di striscio. Lupino sparò in alto, ai santi del paradiso. Il mitragliatore, troppo vicino alla mia testa, mi avrebbe rintronato se non fossi stato così impegnato a mancare Jack a mia volta mettendo a segno due pallottole nel nulla dietro di lui. Fu perché mi serrò il polso destro in una morsa leonina deviando la traiettoria della canna e perché, lo ammetto, non lo credevo capace di muoversi così in fretta. Mi stritolò la mano e mi costrinse a mollare la pistola ma fui abbastanza lucido da ripagarlo con la stessa moneta torcendogli la mano dell’UZI portandolo a puntarselo contro. Mi lasciò andare spostando il nostro scontro sui muscoli. Mi afferrò per la giugulare e mi sbatté contro l’altare. Le reni mandarono un acuto grido di protesta. Me l’avrebbero fatta pagare costringendomi a pisciare sangue per due giorni. Tendevo i muscoli del collo mentre le mani sugli avambracci madidi e nerboruti di Lupino cercavano di allontanarlo da me. Il flusso d’ossigeno che riusciva a passare nella carotide, sempre più piccola, si affievoliva. Si sarebbe ridotto alle dimensioni di uno spillo in mezzo giro di orologio. Ascoltavo il sibilo debole del respiro nella mia testa. Non ero capace di staccarmelo di dosso. Lupino aveva gli occhi iniettati di sangue, così preda delle sue allucinazioni da non battere mai le palpebre.
La mia vista iniziò a confondersi. Un alone scuro circondava ora i profili delle cose. Le palpebre chiudevano i battenti. Le dita continuavano a scivolare sulle braccia sudate di Jack. Altri trenta secondi e sarei svenuto. Chiusi gli occhi ripetendomi di non farmi persuadere dal sollievo che ne ricavai e dal desiderio di mollare gli ormeggi e rilassarmi davanti al tramonto. Le braccia erano ormai solo appoggiate a quelle di Lupino, che concentrava sulla mia gola il suo peso e il suo delirio.
Mi fu impossibile anche sputargli in faccia. Me ne stavo andando. Era come la corrente di un fiume: pian piano ti invitava a seguirla, unirti a lei, poi ti accoglieva placida e infine vi allontanavate insieme, senza pensarci. Anche le gambe cominciarono a perdere forza. L’altare mi sosteneva mentre i piedi si allungavano a toccare già il legno della bara. Dovevo resistere, mentre il mio corpo si spegneva, la mia mente era ancora terribilmente presente, spalancata sull’orrore. Le gambe, dritte e tese come tronchi, non riuscivano però a dire ai piedi di fare presa. Se avessi potuto sollevarmi di qualche centimetro e far valere su Lupino la mia altezza, qualcosa sarebbe potuta cambiare. Ma proprio quei fottuti piedi da sbirro continuavano a scivolare in avanti. Imprecai ma tutto ciò che uscì furono degli intellegibili suoni gutturali che, lo so, stimolarono ancora di più il centro del piacere di Lupino.
La ciliegina sulla torta.
Mentre pensavo all’erezione che Lupino potesse avere in quel momento, il piede sinistro smise di scivolare in avanti e io smisi di sprofondare. Mi ero fermato ma non sapevo chi ringraziare.
Trovai le forze per scalciare e il ghigno dell’uomo che fronteggiavo si affievolì per un momento, non però la morsa fatale attorno alla mia gola. Ero ormai oltre la soglia del dolore e della disperazione quindi poteva stringere quanto voleva ma avrebbe solo accelerato il mio trapasso, non mi avrebbe fatto desistere dal provare a sopravvivere.
Mossi la gamba un’altra volta. Credo lo colpì sotto il ginocchio.
La sequoia rimase solida. Le dita affondavano nella gola. Calciai più in alto ma il ginocchio piegato fece resistenza e mi respinse.
Cazzo.
Cristo santo.
Il piede a martello colpì Jack nella parte interna della coscia, il femore si torse leggermente sull’anca e ne destabilizzò l’equilibrio.
Rabbioso, Lupino prese a strattonarmi agitando la mia testa come una maracas. Voleva staccarmela dal collo. Fu quello a permettermi di riprendere a respirare.
Scalciai ancora e quella volta, a suonare come maracas, furono i suoi testicoli. La sua bocca descrisse una O panciuta mentre lo scampanellio ci diceva che un angelo si era appena guadagnato le ali. Entrai nella sua guardia e piantai i gomiti nell’incavo delle braccia, scrollandomelo di dosso e sgusciando via di qualche passo.
Cercai la pistola ma mi sarebbe andato bene anche un cero da cerimonia per fracassargli la testa. Mentre i miei occhi giocavano a flipper da una parte all’altra del pavimento, un treno merci mi investì. Il pugno di Lupino mi fece saltare un dente. Schienato sull’altare, mi ritrovai nella posizione da sesso “convinto per sfinimento”.
Jack si scagliò su di me. Sollevai le gambe in tempo per stampargli sul grugno la misura delle scarpe. Gli smontai il setto nasale, anche se, abbozzato com’era, non doveva essere la prima volta per lui. Lupino scosse energicamente il viso a destra e sinistra, come a scacciare una mosca e tornò alla carica, con il sangue che usciva a fiotti disegnandogli un paio di baffi. Lo accolsi migliorando il suo sorriso con una testata. I denti mi aprirono la fronte ma Lupino indietreggiò.
Mi avventai su di lui con tutto il mio peso. Rotolammo fino a metà della scalinata oltre cui infuriava l’incendio. Finendo a cavalcioni su di me Lupino tentò di stordirmi con un pugno e provò a spaccarmi la testa contro i gradini. Sapevo che non si sarebbe fermato neanche quando dal mio cranio sfondato la materia cerebrale gli fosse scivolata dalle dita e il mio teschio sarebbe andato bene come calice cerimoniale. Allungai una mano e gli ficcai le dita nelle orbite. Affondai le unghie nella carne mentre si scansava. Colsi quell’attimo per ribaltare le nostre posizioni. Sormontandolo gli spezzai due costole per lato. Jack non mi diede la soddisfazione di provare dolore ma non mi offesi. Le ginocchia gli bloccarono le braccia e mi permisero di usare la sua faccia come un punginball.
Destro. Sinistro. Destro. Sinistro. Ripetere.
Le ossa non cedettero subito, dovetti scorticarmi le nocche prima di affondare nella carne.
Sinistro. Destro.
Un crack si accese nella mia testa come una lampadina.
La mandibola aveva ceduto, andando a fare compagnia allo zigomo sfondato e le orbite rincassate. Lunghi fili di bava mi colavano giù dal mento e gli schizzi di sangue raccolto dai miei pugni mi facevano assomigliare a un quadro di Pollock vivente.
Non sapevo se Jack respirasse ancora. Lo scoprì quando mi disarcionò mandandomi a gambe all’aria.
Era dopato come un cavallo.
Sdraiato sugli scalini come in un film di De Palma guardavo le lingue di fuoco rincorrersi sul soffitto. Le dita della mano sfiorarono qualcosa. Non capì subito di cosa si trattasse solo perché la fatica mi aveva infine trovato. Mi allungai con uno sforzo riuscendo a impugnare la magnum. Lupino si rialzava in quel momento.
Sparai e la figura si piegò su se stessa. Volevo essere sicuro che rimanesse a terra. La Valchiria era una brutta bestia: sembrava tramutare gli uomini in zombie indemoniati.
Gli scaricai addosso tutto quello che rimaneva nel caricatore. Premetti il grilletto una decina di volte ancora dopo che gli otto colpi furono terminati da un pezzo.

utero di sangue




Quando il tempo riprese a scorrere a velocità normale mi aprì la nuca contro il piedistallo della fontana, che avevo raggiunto lanciato come un angelo in caduta. Il sangue caldo e vischioso sgorgò dal taglio fino al collo e giù lungo la schiena, mentre il calore violento dell’universo attorno si faceva strada nella mia carne. Arrostito a fuoco lento, non mi avrebbero nemmeno dato il colpo di grazia. Lupino e i suoi mi avrebbero guardato cuocermi come un maialino allo spiedo. Non capì se ero stordito per la stanchezza, il fumo, le pillole o l’ingente perdita di sangue delle ultime ore ma non potevo assopirmi.
Abbandonai a terra la magnum che stringevo nella mano destra e cercai a tentoni il bordo della vasca. La spalla era quella buona e mi issai arrivando faticosamente a metà del traguardo. Raccolsi le gambe, senza forza, e con un’ultima spinta affondai nel sangue. I rumori, il vociare profondo del fuoco, il crepitare del legno delle travi del controsoffitto che iniziavano a cedere, si fecero d’un tratto distanti. Dentro quell’utero di sangue, la pressoché totale assenza di gravità mi aiutò a mondare il peso assillante del dolore e della stanchezza e l’acqua fredda mi fece tornare lucido.
Sentivo il cuore pulsare nella ferita sulla mia testa. Lo presi come la possibilità di liberarla dalle preoccupazioni di troppo che avrebbero potuto rallentare.
Riaffiorai nel cuore di una fornace incandescente.
Il sangue mi schizzò via in rivoli generosi e grosse lacrime. Dal biancore degli occhi del malavitoso seguace di Lupino compresi che lui aveva visto quello nei miei e non se ne era innamorato.
La Desert Eagle sparò per due, con la magnum che avevo lasciato in preda alla fiamme sul pavimento di quel forno crematorio. Esplosi un colpo dopo l’altro senza fare calcoli. Travolsi quel povero diavolo con una tormenta di piombo che non si era ancora meritato. Volevo solo finire lo schema e mettere in pausa prima di raggiungere il mostro di fine livello. L’uomo cadde oltre la passerella e l’inferno lo inghiottì, pacificando il suo grido.
Mi scrollai via il cocktail di sangue e acqua come un cane appena riemerso da una pozzanghera. Raccolsi la magnum e ricaricai.

fuoco dal cielo

                   


«Figlio di puttana!» esclamai. Ancora confuso dai fumi di incenso, la nenia monotona senza fine, la spossatezza, credetti di aver fatto un giro completo del locale e di essere tornato al punto di partenza. Anche se sapevo che non era possibile, non riuscì subito a smettere di credere che potesse essere vero.
Eppure, i dettagli.
Furono i dettagli a convincermi di non trovarmi più nella sala a cattedrale. Le navate, quelle c’erano ancora, erano adornate da drappi neri lunghi fino a terra, un tessuto così leggero da muoversi senza aliti di vento. Bastava che qualcuno respirasse dall’altra parte della stanza. Ci vedevo attraverso. Al centro della navata maggiore, una fontana riempiva una vasca con un liquido denso e scuro, dalle sfumature rossastre. Due lunghe file di alti candelabri facevano tremolare le ombre del mondo dai gambi sghembi di candele sfinite. Dove più facilmente ci si sarebbe aspettato di trovare un altare di marmo bianco e un sacerdote dalla lunga tunica, scendeva invece un pesante sipario color pece. In quella scelta cromatica da immortale figlio di Vlad L’Impalatore, solo la moquette che ricopriva la navata centrale, costituiva una variazione sul tema. Dava certamente più colore all’insieme, ma nel modo sbagliato. Era di colore rosso vivo, come il sangue nei polizieschi di serie B.
Me ne stavo ancora fermo ad ammirare quello scenario che un bagliore attraversò il mio campo visivo e una fiammata avanzò verso di me. L’odore di alcol mi colpì come un pugno quando una seconda stella cometa annunciò la venuta di tre vecchi stronzi con una manciata di doni. La seconda molotov si frantumò più vicino e una frastagliata macchia di fuoco mi investì le gambe. Mi scansai mentre un’altra di quelle bombe artigianali mi sfiorava la schiena come il brivido inatteso di una pessima notizia. In una manciata di istanti l’inferno che Lupino auspicava era diventato realtà.
Il fuoco avvampò divorando tutto ciò che si trovava sulla sua strada. La pioggia incendiaria scendeva da alcuni ponteggi dall’alto controsoffitto spiovente. Il buio, la distanza a cui si trovavano e la luce accecante del fuoco mi impedivano di vedere quanti fossero a lanciare anche se era chiaro che si fossero appostati in tre punti diversi. Le molotov continuavano a cadere giù a ritmo serrato, in parabole ampie e maestose.
Lupino mi aveva preparato un funerale vichingo.
Grazie ma non ne ero degno. Qualcuno lo avrebbe lo meritava prima di me.
Il fuoco ruggiva. Pareti di fiamme si ersero quando raggiungendo i drappi sottesi tra le navate. Il calore mi prendeva a schiaffi per dritto e per rovescio. C’era solo un modo per non trasformarmi in una torcia umana: fare un bel tuffo nella fontana, dove il sangue che ancora usciva dai miei graffi si sarebbe unito a quello delle vittime di Lupino. Ecco Max Payne, precipitato nel più caldo girone dell’inferno.
Troppo tardi, ragazzi. La mia vita era già un inferno a occhi aperti. Al massimo potevo cogliere l’occasione di un bel barbecue.
Rivolsi la magnum verso uno dei ballatoi e sparai. Centrai soltanto una della bottiglie in caduta e una fiammata di vetro, alcol e scintille si sfogò attorno a me. Il mio secondo proiettile si conficcò in una balaustra di legno, ma almeno riuscì a distrarre tanto l’uomo lassù da interrompere momentaneamente quello suo scagliare di fulmini e saette. Con la visuale liberata dal riverbero delle fiamme individuai meglio il mio avversario. Il terzo centrò il tizio sulla passerella e lo spinse a farmi vedere come gli veniva bene l’imitazione di un uomo che cade.
E fu davvero bravo, molto convincente.
Dopo un minuto il cadavere fu completamente avvolto dalle fiamme. Mi spostai nell’ombra del ballatoio ora liberato per poter dominare l’area di scontro. Gli altri due tizi sarebbero stati adesso costretti ad allungare la gittata dei loro lanci e molte bottiglie, infatti, finirono in frantumi contro la passerella, dando vita a una pioggerella di fiamme liquide. Un sipario di perline tremolanti che contribuirono a sottrarmi alla loro mira.
Prima che la aggiustassero ammazzai il lanciatore di fronte a me. Non spiccò il volo ma si abbandonò, spossato, in una posa esausta. L’ultima molotov, già incendiata, finì ad alimentare quelle ancora inerti accanto a lui. Una vampata si elevò come un’erezione gloriosa inghiottendo la passerella e tutti i suoi occupanti.
Peccato che fu un’esibizione che non potei vedere.
Mentre freddavo il tizio sulla seconda balaustra, regalandogli un posto in prima fila per quel capodanno anticipato, una bottiglia mi colpì in pieno petto, rintoccando sullo sterno. La mia fortuna volle che non si ruppe subito.
L’ordigno volteggiò per quello che credetti mezzo secolo. La forza centrifuga teneva il liquido lontano dalla stoffa incendiata. La fiamma azzurrognola era simile al bagliore degli incantesimi della strega nella fiaba preferita della mia piccola Rose. Aveva l’aspetto di una natura mortale ma si trattava solo di una finzione scenica. Avrei potuto passarci le dita in mezzo e non mi sarei bruciato, ne ero ormai certo. La bottiglia ebbe il tempo di rigirarsi in aria cinque volte, le contai, prima di fracassarsi sul pavimento. Io avevo deciso intanto di proiettarmi di lato e mentre il dolore nel petto finalmente arrivava a destinazione togliendomi il fiato con una pugnalata, l’innesco della molotov liberò un ragno di fuoco che si allungò sul pavimento con le sue mille zampette pelose, pronto all’attacco.

uno spietato vendicatore solitario



Se Lupino stesse spianando la strada alla seminfermità mentale per quando gli avrebbero finalmente messo le manette ai polsi o avesse ormai oltrepassato il confine della follia lo avrei scoperto solo quando me lo sarei trovato davanti. Fino a quel momento dovevo agire pensando allo scenario peggiore. Jack Lupino era convinto di essere un figlio della Bestia, perciò immortale e onnipotente. Chi pensa a un piano B per quando verrà arrestato, invece, ha anche paura di morire, come un vero essere umano.
L’ufficio di Lupino proseguiva in un corridoio angusto, finendo per inerpicarsi in un’affusolata scala a chiocciola, perfetta per farsi sparare nella nuca e morire in ginocchio.
Mentre salivo, la polvere che cadeva attraverso i gradini di metallo forati mi irritò gli occhi e li riempì di lacrime. Me li strofinai con mani ancora più lerce ma l’anima gridava più forte una sofferenza che non si sarebbe placata con qualche zuccherino. D’altronde, un corpo non può sopravvivere senza anima e a me non andava di essere solo un bel sacco di carne, seppur affascinante, come non smetteva di ricordare mia madre a tutte le amiche del bridge del martedì sera.
Sbucai proprio dietro il quadro dell’impianto luci. Mi orientai grazie al grande occhio azzurro che torreggiava nella prima sala. Una serie di passerelle traballanti sospese a corde si perdevano nella fitta oscurità della volta. Il retropalco doveva condurre verso il santuario di Lupino. L’aria irrespirabile sembrava innalzare muri invisibili, fortificati dall’odore di un incenso dolciastro e appiccicoso come resina.
Era quello il cuore in putrefazione della Grande Mela. Lupino doveva essere vicino, come un ragno al centro della sua ragnatela, in attesa. I vapori di incenso mi facevano girare la testa. Su un divano c’erano resti di una lettera strappata. Puncinello aveva messo in guardia Lupino. La missiva era stata accartocciata ed era ricoperta di sangue.

“Non voglio nemmeno pensare che uno dei miei uomini non stia al gioco. Ricorda, Jack, che stiamo concludendo un affare. Non vorrei essere costretto a mandarti il Trio a farti visita.”

Il Trio erano gli uomini di fiducia del capofamiglia. Era chiaro che Lupino non si era lasciato intimidire dalla minaccia. Gli appunti di Lupino ricoprivano il tavolo. A Jack mancava sicuramente qualche rotella. I fogli erano scritti col sangue e parlavano di demoni, magia nera, cerimonie arcane ed evocazioni di antiche divinità.  Al centro della stanza un altro pentacolo circoscritto da cinque candelabri.

“Belzebub, Asmodeus, Baphomet, Lucifero, Loki, Cthulhu, Lilith Hela…scorra il sangue per tutti voi.”
Voleva seguire le orme di Faust: la sua anima in cambio di potere e ricchezza. Basta firmare con il sangue sulla linea tratteggiata.
Jack Lupino era un pazzo furioso.

“Lupi mannari sorgete per divorare il Sole e la Luna! Io sono il lupo, io sono la Bestia, io sono il Signor-Fine-Del-Mondo! Io sono colui che indossa la carne degli Angeli decaduti!”

Dopo l’anno duemila, la fine del mondo era un cliché abbastanza comune. Ma chi ero io per parlare? Uno spietato vendicatore solitario soverchiato dalla lapide della Giustizia.
Distolsi l’attenzione da quella lettura così coinvolgente e per un momento continuai a sentire le invocazioni che mi erano appena passate sotto gli occhi.

ASMODEUS.
BAPHOMET.
LUCIFERO.

No, non si trattava dell’eco nella mia testa ma di una nenia precisa.

LILITH HELA.

Avevano organizzato un Sabbath e si erano dimenticati di invitarmi.
Monotona e ripetitiva stancava e cullava le orecchie.
Mi si rizzarono i capelli.
La voce, le voci, non sapevo più quante scandivano il nome di divinità norrene, inneggiavano al sacrificio rituale, declinavano il nome dell’Angelo decaduto e…ringhiavano.
Ringhiavano.
Gesù Cristo.
Cosa avrei trovato in fondo a quel sentiero di simboli esoterici, croci capovolte e sequenze numeriche scritte nel sangue?
Riconobbi alcune scritte in ebraico, l’inchiostro era colato giù dalla traccia striando le pareti di lacrime vermiglie. Non azzardai neppure per un istante ad appoggiarmi alle pareti. Filai dritto verso quel coro inquietante e irresistibile. Mi scrollai la stanchezza dalla testa scuotendola nervosamente. Il soffocante odore di incenso si accoccolava sulle palpebre come un torpore invitante. Tentando di tenere aperti gli occhi li spalancai. Se avessi sentito arrivare uno sbadiglio avrei affondato le unghie nei palmi.
Ecco come le sette raccoglievano seguaci, come li persuadevano a credere in una realtà deviata e a rifiutare altro che fosse ragionevole. Le tecniche di ipnosi non venivano insegnate da un pezzo all’accademia di Polizia ma un veterano mi aveva mostrato i trucchi principali durante gli appostamenti. Guardare dentro la testa di un sospettato era molto utile per ottenere risposte e conferme. Ma i vertici della polizia e la giustizia, oltre alle varie associazioni per i diritti dell’individuo, non furono dello stesso parere quando arrivò il momento di decidere se abolirle o metterle al servizio della comunità. Restava il fatto che lo smarrimento temporaneo della coscienza di se stessi e dello scorrere regolare del tempo erano ancora mezzi potenti per chi voleva spingere una convinzione nella testa di qualcuno e convincerlo che fosse tutta farina del suo sacco.
Avevo così fretta di prendere una boccata d’aria nuova che mi lanciai verso la fine del corridoio senza verificare di avere campo libero. Per lo meno mi ci fiondai spianando la Desert Eagle e la Magnum. 

latte e biscotti






Mentre ero impegnato a disquisire di teologia di fronte a un pubblico invisibile e annichilito da tanta sagacia, dietro al bancone si manifestò una presenza.

«Ehi, latte e biscotti sono per il nonnetto con la pancia e tanta voglia di ridere. Per i folletti non c’è nulla!» gridai in direzione dell’ombra accucciata dietro il vano spine, facendo attenzione che non gli sfuggisse la mia pistola puntata addosso.

«Sei quel tizio, giusto? Il traditore.» non riconobbi la voce. Non ero mai riuscito ad avvicinarmi tanto a Lupino e alla sua gente.

«Vuoi scrivere la mia biografia?»

«No, ma non voglio nemmeno ammazzare un povero Cristo che si è intrufolato qua per sbaglio al posto di un pezzo di merda che se lo merita sul serio!»

«Capisco, tu sei il buon samaritano del gruppo.»

«Sbagli: sono quello che ti sventra e ti fa una bella cravatta con le budella.»

«Dolente ma rifiuto l’offerta: non si intonerebbe con le scarpe. Te ne voglio fare una io, invece: passami garbatamente i tuoi ferri e dimmi dov’è Jack. Potrai vivere un altro giorno e cercarti un lavoro onesto. Combiniamo?»

«Dico che sarà Jack a trovarti e quando lo farà, ti divorerà!» l’uomo tentò di saltare al di qua del bancone ma lo convinsi a desistere sparandogli al cuore. Quel colpo fu sufficiente ad ammazzarlo ma vista l’aura esoterica del posto, con altri tre proiettili mi assicurai di non vederlo riapparire con sguardo vacuo e un morso contagioso.

In giro, nessun altro.

Non potevo nascondere che fossi un po’deluso per la scarsa vigilanza del quartier generale di Lupino, uno dei feudi più importanti della ragnatela criminale di Puncinello. Onestamente mi sarei sentito più tranquillo se ad aspettarmi fossero stati in sessanta, scatenati e bramosi di strapparmi per primo lo scalpo dalla testa. Quella calma era imprevista e dovevo guardarci dentro per adattarmi. Sperando di trovare tutti assiepati dietro un angolo superai il cadavere e infilai una porta nel retro.

Finii in una stanza addobbata da scritte come: NECRONOMICON, MAGIA NERA e PARADISO PERDUTO. Anche i titoli dei libri sulla scrivania parlavano da soli: MALLEUS MALEFICARUM piuttosto che DE DIVINA MALEVOLENTIA IN MORTIBUS VIOLENTIS.

Libri con pentagrammi in copertina, tutti sull’occulto e l’infernale, in mezzo a pile di video dell’orrore. L’unico motivo per dar loro importanza era che Lupino sembrasse prenderli sul serio. Doveva aver speso un sacco di tempo per farsi amico il tipo di sotto.

Sul muro dietro la scrivana, con una tintura rossa sbaffata lo stesso Lupino aveva dipinto due cuori spezzati e delle stelle che sormontavano un teschio dalla bocca aperta, immortalato in un atroce grido di dolore.









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Satana il Grande







Attigua alla sala con l’enorme occhio azzurro di Dio/Krishna/Odino/la Provvidenza, ce n’era una seconda, delle medesime dimensioni ma senza più navate da cattedrale e quel tono Dark così ilare. Lì, l’architetto aveva invece deciso di ingaggiare degli artisti contemporanei muniti di bombolette spray e disprezzo per l’autorità costituita. I graffiti riempivano ogni centimetro di parete e una sensazione di abbandono e disagio mi si insinuò sotto pelle. Non che avessi particolari pregiudizi in merito. Non erano i bravi ragazzi con la voglia di esprimersi a scegliere i muri del Ragna Rock come tela su cui dipingere anima e sogni. I bravi ragazzi che volevano far ascoltare al mondo la loro voce finivano al massimo folgorati sui binari della metropolitana o investiti in qualche galleria dall’ultimo treno della notte. Quelli che si intrufolavano in posti come il quartier generale di Lupino avevano già imboccato la strada del crimine da un pezzo. Quelli che finiscono freddati in una sparatoria con la polizia e poi diventano martiri per la comunità, per intenderci. La stessa comunità che aveva pianto ed era scesa in strada in fiaccolate contro lo spaccio di droga davanti alle scuole e nei parchi pubblici.
La vita è una grande abbuffata di ironia senza pudore.
Per siglare la sua opera, l’architetto aveva deciso di coprire il pavimento vergando un grande pentacolo. I bordi erano imprecisi e le pennellate, frettolose, cariche di vernice.
Non ero un esperto di occultismo quanto non lo fossi di lavoro a maglia ma c’erano buone probabilità che quel pavimento non sarebbe finito sulla copertina di Vogue come opera d’arte del mese. Come la maggior parte dei simboli umani, anche il Pentacolo era sempre stato governato dall’ambiguità. I simboli non sono altro che contenitori di significato, in fondo. E ognuno ci versa quello che preferisce bersi.
Le cinque punte che lo compongono rappresentano gli elementi naturali (acqua, terra, fuoco, aria) e lo spirito (fosse esso inteso come l’Anima, dio o l’Universo), in quasi tutti i credi religiosi e le filosofie che lo hanno adottato.
 E sempre gli uomini, ad un certo punto, decisero che a seconda dell’orientamento del pentacolo questo si sarebbe ammantato di connotazioni positive o negative.
Il Pentacolo con la quinta punta, quella dello spirito, rivolta verso il basso rappresentava il dominio della natura sulla spiritualità e sull’anima e, per una forzatura squisitamente di parte, uno sgarbo allo spirito per eccellenza: Dio e i suoi cherubini cantanti. Un inno fatto di un unico verso gridato a squarciagola: SATANA È GRANDE!
Per quello che mi riguardava, non ero più un grosso fan di Gesù e famiglia e non ero a mio agio in mezzo al fanatismo in generale. Per mettere bene i puntini sulle “i”, le cause di maggior dolore nella storia dell’umanità sono sempre arrivate da coloro che avevano professato l’amore fraterno e il bene superiore. Non certo quattro disadattati adoratori del demonio capaci di sgozzare capretti e violare un paio di vergini. Ma oltre il mio scetticismo, sapevo che a giocare con le forze oscure non si facevano buoni affari: a volte Lucifero la cornetta la alza.






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venerdì 15 novembre 2019

Ragnarock




Ragna Rock era il club privato di Lupino. Un bazar della droga all’interno di un vecchio teatro. Sapevo quello che mi avrebbe atteso all’interno: squilibrati strafatti capaci di esplodere in atti di violenza senza senso.
Oltre alla guardia personale di Lupino. I killer più spietati in circolazione.
RagnaRock era invitante quanto un’emicrania perforante, con il suo assalto di luci e musica senza inizio né fine.
Il cuore del locale era un’area ricreativa gotica con giochetti sadomaso e un sacco di altre degenerazioni simili. Penetrante col suo subdolo messaggio oscuro come un proiettile nel cuore.
Nel nome del padre, nel nome del figlio, nel nome di Jack Lupino.
Trovai la strada spianata dal primo passo nel quartiere a quello nel suo club.
Dato che era la prima volta che mi capitava quella notte, lo trovai singolare. Avrebbero potuto seccare lo sbirro alla porta, fargli schizzare via il cervello dalla testa, levarsi il proverbiale cazzo dal culo senza pensarci troppo. Ma non accadde. Se non fossi stato ottenebrato agli antidolorifici che avevo tracannato avidamente, avrei sentito probabilmente il dolore penetrante della delusione cocente.
Il lato del guardaroba, subito a destra dell’ingresso, era sgombro e privo di pericoli. Lupino era a un passo, lo sentivo. C’era qualcosa di impalpabile nell’aria, una patina che la rendeva pesante e irrespirabile. La sentivo addosso come una coperta.
Anche il grande atrio era deserto. Deserto e avvolto in un’oscurità tenuta lontana solamente dalle fiammelle tremolanti di alcune candele. Non potevo credere che Lupino si fosse sniffato anche il denaro delle bollette e avesse dovuto ricadere su uno stile pre-rivoluzione industriale. Sembrava una di quelle case stregate che si trovano alle fiere di paese. Aspettavo da un momento all’altro l’inizio della giostra: fantasmi di cartone che spuntavano dagli angoli, grida registrate, ghiaccio secco a tonnellate e sciroppo di lamponi a gocciolare dai lampadari. Distinta ma lontana, una noiosa nenia. Poteva essere il vento.
Proseguì nella battuta di caccia al Lupino e mi infilai in una stanza sulla sinistra. Per stanare una colonia di topi di fogna di solito preferivo partire dalla periferia e non lasciarne indietro nemmeno uno. Quell’uno che mi avrebbe con molta probabilità finito per sparare in mezzo alla schiena.
Giunsi a un magazzino di alcolici che somigliava più alla cantina di una vecchia enoteca.
Non c’erano candele ma la luce era soffusa e inefficace a combattere con autorevolezza l’oscurità imperante. Scansie a parete e portabottiglie impolverati circondavano un grosso tavolo di legno. Sopra di esso un libro, la copertina in pelle mordicchiata dal tempo e dall’umidità.
A giudicare dal luogo era sorprendente che qualcuno avesse anche solo mai pensato di leggere qualcosa. Il libro era intitolato “L’età della morte e della tempesta”.
Lo sfogliai.
Parlava dei miti nordici e del Ragnarok, giorno in cui, secondo le credenze vichinghe, sarebbe giunta la fine del mondo. La terra si sarebbe ricoperta di ghiaccio e gli uomini avrebbero perso il loro ultimo barlume di umanità.
Compresi come qualcuno potesse pensare che stesse davvero arrivando la fine del mondo. E, al tempo stesso, iniziavo a capire quale fosse il vero significato di un locale del genere.
Ma qualcosa mi diceva che non era sufficiente una spolverata di inverno per trasfigurare gli uomini in diavoli. La verità, quella cruda e spietata, era che gli uomini, mostri lo sono stati sempre, fin dal loro principio. Qualsiasi tempo il Signore avesse deciso di mandare giù.
Le favole della buonanotte vanno bene finché la realtà non viene a farti visita, senza preavviso.
Il mondo è il vero mostro nascosto sotto il letto e quando ti afferra per il piedino che hai lasciato incauto a penzolare e ti trascina giù con sé, non basta più tirarsi le coperte fino al mento e sperare che passi. Puoi solo illuderti che quel momento arrivi il più tardi possibile.
Ma arriverà, prima o poi, questo è certo.
Potrebbe avere il volto deformato dall’alcol di un padre che torna a casa ubriaco e incazzato con la cinghia arrotolata nel pugno; potrebbe indossare la targhetta e la cartellina sottobraccio di un assistente sociale; potrebbe avere una pistola e sedere nel banco vicino al tuo, aspettare che tutti si mettano a sedere e l’insegnante inizi la lezione; potrebbe avere il sorriso suadente di un amico che ti porge mezzo grammo di roba al parco giochi oppure potrebbero essere tre squilibrati strafatti che penetrano in quel nido che avevi faticosamente costruito, in cui avevi promesso che sarebbero state al sicuro per sempre, e fare a brandelli la tua vita come un foglio di carta.
Abbandonai quella lettura allegra e me ne andai.
Il magazzino di alcolici dava sul retro di una postazione bar di una della sale-concerto del RagnaRock, la quale poteva arrivare a contenere almeno duecento individui sudati e ingrifati che si strusciavano uno addosso all’altro. In quel momento era vuota.
L’ambiente si sviluppava come una vecchia cattedrale gotica: un’ampia navata centrale e due più piccole ai lati, delimitate da altrettante file di colonne. Imponenti, fendevano l’alto soffitto a dieci metri sopra la mia testa. Delle reti da pollaio erano state fissate tra un arco e l’altro. Un gigantesco occhio azzurro dipinto sopra l’architrave principale dominava su tutto. L’impianto luci, re degli effetti stroboscopici delle serate a base di musica techno e malattie veneree, era sospeso sulla pista mentre un soppalco di legno correva lungo le tre navate con il suo strascico di fili elettrici, corde arrotolate come serpenti e jack penzolanti. Murales e lucine intermittenti completavano il quadro.
In fondo alla navata principale, al limitare del palco, fiammate di scena incendiavano il buio. Candele e candelabri in ferro battuto in arzigogoli sinistri, davano all’insieme un sapore di messa satanica.
E non c’è messa satanica senza una vittima sacrificale.
Probabilmente mi aveva scambiato per il suo capro espiatorio l’uomo che spuntò dal buio del soppalco riversandomi contro un rosario di piombo.
Riparai dietro il bancone mentre bicchieri e bottiglie andavano in frantumi e l’alcol schizzava dipingendo arcobaleni. Sparai per fargli compagnia ma il proiettile sghettò una delle colonne portandosi via un pezzo di spigolo e ne persi la traiettoria. Dal tipo uscì un gemito infelice. Mentre alzavo la testa per guardare, l’uomo si sporse oltre la balaustra tenendosi la spalla con una mano. Volò giù con un carpiato magistrale prima che potessi dirgli di stare attento al gradino. Il tonfo spaccato che il suo corpo produsse fu quello di un sacco di carne lacerata e rami spezzati dal vento.
Il rumore non portò nessuno dei suoi compagni ad affacciarsi per vedere se fosse rimasto qualcosa da mettere dentro una scatola e, nell’eventualità, spararmi. Fui io ad andarli a cercare, i guai. 






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