Alessio Chiadini Beuri: Dentro il libro e oltre: Il duro del Lisander & I tre giorni del Coguaro

venerdì 11 dicembre 2020

Dentro il libro e oltre: Il duro del Lisander & I tre giorni del Coguaro

 


Ne "Il duro del Lisander", poco dopo che Enrico fa ritorno dal bar in cui era convinto di trovare l’inquilina del terzo piano intenta ad aperativiggiare, lo vediamo andare a prendere il sol…studiare duro sul tetto del condominio.

Credo si trattasse di un giorno di primavera quando io, l’autore delle prefazione all’edizione 2020 (Marco Guardanti) e Sir Giorgio, decidemmo di esplorare il condominio da cima a fondo (in casa non avevamo internet e prima dell’avvento del digitale terrestre probabilmente tutto ciò che proponevano i palinsesti per rallegrare il nostro pomeriggio annoiato, ci faceva cagare). Esplorammo gli scantinati bardati come avventurieri (anche se anagraficamente l’infanzia avrebbe dovuto abbandonarci da un pezzo, una scheggia di quella magia ci è rimasta conficcata dentro e brilla intensamente ogni volta che ci ricordiamo di essere stupidi e di non avere una reputazione da difendere a tutti i costi. Io non ce l’ho mai avuta, Marco e Giorgio, probabilmente, ora sì). Le cantine non ci regalarono grandi aneddoti e non ne ricavammo che tetano ma il tetto ci diede soddisfazioni. Quella, ad esempio, di vedere Giorgio frustato a sangue da un estensore per pettorali, non prima però di averlo ammirato prodigarsi in un vero stunt da duri da film d’azione (immaginatevi quando Tango e Cash evadono dal carcere di massima sicurezza gettandosi dal tetto dell’edificio con l’ausilio dei cavi dell’alta tensione e della loro cintura). 


È bello esserci stato e avere assistito allo spettacolo. Giorgio ha sempre avuto tutte le caratteristiche giuste da portarci a pensare che fosse un genio assoluto, filosofo, artista e viveur, campione di imprese che se le avessi affrontato io, sarei morto quasi certamente alla seconda. Quando mi permetterà di scrivere il libro della sua vita ne vedremo delle belle. 

Quel tetto, poi, lo usammo per un aperitivo tra colleghi di università. Faceva un freddo che pelava (ndr. gran freddo). Quando ci venne a trovare Miguel, invece, facemmo le foto saltanti. In cosa consistono? Nel farsi fotografare mentre si compie un salto assumendo però un atteggiamento normale, come se si stesse facendo altro. Il risultato è esilarante. Mettersi a saltare sul tetto, un’idea che non smette di sfoggiare furbizia anche dopo anni. Abbiamo mancato i Darwin Awards per un soffio, lo so.

Scusate la rozzezza della foto ma non ho avuto tempo di definirla e migliorarla!
-Tranquillo, Doc!


In questo capitolo c’è una delle descrizioni di Tetteballerine che mi sono più care perchè in una manciata di parole sono riuscito ad esprimerne la possanza fisica, l’agilità e l’arroganza guerriera. 

“…è una macchina da guerra praticamente inarrestabile che quando nevica e la città è bloccata dal ghiaccio corre a frustare lo Yeti con l'asciugamani. È un Legolas con le braccia di The Rock.”

Se Tette’ fosse un personaggio dei videogiochi sarebbe il cimmero con l’ascia, ignorante come un rutto e devastante come un D20.


Al tempo di Facebook, MSN, Badoo, dei profili Fake e di Lesbiche che spadroneggiavano su chat in tumulto, il single disperato invocava il soccorso di un eroe per riconquistare la libertà. Finalmente arrivò Hitch, l'incredibile principe di Bel Air forgiato dal fuoco di mille battaglie. Le dichiarazioni di cuore, le sfrenate passioni, gli appuntamenti al buio furono affrontati con indomito coraggio da colui che, solo, poteva cambiare il mondo.

Tutto ciò avvenne in un’era giurassica in cui i social non erano quello che sono oggi e il bipede maschio era ancora costretto a spingersi fuori dalla sua caverna per procacciarsi ciò che gli serviva. Quando vidi al cinema Hitch ci andai con mia madre, ed ero ancora un cucciolo di uomo che doveva dimostrare alla tribù il suo valore e conquistarsi il titolo di guerriero. Con mio padre andavo a vedere solo film di guerra e polizieschi. Praticamente, finché mio fratello ed io non abbiamo avuto l’età per toglierci dai coglioni, è stato nostro il merito di far sì che i nostri genitori continuassero a vedere film al cinema.

Così portai mia mamma a vedere il film di Will Smith anche se, fisicamente, fu lei a portare me. Il 2005 era un periodaccio di merda, la stessa merda che avevo masticato gli anni prima con la differenza che quell’anno era un anno in più di merda da mandare giù. La trafila della mia situazione sentimentale desertica andava avanti da più o meno 5 anni (tutti gli anni del liceo, senza saltarne nemmeno uno), proprio quando le giovani donzelle che percorrevano insieme a me gli stessi corridoi della scuola sbocciavano e fiorivano nella loro forma migliore, producendo in me e nei miei compagni una processo di extra salivazione costante. Il morale della favola fu che tutto ciò che arrivai a scorticarmi al liceo furono le cornee, per il troppo guardare, perché non riuscì a fare che quello. Ciò era causato anche dal fatto che lo sviluppo, nei maschi rispetto che nelle femmine, si traduce in periodi di bruttezza atomica e di mancanza d’identità ben formata che ti regalano una profondità di concetti e interessi da sfoggiare pari a zero. 

E quello ero io, senza ombra di dubbio. 

Il liceo è per me è stato come scartare un regalo di Natale tanto desiderato e non poterci giocare. Tra l’altro non avevo la minima idea di come avvicinare una ragazza, farla interessare a me, figuriamoci di convincerla a cedermi il suo fiore a tempo indeterminato (ho sempre cercato solo storie serie e durature, l’amore della vita che trovi a che non lasci più, con cui costruisci una famiglia, fai progetti, realizzi i sogni). Ero brutto, scrivevo poesie smielate, ascoltavo musica vecchia (non vecchia come quella classica che comunque ti dà un certo tono con il gentil sesso ma nel senso che non conosceva nessuno) impedendomi così degli spunti di conversazione, non ero politicamente impegnato e non avevo talenti apprezzabili che potessero farmi spiccare. Un disastro, insomma. 

Almeno vi garantisco di aver vissuto le storie d’amore più belle, accese e perfette come mai altri vissero. Nella mia testa.

Hitch, dicevamo: ben scritto, ben interpretato, ottima risorsa per citazioni nella vita di tutti i giorni. Lo guardai avidamente, la prima volta, con un bloc-notes mentale fatto di granito, pronto a uscire dal cinema e fare strage di cuori, finalmente dotto su quel grande mistero dell’universo: le donne. E invece, infrangendo la quarta parete, proprio appena prima che il sipario si chiuda e lo schermo vada a nero, Will Smith si volta verso il pubblico del cinema e parlando a me, ne sono certo, dice: “Regole fondamentali? Non esistono!” sfanculando le due ore appena passate e polverizzando il taccuino forgiato nel granito. Mi hai fregato Will, non si fa così, da te non me lo aspettavo proprio, e dire che ho rinunciato alle lezioni di canto perché coincidevano con la messa in onda di Willy il Principe di Bel Air. Adesso avrei potuto solcare i palcoscenici di mezzo pianeta e fare la vita dissoluta del rocker.


Devo dire che, dopo il liceo, la fortuna ha girato e qualche soddisfazione è arrivata. O forse è la legge dei grandi numeri che, prima o poi ti tocca, come l’esame della prostata.

L’aneddoto su “La mamma” è preso pari pari così come si è svolto in realtà, quindi vi invito ad andarlo a leggere nel romanzo. Ma la questione dei primi appuntamenti, quella sì, è roba seria. Cerco sempre di mettermi nei panni di coloro con cui ho a che fare e, quando riesco, a comprenderli e vedermi con i loro occhi. Non è mai un’esperienza edificante, purtroppo, ma non ho mai avuto problemi a fare amicizia o instaurare dei legami sociali, più o meno superficiali, quindi vuol dire che quello che vedevo di me e che non mi piaceva, per tutti gli altri non era poi così limitante. Quello, oppure sono in grado di mascherare bene i miei innumerevoli difetti e contraddizioni. Chi lo sa, chiederete al mio terapista, quando si sarà ripreso dalla crisi di nervi.

Anche il “colpo alla Fonzie” mi è riuscito davvero ma ammetto che sia stata solo questione di culo e che non avessi nessuna idea di quello che stavo facendo.

Arriviamo di corsa a una creatura mitologica che vive in mezzo a tutti noi e che io ho incontrato molte volte: la donna LEGO. La disciplina è sempre quella dell’antropologia urbana di mio conio e l’oggetto di studio è costituito da quel genere di ragazza che, all’interno di una storia o di una frequentazione amorosa con un altro essere vivente, non si pone mai all’interno di quell’equazione chiamata “relazione”. Come i pezzi del Lego, che si possono sostituire con altri di altro colore e ricreare sempre la stessa costruzione. Sono mattoncini colorati intercambiabili proprio perché quando il rapporto non funziona, va in pezzi, si sfascia, la colpa è sempre attribuita all’altro per sue manifeste mancanze, e solo sue, quando invece un vecchio adagio recita che un fiume ha bisogno di due sponde. Voi ne avete mai incontrati, di esseri-LEGO, sia uomini che donne, per cui l’uomo è solo un maiale e la donna solo una troia e che la relazione avrebbe vomitato merda come un cesso intasato anche se al posto suo ci fosse stata qualsiasi altra persona?

Sono insopportabili.


“Il duro del Lisander” si apre con Sharp dressed man by ZZ Top mentre “I tre giorni del coguaro” con Love Train by The O’Jays. Il primo è un brano rock del 1983 e l’ho scelto perché fa tanto videoclip anni 80 con quell’accompagnamento di chitarra elettrica. Se fossimo in un film questa sarebbe la scena che ci racconta, senza parole, che tipo sia il nostro protagonista. Per come la vedo io, Enrico indosserebbe un paio di rayban wayfarer, l’inquadratura dal basso verso l’alto a riprendere tutta la sua gloriosa camminata sul tetto del condominio, il walkman infilato nel costume da bagno, lo sdraio sotto braccio e tutto il mondo ai suoi piedi. Il classico figo che nei film affronta i guai con risolutezza ma senza perdere mai il suo senso dell’umorismo, che buca lo schermo. Mentre leggete il capitolo, fate partire la musica, sono sicuro che mi darete ragione.


Love Train è, invece, un pezzo R&B del 1972 e i toni cambiano in modo drastico. Prima di tutto arriva direttamente dalla soundtrack di Hitch, da cui “I tre giorni del Coguaro” prende il cuore. Volevo descrivere l’immensa pluralità caotica che Enrico lamenta quando parla di social e di come abbiano rimpicciolito il mondo e accorciato le distanze tra le persone. Possibilità amorose che fino al giorno prima sarebbe state irraggiungibili diventano a portata di mano e in quel mondo che ruota così veloce è facile perdere il ritmo e farsi staccare. È una realtà colorata di infinite possibilità che abbacina e può farti perdere i sensi se non vissuta nella maniera giusta. Il brano è gioioso e godibile e suggerisce a noi come al protagonista, il giusto mood per affrontare quelle novità. Con sorriso, leggerezza e zero ansia, che non ce n'è proprio bisogno.




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