Alessio Chiadini Beuri: Ora d'aria

giovedì 14 novembre 2019

Ora d'aria







«Rosso, blu o verde?» La voce era ovattata ma le parole mi arrivarono distinte. Guardai: fuori, sul tetto del palazzo di fronte, due uomini armeggiavano attorno a una porta di servizio, indaffarati come non mai.
«Nei film polizieschi è sempre rosso o blu.» rispose il secondo.
Il vento e la neve tentavano di portarsi via le loro voci.
Mi avvicinai alla finestra. Non la aprii per non coprire quel dialogo notturno con il rumore che avrebbe fatto. Nel riflesso del vetro vidi la mia espressione accigliata.
Che stavano combinando quei due?
Non era un po’ presto per tirare a sorte chi avrebbe dovuto sacrificarsi per il destino del mondo?
«Allora vada per il verde? Splendido!»
«No, no!» non fu capace di finire la frase perché l’esplosione gli strappò via la faccia. L’onda d’urto arrivò fino alla mia finestra ma il vetro resistette, evitando di far di me una tartare di sbirro. Indietreggiai quando il muro coinvolto nell’esplosione crollò.
«Cosa diavolo state facendo? Impalati come somari! Ci stanno bombardando!»
Qualcuno cominciò a urlarsi fuori i polmoni. Lo vedevo sbracciarsi dallo squarcio nella parete dell’attico. Mi decisi ad aprire la finestra e la notte mi baciò in bocca con la sua lingua gelida, dopo aver preso una generosa boccata di tritolo. Il fumo dell’esplosione si fece un giro nei miei polmoni decidendo dove sistemare le sue cose.
Quelle maniche, di una giacca di cotone bianca, si agitavano in direzione di qualcuno che non riuscivo a vedere. Mi sporsi abbandonandomi all’appoggio del cornicione. I momenti successivi alimentarono il sospetto di sapere di chi si trattava. Non ne fui sicuro fino a quando non scavalcai il parapetto e i miei piedi non si posarono sopra la neve fresca.
Vinnie Gognitti. Proprio quel figlio di puttana. Soltanto a venti metri da me ma irraggiungibile. A meno che non volessi testare le mie abilità nascoste di funambolo e non camminassi su quelle tubature d’ottone che si proiettavano come un ponte tra i due edifici. Il tutto a soli quaranta metri d’altezza, ai primi cinquanta clienti che telefoneranno anche un tostapane in omaggio.
In quel periodo cercavo di evitare i carboidrati e le pallottole ma mi calai giù lo stesso. Le tubature erano condotti di qualche genere. Aria condizionata o acqua. Avevano addosso una patina di muschio che le rendeva scivolose. Inoltre il vento, che usava la mia giacca sforacchiata come una vela, non era d’aiuto.
Rinfoderai le pistole per non spararmi in faccia a causa di un movimento inconsulto. Erano venti metri lunghi quanto una mezza maratona. Non guardai di sotto solo perché temevo che Gognitti mi sfuggisse. La sua testa rimase centrata nel mio campo visivo fino a cinque metri dal cornicione opposto. Coprii quella distanza azzardando due balzi che avrebbero potuto rovinare l’ottimo lavoro fatto fino a quel momento. Non successe solo perché ebbi la prontezza di aggrapparmi al parapetto. La gamba che aveva totalmente mancato il passo oscillò sopra il vuoto. Strisciai il mento sul muro, scorticandomelo.
Per il resto non fu difficile tirarmi su, se non fosse che la spalla ferita sollevò le sue rimostranze scoccando momenti di autentico dolore.
«Vinnie Gognitti, una pietanza prelibata per la mia fame di vendetta!» dissi sedendomi e inquadrando il mafioso nel mirino. Aspetto pesto e atteggiamento da fico. La verità era che stavo soltanto cercando di riprendere fiato.
«Payne! Maledetto federale! Non mi hai convinto dalla prima volta che ti ho visto! Chi ti credi di essere? Fottuto poliziotto, pensi di farci paura?»
Era strafottente e furioso. Probabilmente era anche fatto come un cavallo e stava avendo un attacco acuto di diarrea emozionale. Un gangster con gli alti e bassi di una donna in gravidanza. La droga sintetica aveva scatenato i suoi estrogeni della delinquenza.
«Pensi di venire in casa nostra a dirci cosa dobbiamo fare?» proseguì rabbioso.
«E ora mi dirai che se tardo devo avvisare, che questo posto non è un albergo e che tu non sei la schiava di nessuno, non è così? E invece di chi sei la puttana, Vinnie?»
Chi riposa troppo, in questo mondo, finisce morto ammazzato.
Ci sparammo addosso scegliendo lo stesso attimo. Solo che lui fece cilecca e io no.
Gridò come se lo avessi scannato vivo. Povero, non sapeva che non avevo nemmeno cominciato.
«Oh mio dio, oh mio dio! Mi hai sparato!»
«Funziona così, Vinnie, non lo sapevi? Ti aspettavi di rimanere incinta? Io non vedo nessun anello a questo dito, e tu?»
«Sei morto Payne! Cosa diavolo state aspettando, scimmioni?! Uccidetelo!»
Si appellò alla squadra di energumeni che aveva assunto per proteggerlo dai russi e che un minuto prima aveva spedito verso le scale per andare a fare un’imboscata ai responsabili di tutte quelle esplosioni. Me li aizzò contro provando, nel frattempo, a darsela a gambe. Ottimista, con quel grosso buco nella coscia che gli avevo aperto. Gli concessi la libertà provvisoria, ma non se la sarebbe goduta a lungo.
Dal corridoio dell’ufficio di Vinnie sbucarono più uomini di quanti ne sarebbe potuti passare contemporaneamente. Era come assistere a un’eiaculazione dall’interno di una vulva. Mi accucciai dietro al comignolo più tarchiato del tetto prima che mi vedessero. In quel magnifico tour panoramico che stavamo per fare mi assicurai che non perdessero la strada: sparai a quello che continuava a voltare la testa cercandomi senza pace. Gliela fermai, così evitai gli stessi sintomi agli altri quattro.
Gognitti intanto se la svignava attraverso la scala antincendio.
Il rombo degli spari faceva da cornice alla polvere rossa dei mattoni che mi esplodevano attorno. Le pallottole mangiucchiavano gli spigoli del mio rifugio. Se avessero continuato così, in cinque minuti i proiettili avrebbero trovato la mia carne. Dovevo cercare di non farmi prendere ai fianchi. Il comignolo che avevo scelto si ergeva come un grande dito medio rivolto a tutti i maledetti criminali che trattavano la città come la loro puttana. Erano metastasi che circolavano liberamente nel corpo sofferente di un paziente in agonia.
Se non avessi cominciato a rispondere alle provocazioni di piombo mi sarebbero venuti a prendere pensando che mi fossi avvilito. A sinistra, dove il fuoco era più aggressivo. Di solito chi prende le cose con troppa foga tende a finire presto, con disappunto del partner, a cui erano stati promessi fuochi d’artificio da capodanno cinese e che invece aveva ottenuto soltanto l’equivalente di un bastoncino d’incenso al the verde.
Mi sporsi per rispondere a tono quando il susseguirsi degli spari rallentò. Uno dei tizi era a venticinque metri avanti ma una grossa tubatura lo copriva. Un secondo, sulla destra, rientrava appena dentro il mio campo visivo ma il calibro della mia pistola riuscì comunque a portargli via una considerevole porzione di cranio. Stava tentando di rintanarsi dietro una cappa di aspirazione. Non riuscì nemmeno a vederlo in volto. Fu come abbattere un cervo nel folto di una foresta. Mi voltai per arginare il lato sinistro e mentre piazzavo l’ennesimo colpo a destra, spuntai dall’altro a far piovere un po’ di merda seria.
Un primo proiettile strappò via un pezzo di cornicione grosso come un pugno, un altro si perse, troppo alto nella notte. Fu il terzo a spingere indietro il corpulento ciccione, troppo lento per non morire come uno stronzo su un tetto innevato del Bronx. Era già un miracolo che le scale non lo avessero ucciso. Temetti che il proiettile della Magnum non arrivasse a nessun organo vitale, attutito dal grasso, ma poi ricordai che la magnum non montava proiettili blindati. Quando entrava, si frammentava e addio. Tornai dietro al mio caldo riparo avendo perso di vista il quarto uomo. O se l’era data a gambe o si trovava esattamente allineato a me, da qualche parte. In ogni caso aggiornai le mie statistiche di battuta. Con due morti accoppati per sette proiettili c’era margine di miglioramento. Ma non mi corrucciai troppo dato che erano solo partitelle stagionali. Quando fosse iniziato il campionato sarebbe arrivata anche la forma. Ma mentre mi trastullavo con le squadre minori il trofeo di metà stagione zoppicava fuori portata. Dovevo risolvere il gioco con uno schema ad effetto e avventarmi sul buffet del trionfo.
Se fossi stato nei panni dei due fenomeni, che in base alle mie supposizioni erano tanto vicini l’uno all’altro da mettersi d’accordo su un’azione congiunta, mi sarei mosso per accerchiare il pollo e tirargli il collo. Indietreggiai tenendo il comignolo di fronte a me. Dovevo garantirmi un orizzonte di sparo ridotto in modo da vanificare il loro vantaggio numerico. Avevo memorizzato il percorso che avrei fatto all’indietro in modo da non finire gambe all’aria. Dovevo solo stare attento al pavimento scivoloso per la neve. I due, allarmati dallo scalpiccio, fecero spuntare le pistole. Nel buio li scorsi a malapena: la neve che turbinava si portava via i profili delle cose. Li intravidi dal bianco degli occhi, spalancati come i miei. Le pallottole mi sibilarono attorno, furiose e avvelenate, senza mordermi. Mirai qualche centimetro sopra i bagliori delle detonazioni e il ritmo degli spari ebbe una battuta d’arresto. Non sentì il rumore di corpi che cadono a terra. Dovevo tenerli vicini uno all’altro e prevedere dove si sarebbero trovati. Scattai di lato, rivoluzionando il campo di gioco. Raggiunsi il lato lungo del tetto e, tenendomi di fianco il cornicione, andai incontro ai due sgherri di Gognitti. Riprendemmo a spararci a vicenda come vecchi amici. La magnum era quasi a secco mentre la Desert era il mio bicchiere mezzo pieno. Scivolai in avanti, complice la neve e un passo felino poco aggraziato che mi costò un dolore lancinante al ginocchio ma mi evitò un buco in pancia.
Due mattoni del cornicione si trasformarono in schegge e polvere rossa. La magnum però aveva già fatto fuoco e col mento a terra vidi la nebbiolina rosa uscire dal cranio del tizio che mi aveva appena mancato.
Provai a rialzarmi ma oltre al dolore al ginocchio, anche il torace aveva assorbito gran parte dello schianto, esaurendo la riserva d’aria. Ricaddi sul fianco, cercando il sostegno del cornicione, quando i colpi dell’ultimo gangster rimasto tornarono a fioccare con rinnovata insistenza. Il bastardo mi correva incontro, le labbra ridotte a una striscia sottile, cornice di una dentatura gialla e storta, un mostro senza gengive con le narici gonfiate a prendere ossigeno e un unico sopracciglio che mi indicava affilato come una spada e folto come un pube.
Mentre le pallottole si conficcavano sempre più vicine, corressi la posizione della spalla che poggiava a terra e lasciai sfogare la Desert con tre colpi in sequenza serrata.
E abbiamo un nuovo record del mondo, morto in trenta metri e dieci secondi netti! Il pubblico è in delirio!

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