Alessio Chiadini Beuri: Hitch
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giovedì 3 marzo 2022

Dentro il libro e oltre: Hello Brokenheart!

 


Ebbene, eccomi tornare da voi dopo mesi e mesi di assordante silenzio. La stesura dell'ultimo romanzo ha assorbito tutto il mio tempo libero una volta lavorato, dormito, mangiato e custodito (come ama dire mia madre per dire che devo prendermi cura di me stesso). Certo avrei potuto fare economia di minuti preziosi e mangiare un po' meno, visto il girovita che è lievitato, ma è così che combatto lo stress.  È un circolo vizioso che devo interrompere, prima o poi.  Meglio prima, comunque.

Nuovo romanzo, dicevo, sì: ho avuto l'ottima pensata di cimentarmi in un progetto con una data di scadenza al limite delle mie possibilità ma dopo un paio di mesi di studio della trama e dell'intreccio e dopo altri quattro di stesura, sono riuscito a confezionare il tutto e spedirlo a chi di dovere.  Non è stato facile per niente, ve lo dico subito, e men che meno rilassante ma io ho voluto la bicicletta e a me è toccato pedalare, anche se stavolta si trattava più che altro di un monopattino elettrico in autostrada, contromano.


Veniamo però al motivo per cui ci troviamo qua: una nuova puntata del serial letterario più apprezzato dei pochi elettori di questo bellissimo blog dalle enormi potenzialità. Dentro il libro e oltre torna con una puntata dal titolo più inglese-maccheronico che si potesse prevedere e lo fa anche con un capitolo che, all'epoca, fu quasi del tutto improvvisato e davvero scarsamente programmato. È così che scrivevo una volta: totalmente comandato dall' istinto e dalla penna che continuava a correre sulla pagina.  

Ricordiamo, prima di tutto, ciò da cui veniamo: sono passati alcuni mesi dalla notte di Capodanno ma fondamentalmente poco è cambiato se non per il fatto che Zanna e Caterina sono tornati insieme e sembrano così felici da fare ammalare di diabete chiunque sia cosi avventato da respirare la loro stessa aria senza aver indossato prima una tuta schermata da barre di livore per il mondo cucite a due millimetri una dall'altra.  Spanky si frequenta con Alena, nonostante questa non sia l'inquilina del terzo piano e Virginia fa lo stesso con Alan, la fiamma di amore iridescente che l'ha portata a Parigi a festeggiare coi botti. Membrokid, che è tornato dal Sudamerica, sta per sposarsi con quella che avrebbe dovuto essere solo un'avventura bacino-pelvica da manuale. Fangio si deve ancora riprendere dal coccolone che gli è preso quando gli è stato domandato di presenziare al cerimoniale nuziale in qualità di testimone dello sposo.  Il capitolo si apre con una delle solite riflessioni esistenzialistiche del nostro insicuro Spanky di quartiere che, però, fondamentalmente verte sulla sua innata positività e sulla sua ingenuità adamantina con cui distribuisce seconde possibilità a qualunque stronzo di passaggio come fossero caramelle. Questo perché le sua seconda possibilità, in realtà, sono a volte terze, quarte, addirittura quinte occasioni per rimanere deluso dalla vita e dalle persone su cui non riesce a smettere di puntare tutto, non accorgendosi che presto la banca smetterà di fargli credito. Spanky si giustifica dicendo di avere un handicap al cuore ma il suo grande problema è che si innamora più dei viaggi che si fa in testa che di quello che succede davvero nella Realtà. È un fottuto, irrimediabile, idealista che il vizio di sognare di volare sempre un po' più in alto non gli passerà mai, qualunque tentativo venga azzardato nell' impresa.  


Fa parte della sua natura e da autore so che dovrà imparare a conviverci, e al più presto. Meno male che l'ho creato anche con un pizzico di cinismo e autoironia, altrimenti sarebbe stata davvero la fine per Spanky. In ogni caso è doveroso ricordarvi che all' epoca in cui è ambientata questa storia, gli smartphone erano ancora un lusso per pochissimi e i cellulari non andavano su internet a meno che non aveste il rene di qualcuno da vendere, avevano pochissima memoria, sufficiente a conservare dodici sms testuali e non avevano ancora le tastiere digitali. 


È per quest'ultimo motivo che Spanky, al suo Nokia3330, risponde per errore, visto che stava leggendo per l'ennesima volta un messaggio dolce di Alena. Un numero sconosciuto come quello, normalmente lo avrebbe ignorato, ma a minchiata ormai fatta, pensa di cavarsela buttando giù il telefono all'operatore del call center fingendo che la linea sia disturbata. Solo che gli va peggio del previsto, in un modo che non sarebbe riuscito a immaginare nemmeno dopo aver mangiato male al thailandese. In un primo momento non riesce ad associare la voce che sente con qualcuno che, da come si rivolge a lui sembra uno dei suoi migliori amici della vita. Invece è solo Alan, il ragazzo di Virginia con cui né lui né nessuno degli altri (escludendo forse solo Cecilia) ha mai nemmeno visto per sbaglio. 

La realtà ve la dico io, dopo quasi dieci anni: il personaggio di Alan non era previsto, l'ho inventato solo per esigenze di trama. Il suo è sempre stato il destino di una meteora, nemmeno così fulgida, a dirla Tutta. Era solo l'escamotage per avere un contraltare idilliaco con cui far risaltare il Capodanno di merda passato da Spanky, tanto per sottolineare meglio il concetto che alle nostre fantasie ed elucubrazioni va concesso solo il giusto, senza andare in overdose e cadere troppo rovinosamente insieme alle nostre alte aspettative.  Che poi, per il carattere di Virginia, così riservato e poco espansivo con la comparte maschile dell'appartamento, questa riservatezza è perfettamente logica.  

Comunque sia, Alan telefona a Spanky e, dando per scontato che lui sappia che con Virginia la storia è finita, avvia un soliloquio di lamenti che tiene inchiodato il povero Spanky, davvero troppo cortese, per una cosa come quarantacinque interminabili e strazianti minuti.  

Una delle tante cose che a Spanky non torna è il motivo per cui il ragazzo abbia telefonato proprio a lui, che non se l'è proprio mai inculato di striscio. Aiutandomi con le fasi di elaborazione del lutto, che penso di aver appreso per la prima volta da Scrubs o da Dottor House, mi sono divertito ad analizzare allo stesso modo i momenti che seguono una separazione sentimentale.  


Per prima, quindi, abbiamo la NEGAZIONE, il rifiuto di affrontare la realtà per quella che è, proteggendosi con una cortina di deboli tentativi di auto-convincimento che l'altra persona, molto presto, ritornerà pentita sui suoi passi e tra le nostre braccia. Ah, ogni fase è scandita dal commento cinico e disincantato di Spanky, che qui ha la possibilità di fare al meglio ciò che non gli riesce mai per se stesso: essere violentemente razionale e lucido.  


Sul secondo gradino del podio abbiamo la RABBIA: a cui si unisce quasi subito il rancore e la frase:  

". . . con tutto quello che ho fatto per lui/lei"

Vi suona familiare, no?

Ma ecco il punto: quando veniamo scaricati ci sentiamo rifiutati, non capiti, non apprezzati e scarichiamo il nostro dolore sull'altra persona sotto forma di un'accusa di ingratitudine perché davvero siamo convinti di aver fatto cose che nessun altro abbia mai fatto, e lui/lei lo deve riconoscere perché facendolo, si renderà conto che uno uguale a noi non lo troverà da nessun'altra parte. Il bello è che tutta questa storia ce la cantiamo e ce la suoniamo con convinzione, perdendo di vista il fatto che non tutto quello che sembra importante per noi venga valutato allo stesso modo dall'altra parte, altrimenti non saremmo stati scaricati così impunemente e senza diritto di replica. Due persone si devono trovare, e non solo nel momento giusto delle loro vite, quando sono entrambi disponibili e interessati, ma in cerca esattamente l'uno dell'altro per carattere, per indole, natura e sintonia. Non basta solo fare tutte le cose bene.


Molto spesso quello che attrae una persona verso di noi è qualcosa di cui noi siamo totalmente inconsapevoli e che neanche ci immaginiamo. Pensate alla rivelazione finale del film Hitch. Tutto ciò che ha fatto innamorare la ragazza sono stati i suoi difetti, i suoi sbagli, le sue deviazioni dalla strategia di conquista che aveva preparato. L'importante, secondo me, è rimanere in onda e continuare a trasmettere, poi qualcuno che si sintonizzerà e deciderà di non cambiare stazione, arriverà.


Il terzo punto della fase di elaborazione è il PATTEGGIAMENTO e io ho immaginato come spesso, quando qualcosa che vogliamo con tutto il cuore ci sfugge dalle mani, noi tendiamo a cambiare ciò che siamo pur di non perderla. Che per alcuni aspetti va anche bene, chi è perfetto scagli la prima pietra, no?

Ciò che per me è sbagliato è arrivare a pensare di cambiare così tanto da fare un torto a noi stessi e cominciare a indossare gli abiti di una menzogna. Una bugia che poi saremo costretti a portare, potenzialmente, per tutto il resto della vita, se questa brillante pensata avesse mai successo.  Il che, vi tranquillizzo, non avverrà mai. Perciò, se la vostra coscienza è a posto e le vostre azioni non vi hanno condotto in qualche braccio della morte, quella persona potete anche lasciarla andare. Sarà doloroso, non lo metto in dubbio, ma sarà sicuramente meno penoso che violentare voi stessi a quel modo. Nessuno lo merita, voi in primis. Se io ho pensato di farlo, dite? Certamente, ma siamo stati tutti giovani, sciocchi e innamorati.  


Il quarto stadio, la DEPRESSIONE, è quello in cui il nostro livello di autostima tocca i punti più bassi in assoluto. L'essere umano arriva a credere che un oblio ben confezionato dentro cui possa sparire, sia la panacea di tutta la sofferenza che sta provando.  Abbiamo un'attrazione e un amore che spingono così forte che arriviamo a giustificare quello che, in definitiva, non è altro che il nostro carnefice, solo per amarlo un'altra volta.



Ma ecco che Spanky e Alan vedono il traguardo, l'ACCETTAZIONE. Dai che ce l'ho fatta, pensa tra sé Spanky non vedendo l'ora di riattaccare il telefono e proseguire con la sua vita.  Quando però Alan cade in quello che sembra un loop senza uscita in cui prende a saltellare impettito da una fase all'altra delle prime quattro come la pallina di un flipper, il nostro eroe teme che sia tutto perduto, soprattutto il suo tempo. In una boutade di rivalsa, a un certo punto Alan paventa l'impegno di coprire il dolore che prova con un bastimento pieno di sesso occasionale ma Spanky, che non crede nel detto "chiodo schiaccia chiodo", gli suggerisce invece di provare con una traghettatrice.  Se non avete mai sentito usare questo termine prima d'ora è perché l'ho inventato. Le traghettatrici, per quanto mi riguarda, mi hanno salvato la vita. Quella emozionale, perlomeno. Senza di esse il mio cuore sarebbe inaridito e si sarebbe ridotto fino alle dimensioni dell'uva passa. Come spiego nel capitolo, le traghettatrici e i traghettatori, molto spesso non sapranno nemmeno della vostra esistenza, e certamente non capiranno mai della centralità che hanno avuto nella vostra vita.

Cito:  

. . . la traghettatrice è colei che ci aiuta a superare quel momento critico della fine di una relazione importante, quando risulta impossibile sia all' alcol che agli amici. Ha il potere di trascinarti fuori dal tuo stato di commiserazione e darti uno scopo: lei. Il potere curativo di un sogno.


Nel romanzo, pur camuffandone l'identità, ho ringraziato pubblicamente le mie, che non hanno mai saputo che peso abbiano avuto per la mia salute mentale. Una mi ha salvato dai tentacoli di una storia decennale a fasi alterne che mi ha quasi distrutto due volte e la seconda mi ha strappato dalle grinfie di una relazione tossica e assurda in cui, oggi, faccio fatica a capire come possa aver pensato che avrebbe funzionato e mi avrebbe reso felice per il resto della Vita.  


Contento di quel consiglio, Alan ringrazia Spanky e gli dice che, visto quanto spesso Virginia parli dei suoi coinquilini, anche per lui è ormai come se li conoscesse. Quando Enrico ha la conferma di essere in cima alla lista nera di Virginia i due si salutano, per non sentirsi mai più e il capitolo si conclude con una breve riflessione sulle cose che tendiamo a dire con slancio, ispirati dal momento.

Ogni promessa va presa per quello che è: aria. Nient' altro, non c' è nulla per cui affidarsi a loro una volta che hanno lasciato la bocca di chi le ha pronunciate, pur se il loro proprietario ci credesse davvero con tutto il cuore. Non è cattiveria e non è cinismo, va bene crederci ma sono i fatti quelli che più contano, che hanno l'unico valore degno di scambio.

Concludiamo questa puntata davvero molto introspettiva e fin troppo seria per quelli che sono i propositi di Chi più Re di noi con l'analisi del brano scelto per il capitolo: 

Captured by Brian Kennedy.  

Faccio già a meno di dirvi che sono sicuro che non la conosciate perché ormai l'antifona l'ho capita ma spero vi piacerà. È una di quelle canzoni che mi sarei trovato spesso a sparare a volume alto nelle orecchie e che avrei cantato a squarciagola rotto la doccia quando avessi avuto il cuore spezzato, una bolla di suono in cui far riverberare ogni grammo di dolore per consumarlo prima che lui potesse consumare me. Una canzone che avrei provato a strimpellare con quella chitarra trovata nell'appartamento di Bologna che qualche vecchio inquilino aveva lasciato assieme all'intera collezione di dvd piratati di Mazinga Zeta. Mi sarei spellato i polpastrelli a tenere bene gli accordi e a dare al tutto la parvenza di una performance decente che non facesse sanguinare le orecchie di chi aveva la sfortuna di abitare con me in quel momento.  Ho ingolfato svariati lettori Mp3 con canzoni di questo genere soprattutto durante gli anni di liceo e gli anni universitari perché la ricerca non era fortunata e priva di insidie. Sono brani davvero difficili da ascoltare fuori da un certo stato emotivo, nel senso che non se ne può comprendere la forma autobiografica finché non siamo pronti per accettarla e accoglierla.






Chi più Re di Noi: la ragazza che ascoltava i Guns N' Roses

Editore: Andaluso Errante Books
Prima Edizione: Dicembre 2016
Seconda Edizione: Ottobre 2020
Genere: Narrativa Contemporanea


Quarta di copertina: "Bologna. Una nuova ragazza è venuta ad abitare nell’appartamento sopra a quello di Enrico, Tette’ e Zanna, solo che nessuno l'ha ancora vista. Il primo si è convinto che si tratti della donna della propria vita ed è deciso a incontrarla, il secondo si è offerto di curarne l'irrequieta smania di svegliarli nel cuore della notte facendole assaggiare un po' del toro da monta qual è, l'ultimo non è sicuro che il fantasma dello zio morto in quella casa la lascerà in pace.
Cecilia e Virginia alzano gli occhi al cielo"


NB: da qualche giorno è disponibile anche la variant cover dedicata a John Belushi e Animal House!
Costa solo 1.50 in più rispetto alla classica perché è in copertina rigida!



Qualche Recensione:



venerdì 11 dicembre 2020

Dentro il libro e oltre: Il duro del Lisander & I tre giorni del Coguaro

 


Ne "Il duro del Lisander", poco dopo che Enrico fa ritorno dal bar in cui era convinto di trovare l’inquilina del terzo piano intenta ad aperativiggiare, lo vediamo andare a prendere il sol…studiare duro sul tetto del condominio.

Credo si trattasse di un giorno di primavera quando io, l’autore delle prefazione all’edizione 2020 (Marco Guardanti) e Sir Giorgio, decidemmo di esplorare il condominio da cima a fondo (in casa non avevamo internet e prima dell’avvento del digitale terrestre probabilmente tutto ciò che proponevano i palinsesti per rallegrare il nostro pomeriggio annoiato, ci faceva cagare). Esplorammo gli scantinati bardati come avventurieri (anche se anagraficamente l’infanzia avrebbe dovuto abbandonarci da un pezzo, una scheggia di quella magia ci è rimasta conficcata dentro e brilla intensamente ogni volta che ci ricordiamo di essere stupidi e di non avere una reputazione da difendere a tutti i costi. Io non ce l’ho mai avuta, Marco e Giorgio, probabilmente, ora sì). Le cantine non ci regalarono grandi aneddoti e non ne ricavammo che tetano ma il tetto ci diede soddisfazioni. Quella, ad esempio, di vedere Giorgio frustato a sangue da un estensore per pettorali, non prima però di averlo ammirato prodigarsi in un vero stunt da duri da film d’azione (immaginatevi quando Tango e Cash evadono dal carcere di massima sicurezza gettandosi dal tetto dell’edificio con l’ausilio dei cavi dell’alta tensione e della loro cintura). 


È bello esserci stato e avere assistito allo spettacolo. Giorgio ha sempre avuto tutte le caratteristiche giuste da portarci a pensare che fosse un genio assoluto, filosofo, artista e viveur, campione di imprese che se le avessi affrontato io, sarei morto quasi certamente alla seconda. Quando mi permetterà di scrivere il libro della sua vita ne vedremo delle belle. 

Quel tetto, poi, lo usammo per un aperitivo tra colleghi di università. Faceva un freddo che pelava (ndr. gran freddo). Quando ci venne a trovare Miguel, invece, facemmo le foto saltanti. In cosa consistono? Nel farsi fotografare mentre si compie un salto assumendo però un atteggiamento normale, come se si stesse facendo altro. Il risultato è esilarante. Mettersi a saltare sul tetto, un’idea che non smette di sfoggiare furbizia anche dopo anni. Abbiamo mancato i Darwin Awards per un soffio, lo so.

Scusate la rozzezza della foto ma non ho avuto tempo di definirla e migliorarla!
-Tranquillo, Doc!


In questo capitolo c’è una delle descrizioni di Tetteballerine che mi sono più care perchè in una manciata di parole sono riuscito ad esprimerne la possanza fisica, l’agilità e l’arroganza guerriera. 

“…è una macchina da guerra praticamente inarrestabile che quando nevica e la città è bloccata dal ghiaccio corre a frustare lo Yeti con l'asciugamani. È un Legolas con le braccia di The Rock.”

Se Tette’ fosse un personaggio dei videogiochi sarebbe il cimmero con l’ascia, ignorante come un rutto e devastante come un D20.


Al tempo di Facebook, MSN, Badoo, dei profili Fake e di Lesbiche che spadroneggiavano su chat in tumulto, il single disperato invocava il soccorso di un eroe per riconquistare la libertà. Finalmente arrivò Hitch, l'incredibile principe di Bel Air forgiato dal fuoco di mille battaglie. Le dichiarazioni di cuore, le sfrenate passioni, gli appuntamenti al buio furono affrontati con indomito coraggio da colui che, solo, poteva cambiare il mondo.

Tutto ciò avvenne in un’era giurassica in cui i social non erano quello che sono oggi e il bipede maschio era ancora costretto a spingersi fuori dalla sua caverna per procacciarsi ciò che gli serviva. Quando vidi al cinema Hitch ci andai con mia madre, ed ero ancora un cucciolo di uomo che doveva dimostrare alla tribù il suo valore e conquistarsi il titolo di guerriero. Con mio padre andavo a vedere solo film di guerra e polizieschi. Praticamente, finché mio fratello ed io non abbiamo avuto l’età per toglierci dai coglioni, è stato nostro il merito di far sì che i nostri genitori continuassero a vedere film al cinema.

Così portai mia mamma a vedere il film di Will Smith anche se, fisicamente, fu lei a portare me. Il 2005 era un periodaccio di merda, la stessa merda che avevo masticato gli anni prima con la differenza che quell’anno era un anno in più di merda da mandare giù. La trafila della mia situazione sentimentale desertica andava avanti da più o meno 5 anni (tutti gli anni del liceo, senza saltarne nemmeno uno), proprio quando le giovani donzelle che percorrevano insieme a me gli stessi corridoi della scuola sbocciavano e fiorivano nella loro forma migliore, producendo in me e nei miei compagni una processo di extra salivazione costante. Il morale della favola fu che tutto ciò che arrivai a scorticarmi al liceo furono le cornee, per il troppo guardare, perché non riuscì a fare che quello. Ciò era causato anche dal fatto che lo sviluppo, nei maschi rispetto che nelle femmine, si traduce in periodi di bruttezza atomica e di mancanza d’identità ben formata che ti regalano una profondità di concetti e interessi da sfoggiare pari a zero. 

E quello ero io, senza ombra di dubbio. 

Il liceo è per me è stato come scartare un regalo di Natale tanto desiderato e non poterci giocare. Tra l’altro non avevo la minima idea di come avvicinare una ragazza, farla interessare a me, figuriamoci di convincerla a cedermi il suo fiore a tempo indeterminato (ho sempre cercato solo storie serie e durature, l’amore della vita che trovi a che non lasci più, con cui costruisci una famiglia, fai progetti, realizzi i sogni). Ero brutto, scrivevo poesie smielate, ascoltavo musica vecchia (non vecchia come quella classica che comunque ti dà un certo tono con il gentil sesso ma nel senso che non conosceva nessuno) impedendomi così degli spunti di conversazione, non ero politicamente impegnato e non avevo talenti apprezzabili che potessero farmi spiccare. Un disastro, insomma. 

Almeno vi garantisco di aver vissuto le storie d’amore più belle, accese e perfette come mai altri vissero. Nella mia testa.

Hitch, dicevamo: ben scritto, ben interpretato, ottima risorsa per citazioni nella vita di tutti i giorni. Lo guardai avidamente, la prima volta, con un bloc-notes mentale fatto di granito, pronto a uscire dal cinema e fare strage di cuori, finalmente dotto su quel grande mistero dell’universo: le donne. E invece, infrangendo la quarta parete, proprio appena prima che il sipario si chiuda e lo schermo vada a nero, Will Smith si volta verso il pubblico del cinema e parlando a me, ne sono certo, dice: “Regole fondamentali? Non esistono!” sfanculando le due ore appena passate e polverizzando il taccuino forgiato nel granito. Mi hai fregato Will, non si fa così, da te non me lo aspettavo proprio, e dire che ho rinunciato alle lezioni di canto perché coincidevano con la messa in onda di Willy il Principe di Bel Air. Adesso avrei potuto solcare i palcoscenici di mezzo pianeta e fare la vita dissoluta del rocker.


Devo dire che, dopo il liceo, la fortuna ha girato e qualche soddisfazione è arrivata. O forse è la legge dei grandi numeri che, prima o poi ti tocca, come l’esame della prostata.

L’aneddoto su “La mamma” è preso pari pari così come si è svolto in realtà, quindi vi invito ad andarlo a leggere nel romanzo. Ma la questione dei primi appuntamenti, quella sì, è roba seria. Cerco sempre di mettermi nei panni di coloro con cui ho a che fare e, quando riesco, a comprenderli e vedermi con i loro occhi. Non è mai un’esperienza edificante, purtroppo, ma non ho mai avuto problemi a fare amicizia o instaurare dei legami sociali, più o meno superficiali, quindi vuol dire che quello che vedevo di me e che non mi piaceva, per tutti gli altri non era poi così limitante. Quello, oppure sono in grado di mascherare bene i miei innumerevoli difetti e contraddizioni. Chi lo sa, chiederete al mio terapista, quando si sarà ripreso dalla crisi di nervi.

Anche il “colpo alla Fonzie” mi è riuscito davvero ma ammetto che sia stata solo questione di culo e che non avessi nessuna idea di quello che stavo facendo.

Arriviamo di corsa a una creatura mitologica che vive in mezzo a tutti noi e che io ho incontrato molte volte: la donna LEGO. La disciplina è sempre quella dell’antropologia urbana di mio conio e l’oggetto di studio è costituito da quel genere di ragazza che, all’interno di una storia o di una frequentazione amorosa con un altro essere vivente, non si pone mai all’interno di quell’equazione chiamata “relazione”. Come i pezzi del Lego, che si possono sostituire con altri di altro colore e ricreare sempre la stessa costruzione. Sono mattoncini colorati intercambiabili proprio perché quando il rapporto non funziona, va in pezzi, si sfascia, la colpa è sempre attribuita all’altro per sue manifeste mancanze, e solo sue, quando invece un vecchio adagio recita che un fiume ha bisogno di due sponde. Voi ne avete mai incontrati, di esseri-LEGO, sia uomini che donne, per cui l’uomo è solo un maiale e la donna solo una troia e che la relazione avrebbe vomitato merda come un cesso intasato anche se al posto suo ci fosse stata qualsiasi altra persona?

Sono insopportabili.


“Il duro del Lisander” si apre con Sharp dressed man by ZZ Top mentre “I tre giorni del coguaro” con Love Train by The O’Jays. Il primo è un brano rock del 1983 e l’ho scelto perché fa tanto videoclip anni 80 con quell’accompagnamento di chitarra elettrica. Se fossimo in un film questa sarebbe la scena che ci racconta, senza parole, che tipo sia il nostro protagonista. Per come la vedo io, Enrico indosserebbe un paio di rayban wayfarer, l’inquadratura dal basso verso l’alto a riprendere tutta la sua gloriosa camminata sul tetto del condominio, il walkman infilato nel costume da bagno, lo sdraio sotto braccio e tutto il mondo ai suoi piedi. Il classico figo che nei film affronta i guai con risolutezza ma senza perdere mai il suo senso dell’umorismo, che buca lo schermo. Mentre leggete il capitolo, fate partire la musica, sono sicuro che mi darete ragione.


Love Train è, invece, un pezzo R&B del 1972 e i toni cambiano in modo drastico. Prima di tutto arriva direttamente dalla soundtrack di Hitch, da cui “I tre giorni del Coguaro” prende il cuore. Volevo descrivere l’immensa pluralità caotica che Enrico lamenta quando parla di social e di come abbiano rimpicciolito il mondo e accorciato le distanze tra le persone. Possibilità amorose che fino al giorno prima sarebbe state irraggiungibili diventano a portata di mano e in quel mondo che ruota così veloce è facile perdere il ritmo e farsi staccare. È una realtà colorata di infinite possibilità che abbacina e può farti perdere i sensi se non vissuta nella maniera giusta. Il brano è gioioso e godibile e suggerisce a noi come al protagonista, il giusto mood per affrontare quelle novità. Con sorriso, leggerezza e zero ansia, che non ce n'è proprio bisogno.




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