Questo capitolo è, in ordine cronologico, successivo a “Un Natale da Guasconi” che ho avuto il piacere di regalare a colore che, lo scorso Natale si sono iscritti alla mia newsletter mensile, e di cui ho parlato in questo post.
Siamo nella settimana tra Natale e Capodanno, quel periodo dell’anno che Enrico definisce il più deprimente e il più soggetto, probabilmente, a suicidi. Io odio la notte di Capodanno, la detesto con tutto il cuore e la schivo come la peste, ogni volta che è possibile. Se la gioca con Ferragosto (non sono mai stato un tipo da spiaggia) ma al fotofinish la umilia senza ritegno. È che su Ferragosto non ci butti speranze, sentimenti, emozioni, desideri, non ci dipingi illusioni, non ci fantastici sul cambio di rotta che, finalmente, la vita ti restituirà con gli interessi che hai accumulato da che hai cominciato a piangerti addosso. Molti Capodanni li ho passati sognando la felicità, che molto spesso (leggete: sempre) non si traduceva con laurearsi, trovare un buon lavoro ben pagato, essere in salute ma avere a fianco una persona che ricambiasse l’amore che provavo per lei. Sono momenti tristi proprio perché siamo noi a caricarli di responsabilità assurde e aspettative che pulsano con un’intensità pari al sorriso che hai mentre sogni che si realizzano.
Zanna, Spanky e Tette’ vegetano in sala, svuotati totalmente dello spirito natalizio che li aveva colti, e baciati, durante la festa a casa di uno dei Clyt’O Ryders.
Per descrivere questo stato di depressione cosmica mi sono avvalso di una similitudine e del film Cowboys & Aliens: una cagata atomica che mescolava western e alieni con un tonico Daniel Craig, sull’onda del successo del suo nerboruto James Bond, la bellissima e mai fuori posto Olivia Wilde e Harrison Ford, che dopo Indiana Jones e il Regno del teschio di Cristallo (Sigh!) sull’argomento “incularsi quel bastardo di ET”, si era ormai laureato cum laudae. La similitudine riguardava il fatto che i ragazzi avessero lo stesso morale di chi era andato al cinema spendendo soldi per vedere quella stronzata.
I ragazzi non stanno facendo una seduta spiritica attorno al tavolo per evocare i capelli di Nicolas Cage che, da dopo Con Air, gli hanno sputato in testa i più brutti parrucchini scartati da Bruce Willis, anche lui gran maestro di brutte chiome posticce.
Se ne stanno e basta, seduti uno davanti all’altro, a lamentarsi. Ma non con frasi di senso compiuto, facendo versi. La citazione che risiede nella descrizione che c’è nel capitolo è veramente nascosta e praticamente impossibile da cogliere e scrivendo questo post, mi sono stupito di essermela ricordata. In questo senso sono un po’ come il personaggio del Dottor Walter Bishop in Fringe che è costretto a recuperare la memoria attraverso gli indizi che lui stesso si è lasciato nel passato.
Comunque veniamo a noi, l’inside-joke di cui vi parlavo arriva direttamente da uno dei film simbolo degli anni 80 “Harry ti presento Sally”
Conosciamo il destino della storia d’amore tra Zanna e la ragazza incontrata alla festa di Natale: un imbarazzante fiasco con un apostrofo a forma di cinquina sulla guancia. Zanna si pensava che bastava gestire i rapporti d’amore come si faceva da bambini. Ti mettevi insieme a una tua compagnuccia di classe, magari dopo aver risposto con una crocetta sotto al sì di una letterina passata di nascosto durante la lezione, e forse vi parlavate un paio di volte in una settimana (se riuscivi a non vergognarti come una ladro e resistere almeno fino a quando lei ti avesse risposto) prima che lei ti mollasse per il tuo compagno di classe. Vi tenevate per mano, forse ci scappava un bacetto a stampo sulle labbra con i compagni attorno che gridavano, si imbarazzavano, battevano le mani o andavano a dirlo subito al maestro, infami. Se si era verso primavera, magari vi sedevate uno accanto all’altro sul pullman, condividendo un walkman. Basta, stop, finito lì. Consumato l'amore.
Neanche Zanna è stato capace di andare oltre, bloccato all’immagine che si era fatto di Sonia ammirandola sul balcone di casa e ascoltandola parlare. La vita non crea nessuna aspettativa, la vita è semplicemente quello che è: un continuo fluire di situazioni, momenti, attimi. Siamo noi quelli che proiettano, fantasticano, desiderano e si illudono, inevitabilmente. I desideri hanno due caratteristiche principali: ci rendono felici e ci deludono.
Ci rendono felici quando li pensiamo, quando li modelliamo con mani non troppo esperte e senza badare a troppi dettagli. Ci deludono, immancabilmente perché la vita è più complicata della forma dei nostri desideri e non combacia quasi mai. I nostri desideri sono bidimensionali, il mondo si muove in quattro dimensioni. Non sono compatibili, sono razze diverse che non potranno figliare.
Noi siamo portati a immaginare e sorridere inebetiti di fronte al finale senza chiederci come ci si possa arrivare. siamo quelli che immaginano di chiedere al proprio amore di sposarci buttandosi da un grattacielo con un paracadute con la scritta “Marry me”, come nel video "All about loving you" dei Bon Jovi invece che lavorare per arrivare a quella decisione con la persona con cui vogliamo passare il resto della vita.
Desiderare è però la benzina di quel motore sempre che consuma come un trattore che è la nostra esistenza. Ha bisogno di essere alimentato come noi di trovare motivazioni per continuare ad andare avanti con piglio e un minimo di positività.
Per quanto non possiamo prescindere dalla nostra natura, possiamo però limitarla. Ritornare con i piedi per terra appena ci accorgiamo che stiamo facendo l’areoplanino tra le nuvole della nostra fantasia da così tanto tempo che i polpastrelli hanno ormai le rughette, come quando si sta troppo nella vasca. Diamoci piccoli obiettivi che possiamo realizzare, giorno per giorno. Concentriamoci su piccoli traguardi. È una gara a tappe la vita, non è il biglietto vincente della lotteria.
Dicevamo, in casa aleggia una tristezza cosmica da fine dell’anno, Cecilia e Virginia sono tornate a casa per festeggiare il capodanno in famiglia e i nostri tre eroi disquisiscono su Caterina, la famosa studentessa Erasmus che prima ha preso il cuore di Zanna e poi lo ha risputato masticato e ricoperto di saliva. Tette’ ancora non crede che sia mai esistita dato che qualcuno che voglia mettere la propria lingua nella bocca di Zanna di proposito è già piuttosto difficile da trovare. L’interessato peldicarota gli tira la stoccata fatale dicendogli che la sua è solo invidia, visto che nel palmarès, l’Erasmu,s gli manca ancora. Sì, hanno fondato un’associazione che ha lo scopo di irretire le studentesse straniere, ma non ho mai detto, in questi mesi, che abbiano successo (NDR).
Tette’ non può che incassare, prenderla in saccoccia, andarsi a raccogliere la dignità in fondo alla rete perché anche per lui non gira benissimo e non è il solito mattacchione sfrontato e cazzone che non conosce sconforto e perdita: il fatto di non essere riuscito a bollare la sorella di TestaBietta alla festa di Natale (vedi ancora lo Special Natalizio) lo porta a credere di aver perduto il suo fascino, esattamente come il “Maipiùmoscio” di Austin Powers.
Non resta allora che chiamare in soccorso l’eroe degli eroi, quello che nel rammarico e nell’autocommiserazione ci ha sempre sguazzato da quella Vigilia al Nagatomi Plaza, Mr. Bruce “Tenetevi Forte” Willis, con l’omaggio più sentito che abbia mai fatto verso uno dei miei eroi d’infanzia. Potete andarlo a leggere QUI .
La Canzone: Doing it all for my baby - Huey Lewis & The News
Devo aver (ri)scoperto Huey Lewis & The News verso nell’estate tra il primo e il secondo anno di università. I video musicali degli anni ‘80 avevano pochissime caratteristiche ma ben definite: c’erano quelli low budget che con 30 euro il mio attrezzista lo faceva meglio, quelli che avevano una trama così assurda che a confronto i film porno sembrano pellicole d’Essai, quelli in cui la computer grafica muove i suoi primi passi e quelli che erano pensati come veri e propri film tipo Thriller di Michael Jackson e, appunto, il brano di oggi. In Doing it all for my baby Huey e la band, oltre a interpretare loro stessi, vestono anche i panni degli abitanti di un castello in Transilvania in cui uno scienziato a metà tra Doc E. Brown e Albert Einstein, sta cercando di creare la donna della sua vita attraverso un corpo ricomposto con pezzi di cadaveri, una stanza senza tetto in cui ci piove dentro e una tempesta di fulmini con tutti i crismi. Il video dura quasi otto minuti ma andrebbe visto e goduto almeno una volta nella vita.
Chi più Re di Noi: la ragazza che ascoltava i Guns N' Roses
Quarta di copertina: "Bologna. Una nuova ragazza è venuta ad abitare nell’appartamento sopra a quello di Enrico, Tette’ e Zanna, solo che nessuno l'ha ancora vista. Il primo si è convinto che si tratti della donna della propria vita ed è deciso a incontrarla, il secondo si è offerto di curarne l'irrequieta smania di svegliarli nel cuore della notte facendole assaggiare un po' del toro da monta qual è, l'ultimo non è sicuro che il fantasma dello zio morto in quella casa la lascerà in pace.
Cecilia e Virginia alzano gli occhi al cielo"
NB: da qualche giorno è disponibile anche la variant cover dedicata a John Belushi e Animal House! Costa solo 1.50 in più rispetto alla classica perché è in copertina rigida!
"È l’inizio di un percorso sublime, e come spesso accade c’è già tutto. Basta solo aprirsi, e ascoltare queste dieci canzoni del cantautore nato poeta. Uno di quei dischi che cambia la vita."
L'8 Dicembre del 1911 nasceva l'attore Lee J. Cobb.
Io l'ho conosciuto attraverso l'interpretazione del giurato nel film "12 angry men" del 1957.
Purtroppo non sono riuscito a reperire questo monologo in italiano ma il grande TALENTO parla una lingua universale.
Buona visione!
#leejcobb
Cosa succede se metti in una stanza il regista di John Wick e l'attore di Breaking Bad e Better call Saul Bob Odenkirk?
Lo scopriremo insieme a febbraio 2021
#nobody
Summer in the city non è solo il secondo capitolo di quello che sarebbe poi diventato quel romanzo gargantuesco, eccessivamente lungo per un libro che si pone un intento tanto nobile quanto far ridere. Alla lunga un certo tipo di comicità e di escamotage narrativi stancano e ciò che era iniziato come una piacevole lettura, frizzante e sopra le righe, diventa uno di quegli imbarazzanti film rebootizzati per la dodicesima volta (tipo Psycho o I Fantastici Quattro).
All’epoca, però, non pensavo a niente di tutta questa filosofia letteraria e scrivevo per scrivere, per non perdere quello slancio che, per quel tipo di scrittore come me, è perla rara (io sono uno di quelli ridicolmente attaccati a una liturgia di creazione che ha bisogno dei suoi tempi, dei suoi modi, dei suoi spazi e dei suoi umori e che senza il manifestarsi contemporaneo di tutte le condizioni ideali non scrive nemmeno una riga. Salvo che poi, durante il flusso creativo, realizza che tutte le seghe mentali spariscono lasciando soltanto l’unica certezza, monolitica e tautologica: ‘Scrivi e basta, coglione! Era così difficile?’)
In Summer in the city avevo appena preso l’onda della storia e cercavo di mettermi in piedi sul surf, senza ancora sapere se fossi riuscito a starci per un minuto o per un anno e avevo tempo di fare molti piani. In tutta sincerità, per la prima decina di capitoli il traguardo mi è sempre stato piuttosto oscuro: mi lasciavo guidare dall’istinto e dalla scintilla di follia che avevo atteso così a lungo per inseguire. Quello che sapevo è che dovevo far parlare Enrico, conoscerlo e capire cosa avrei potuto fargli fare. Il fatto che sia un personaggio in parte autobiografico non mi dava lo stesso il permesso di fargli fare quello che mi pareva, altrimenti avrei scritto soltanto la storia della mia vita e tutti avreste comprato un altro libro, di un altro autore. Dovevo delineare un personaggio che potesse arrivare a convincersi che i rumori provenienti dal soffitto appartenessero ad una ragazza e, di quella stessa ragazza, farlo perdutamente innamorare. Per questo motivo la noia di giorni estivi trascorsi in una città deserta mi avrebbe spianato la strada per quell’estremizzazione dei sensi e per quel parziale straniamento dalla realtà che cercavo.
L’estate non è esattamente la stagione che preferisco e conosco anche troppo bene il tedio e il ripetersi incessante di giornate sempre uguali a se stessi, dove il divenire è rallentato e il futuro è oltre la linea dell’orizzonte, invisibile agli occhi e al cuore.
Così, per dare il giusto mood al capitolo ho ripreso senza vergogna, il titolo della canzone dei Lovin’ Spoonful che quelle brutte sensazioni me le faceva ricordare così bene. Ho piazzato la cover dell’album del 1966 come immagine del post e, non pago, ne ho tentato anche una traduzione dall’inglese al “chiadinese”.
Ma perché sembra che mi accanisco contro questo brano e i suoi autori, che mi hanno fatto di male?
Assolutamente nulla, ci mancherebbe, manco ci conosciamo. In effetti, non avrei saputo della loro esistenza se non fosse stato per il film Die Hard 3. Un giorno, l’anno non lo ricordo proprio ma erano gli albori di Youtube e il mondo dell’internet era ancora più sconfinato e permissivo di quanto è diventato poi, cercavo contenuti inediti (almeno per me) dei miei film preferiti e fu allora che mi imbattei in un montaggio tributo in cui ritmo e azione si sposavano talmente bene da farmi desiderare di ascoltare e riascoltare la canzone fino a che non l’avessi interiorizzata.
Die Hard 3 si svolge in una lughissima giornata estiva nella torrida Los Angeles con un Bruce Willis scazzato al massimo che prima passeggia in mutande per la città con un cartello in cui dice che odia i “negracci”, poi sfancula telefonicamente un terrorista che ha appena fatto esplodere un edificio minacciando di non fermarsi e vomita sarcasmo e battute al vetriolo su chiunque gli capiti a tiro. Per non parlare della corsa in taxi con il buon samaritano Samuel L. Jackson o della rissa in ascensore che Capitan America scansati proprio. Proprio l’inizio, in cui vediamo un John McCLane sfatto, in canottiera e con i postumi di un’emicrania perforante, mi ha fatto sentire tutto il peso di quelle giornate “no” in cui anche svegliarsi è un crimine contro se stessi. Perciò detto fatto, ecco Summer in the city dei Lovin’Spoonful, ufficialmente il primo brano in assoluto che ha avuto l’onore di rendere palpabili le sensazioni che provavo e che avrei trasmesso dentro qualcosa che avevo scritto.
Per la parte musicale del secondo capitolo di Chi più Re di Noi non è tutto qui. Fanno la loro comparsa anche coloro che costituiscono la costola primigenia, il pilastro portante di questo eccentrico romanzo: i Guns N’Roses e la loro leggendaria Sweet Child o’ mine. Come appartenente all’annata 1986 ed essendo fondamentalmente un vecchio estimatore di un certo rock sconosciuto degli anni ‘70 e ‘80 in un corpo giovane, i Guns non hanno mai fatto parte del mio campionario di musica preferito e, a parte qualche brano, lo rimangono tuttora. Ma non ero io, o Enrico a doverli ascoltare, bensì l’inquilina del terzo piano. Quella scelta calzava perfettamente con l’immaginario collettivo della studentessa universitaria fuorisede: intellettuale, naive e assolutamente alternativa, oltre che bellissima pur non possedendo i canoni delle modelle delle copertine patinate. Quella era l’immagine che si doveva stagliare davanti agli occhi di Enrico: una ragazza con le camicie di flanella legate ai fianchi, con canottiere bianche di una marca non identificata, jeans strappati e Doctor Martens.
È la prima volta che rifletto a fondo sulla cosa ma la rivelazione che vi ho fatto posso giurare che sia autentica. Durante tutta la stesura l’inquilina non ha mai avuto queste sembianze, almeno non con questa accuratezza e definizione. Non è importante immaginarla, comunque. Non è importante immaginarla come vuole l’autore, soprattutto, proprio perchè la sua natura le richiede di essere la personificazione di una fantasia.
Avrei potuto scegliere i Nirvana invece che i Guns, me ne rendo conto ma i Nirvana mi stanno sul catso quindi vai di Guns.