Alessio Chiadini Beuri: bologna
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venerdì 25 dicembre 2020

Dentro il libro e oltre: Ombre di città

 


“[...]dall’appartamento alla mia facoltà c’è un po’ da camminare..” 

Circa 25 minuti da via Zamboni, Dipartimento di Storia e filosofia, a porta Saffi. Benché fossi in possesso di una mountain bike color verde radioattivo che lanciata poteva tranquillamente toccare i 50 chilometri orari, in quell’inverno del 2008, io inforcavo il mio eskimo verde ribellione e andavo, qualsiasi tempo facesse. 

Era bellissimo, poetico. Respiravo la città, mi riempivo di lei e fantasticavo dentro il mio involucro fatto di musica. Stavo nel mondo vivendo il mio mondo interiore. 

Tutte le mattine, dal lunedì al venerdì, uscivo di casa molto presto e, anche se lezione cominciava solo alle 9:00, alle 8:00 ero già in fila per prendere una postazione tesi a palazzo Paleotti, che aveva la seduta più comoda e più spazio tra uno studente e l’altro. Non lavoravo alla tesi, che avrei cominciato solo l’autunno successivo, ma scrivevo. Avevo messo a punto la mia routine di scrittura due anni prima. Mi ero imposto di scrivere, non importa come, almeno un’ora la mattina prima di andare a lavorare, un’ora durante la pausa pranzo e un’ora la sera dopo essere tornato a casa. Tutti i giorni, senza stacco.

In fondo scrivere non è un lavoro, per me, ma una distrazione dalla realtà, un parco giochi in cui dimenticare tutto per un po’ e lasciarsi trasportare (anche se di fatto lo scrittore ha le mani sul volante) in un altro mondo. Appena avevo un momento che me lo potesse permettere andavo al Paleotti e ricominciavo a scrivere. All’epoca lavoravo su un progetto davvero ambizioso: scrivere un romanzo che potesse competere con I Tre moschettieri di Dumas, prendendo a presto la musicalità dei versi del Cyrano De Bergerac di Rostand. È ancora tutto in piedi, anche se per il momento fermo. Per scrivere quel romanzo serve una totale immersione linguistica che finisce per coinvolgere il mio parlato quotidiano facendomi suonare come un viaggiatore del tempo approdato in un’era che non è la sua. Quando ero in quel mood pensavo e parlavo (anche limitandomi e facendo attenzione suonavo comunque un po’ strano rispetto a coloro che mi erano attorno) come un moschettiere e vedete, anche adesso, ricordando quel periodo, un po’ di teatralità è incapace di restarsene buona. Ero sempre l’ultimo a uscire dall'aula studio e i miei compagni di appartamento mi chiedevano perché rientrassi tutti i giorni alle 21.00 quando le lezioni terminavano alle 19.00. Io sorridevo mentre mi guardavano stralunati, perché lungo il tragitto di ritorno lasciavo l’eskimo aperto a svolazzare come un mantello. Era bellissimo, ragazzi. Quelle passeggiate nella Bologna di sera, con il freddo pungente a morderti le guance, sognando un sogno e sentendosi impavido e guascone è uno dei ricordi più cari del mio periodo bolognese.



La storia di come l’ho attraversata tutta, da periferia a periferia, da una porta all’altra, il giorno del mio compleanno (Febbraio, eh!) con addosso soltanto una camicia di cotone, una giacca di pelle che poco copriva (ma era figa perché era come essere l’ispettore Coliandro o Serpico), un paio di scarpe eleganti, anche loro di pelle è la storia di un due di picche. Uno dei tanti della mia vita. 


Avevo un appuntamento con questa ragazza di Bologna, a cui avevo raccontato la balla di essere anch’io di Bologna (credendo stupidamente che, al contrario, non mi avrebbe dato mezza possibilità per via dell’eventuale distanza), che sgamò dopo mezzo secondo ma che non mi fece pesare troppo. Dovevamo vederci in questo locale fuori dalle mura, una discoteca che in prima serata aveva in cartellone uno spettacolo di Giacobazzi. Non festeggiai il compleanno a Forlì con la mia famiglia e con i miei amici (non fu l’unica volta in cui sacrificai gli affetti per inseguire qualcuno - è sempre la storia di colui che antepone i sogni a ciò che ha già), ma salì sull’autobus giallo della Tper che mi scaricò a qualche centinaio di metri dal locale. Non mi portai altro che quello che avevo addosso, non volevo essere impacciato con una giacca o con altre cose a cui avrei dovuto badare per tutta la serata: dovevo essere concentrato sull’obiettivo, senza distrazioni. Era fondamentale per avere successo. 

Lei arrivò quando già la sala era stipata e non vedemmo insieme il siparietto comico ma ero certo che, una volta riunitici per il ballo (minchia, sembra di essere finiti in una scena di Footloose) avrei potuto rifarmi su quel contrattempo. Ma sbagliavo ancora. Non avevo considerato che la ragazza aveva un ingombrante strascico di una lunga storia finita da poco. Non me n’ero preoccupato perché, beh, comunque ci sentivamo e mi aveva invitato lei. Per. Il. Mio. Compleanno.

Ripeto: PER IL MIO COMPLEANNO. 

È normale che uno i buoni pensieri se li fa, no? 

No. Bisogna purtroppo fare sempre i conti sul fatto che uomini e donne sono complicati e sconosciuti a loro stessi. Per certe cose non si può confidare in nessuno. Il cuore ha una mente tutta sua. Ma questo lo capì bene solo qualche giorno più tardi, quando passai quasi tutta una giornata fra trenini locali e autobus per prendere un caffè con lei, il giorno prima di sostenere un esame molto difficile (letteratura romanza). Ottenni un 30, ma non ebbi lo stesso successo con la ragazza.

Comunque, alla fine lo spettacolo di Giacobazzi fu bellissimo, risi come un matto.


La canzone: Sinnerman by Nina Simone (1965) l'ho conosciuta grazie a Scrubs. Era la canzone che chiudeva la puntata natalizia della prima stagione. Ho quest’immagine nitida di Turk che, la notte di Natale, si precipita fuori dal Sacro Cuore per correre da una paziente che è scappata dall’ospedale ma che sta per partorire. La troverà sotto il grande albero di Natale della città. Mi è venuta subito in mente questa canzone per la colonna sonora di questo capitolo proprio perché avevo scolpito in testa la scena di Spanky/me stesso che camminava senza meta in una Bologna notturna, fatta di luci calde, sferzate di vento gelido e tanta strada da fare. I propri peccati nessuno li grida al mondo, se li tiene ben stretti, un fardello pesante da portare e scomodo da indossare che però ci teniamo addosso, troppo difficile da togliere, troppo rischioso da lasciare in giro. Sinnerman è una canzone da colonna sonora intimistica perché non va ascoltata a tutto volume dalle casse dello stereo ma con gli auricolari. Come i segreti inconfessabili e i peccati di ciascuno di noi: si raccontano all’orecchio. 




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lunedì 14 dicembre 2020

Bollettino dell'Andaluso: settimana 5 (7 - 13 dicembre 2020)

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John Lennon (1940-1980) https://youtu.be/wADRRYNHhOA

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L'8 Dicembre del 1911 nasceva l'attore Lee J. Cobb. Io l'ho conosciuto attraverso l'interpretazione del giurato nel film "12 angry men" del 1957. Purtroppo non sono riuscito a reperire questo monologo in italiano ma il grande TALENTO parla una lingua universale. Buona visione! #leejcobb

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Uscito il 3 dicembre di quest'anno, 5 giorni prima dell'anniversario dell'assasinio di John Lennon, "La penultima mossa"...

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Pubblicato da Alessio Chiadini su Domenica 13 dicembre 2020

venerdì 27 novembre 2020

Dentro il libro e oltre: No Vacancy for Erasmus


 


Se fino a ieri avevamo scherzato, con “No vacancy for Erasmus” il gioco comincia a farsi serio. In un ennesimo capitolo “pillola” si ravvisano una summa di tutti gli elementi che coloreranno il resto del romanzo. Fino a “La regola di Platino” il lettore viene preparato a quello che succederà con parole confortanti: un dottore che ci rassicura che sentiremo solo un pizzico appena prima di farci la puntura e ci massaggia il culo con un batuffolo di cotone imbibito nell'alcol. No vacancy for Erasmus è il pizzico, che proprio indolore non è ma che ancora non è il peggio. Quello arriverà quando lo stantuffo nella siringa comincerà a scendere e il liquido inizierà a diffondersi bruciando come l’inferno. Questo il lettore deve aspettarsi dal vaccino contro la normalità che Chi Più Re di Noi ha preparato per lui sperando che, a un certo punto, la cosa non prenda la piega di un esame della prostata.

Ma non è il momento di preoccuparci, ascoltiamo il dottore e speriamo che dica il vero.


No Vacancy for Erasmus parla di Bologna vista per la prima volta da un forestiero di provincia: tutto e tutti si mostrano da un prospettiva nanesca anche se si è più alti della media nazionale. La paura, l’ignoto e l’insicurezza, lo sappiamo, hanno la capacità di farci vedere tutto molto più grande di quanto in realtà non sia, e molto più minaccioso. Ma con questo non voglio dire che Bologna mi apparve minacciosa, la prima volta. Nient’affatto. Per fare un paragone azzardato, fu come quando Harry Potter entra per la prima volta a Diagon Alley attraverso quel muro di mattoni. Ogni cosa trasudava magia, ogni strada, ogni scorcio, ogni edificio era avvolto da una coltre di affascinante magnetismo. L’aria di Bologna è frizzante, ricca di opportunità. Un brulicare di uomini, mondi e storie sempre in movimento, come un fiume di vita: mentre ne ascolti una, centinaia di altre corrono via, trascinate dalla corrente senza poterle rincorrere o sperare di ritrovarle più in là. Bologna non è mai uguale a se stessa. È un organismo in costante trasformazione in grado di mantenere la sua identità e la sua magia intatte nel tempo. Bologna non è solo edifici, storia, aneddoti. Bologna sono le persone che la vivono, che la attraversano. 

Bologna è spirito, è stato d’animo.

Per un iscritto alla facoltà di Lettere e Filosofia, corso in Antropologia, Bologna è più che altro via Zamboni, al 38, la sede che è sempre la prima a divenire oggetto di scioperi, autogestioni, proteste. Ne ho visitate di altri sedi nel corso dei miei studi bolognesi ma il 38 è l’unico che sembra la casa dei Delta di Animal House reduce da una festa pazzesca delle loro. E questo nei giorni normali. Nei giorni di lotta il 38 si trasforma in una Beirut deflagrata dalle bombe. 

Oltre a murales più o meno elaborati, più o meno artistici, più o meno politici o divertenti, via Zamboni, piazza Verdi e le strade intorno hanno muri e muri imbrattati di avvisi di ricerca coinquilini del genere più disparato: scritti a mano, con pennarelli sottili, a matita, evidenziati, con numeri di telefono da strappare, con foto che dovrebbero inquadrare scorci di appartamento ma che invece sembrano opere d’arte moderna da quanto non si capisce un cazzo. Il titolo del capitolo deriva dal fatto che molti di questi annunci di convivenza recavano la scritta NO ERASMUS. 

La cosa mi stupì. 

Cioè, a stupirmi non era la tendenza dell’essere umano a ghettizzare i suoi simili, che è ben nota, quanto più perché non riuscivo a figurarmi i motivi specifici che avevano generato questa decisione unanime non programmata. 

Che combinavano gli Erasmus negli appartamenti di Bologna? 

Questo è un mistero che ancora aleggia sulla città e di cui non sono riuscito a venire a capo ma almeno mi è servito come spunto per creare l’ALSEf (Associazione Libera Soccorso Erasmus - femmine). 

Ma andiamo con ordine.


Una vera esperienza con uno studente Erasmus non l’ho mai avuta, ma questo non vuol dire che non l’avrei voluta. Più che altro, per quasi tutto il periodo universitario il vero erasmus sono stato io, questa è la verità. Il pendolare è il vero erasmus, emarginato come Giuda, non viene trattato bene nemmeno per compassione dato che, a differenza degli studenti stranieri, conosce bene la lingua e non ha quel che di esotico che anche se hai un’estetica più assimilabile a quella di un pitale, prima o poi qualcuna ci casca e per pietà te la smolla. Il pendolare non se lo calcola nessuno. Arriva giusto giusto per l’inizio delle lezioni e quando gli impegni accademici finiscono, non può rimanere nemmeno per la parte più bella dell’università, gli aperitivi in via del Pratello, perché deve correre come stronzi fino in stazione e tornarsi a casa. I veri reietti sono loro ed era giusto che qualcuno lo dicesse.

Solo quando mi sono trasferito le cose hanno cominciato a cambiare. Purtroppo, però, avendolo fatto solo al terzo anno tutti i compagni di corso ne avevano avuto ormai a sufficienza della vita notturna che Bologna offriva e si affrettavano a laurearsi e a passare di livello. In ogni caso non posso lamentarmi, ho visto e fatto cose che mi porterò dietro per sempre. Come il mezzo infarto per correre fino a San Luca inseguendo una forma fisica accettabile.

Come dicevo, in No Vacancy for Erasmus c’è il primo accenno all’Alsef, associazione libera soccorso erasmus (Femmine). Davvero uno dei più brutti acronimi mai scritti. Nonostante questo non l’ho mai voluto cambiare perché non si possono disconoscere le prime volte. In fondo, queste costituiscono una linea di confine che si oltrepassa solo una volta nella vita, come Sam Gamgee e quel passo fuori dalla Contea che sarebbe stato il primo mai fatto così lontano da casa.


I membri dell’ALSE(f) sono in servizio 7 giorni su 7, 24 ore su 24, il lavoro non li spaventa, il conto non vi spaventa ma è il martedì Erasmus il giorno in cui Bologna punta, sulla coltre di nubi che la avvolgono, un faro per richiamare gli eroi di cui ha bisogno ma che non merita. Durante il Martedì Erasmus i locali si affollano di studenti e studentesse stranieri a cui vengono riservati sconti e per cui si organizzano feste ed eventi di ogni sorta. Bere in economia e abbassare la guardia è quindi ciò che basta ai membri Alsef per avere successo e farsi acclamare con sacrifici rituali e idoli d’oro dai propri simili.

Comunque sia, in No Vacancy for Erasmus bastano poche righe per fare deflagrare, uno dopo l’altro, un rosario di ricordi e easter egg: 

1- Il motto di rimorchio che ha Tetteballerine («Punta la gnocca ubriaca!») è una citazione presa pari pari da “40 anni vergine”, il peggior film horror che abbia mai visto. Sul serio, mi ha fatto cacare addosso dalla paura.


-Alessio, ma 40 Vergine non è un film Horror.

-Lo dici tu, ma se siete dei ragazzi di 20 anni che non hanno ancora provato il piacere di un rapporto consensuale con un altro essere umano, e scoprite che qualcuno ha fatto un film sulla vostra vita, vi sfido a mantenere la calma. Sì, perchè, oltre alla condizione di castità c’era tanto altro, troppo, che avevo in comune con il personaggio interpretato da Steve Carell. Lui va a lavoro in bicicletta, tanto per cominciare.

-Massì, che vuoi che sia!

-Si infilava il bordo dei calzoni dentro il calzino così da non sporcarlo con il grasso della catena.

-Sei come mio nonno, ma fidati: è solo una coincidenza.

-Lavorava in un negozio di elettrodomestici e io da 4 anni passavo tutte le estati lavorando all’Euronics di Forlì.

-Ecco forse…

-Lui era impiegato lì come magazziniere e indovina un po’ qual era la mia mansione?

-Avrebbe fatto cagare a spruzzo anche me, hai ragione…

Vorrei a questo punto tranquillizzarvi annunciando ufficialmente, in diretta mondiale, che il sottotitolo del film della mia vita non potrà più essere “40 anni vergine” ma che resta in piedi il ballottaggio tra “L’attimo fuggente” e “Scemo & +Scemo”.

2- Ritorna l’antropologia urbana con il Sistema Waikiki, in cui non ho fatto altro che dare un nome fico a un’antica consuetudine degli uomini-guerrieri per infondersi coraggio prima di affrontare una battaglia che sarà dolorosa e che potrebbe essere l’ultima. Vi invito a scoprire di che si tratta in Chi più Re di Noi.

3- Introduciamo il concetto di “ruttoconlegambe”, mutuato dall’amico Foc e in gran voga nella gelateria (De Fanti) in cui ho lavorato per tre anni imparando un sacco, ridendo di brutto e vedendone di tutti i gusti…ehm…colori. Un ruttoconlegambe è la declinazione romagnola del più noto e inflazionato cessocoipedali, ma molto meno divertente. 

La Romagna ha una marcia in più, non c’è niente da fare!

La canzone che ho scelto come accompagnamento musicale è Baba O’Riley degli Who. Il motivo è semplice: è un brano che fondamentalmente si basa sull’attesa, quella dell’intro lunghissimo e leggendario, completamente strumentale. È attesa gloriosa come il riscaldamento che l'atleta fa prima di scendere in pista e dare tutto se stesso. Un momento di stasi che, per assurdo, è colmo di fervore e forza. Lo stesso stato d’animo che hanno i ragazzi come Zanna, Tette e Spanky prima di uscire di casa e mostrarsi al mondo e meritarsi uno spazio, in quel marasma, per restare al sole. In quella convinzione che a tutto o niente, a successo o sconfitta non ci siano alternative e compromessi e che una figura grama ti marcherà a fuoco per sempre. 


NB: l’immagine di copertina di questo episodio di Chi più Re di Noi penso che credo raffigurasse una giovane Lindsay Lohan parecchio alticcia, che si sposava bene con la condizione in cui descrivo i soggetti erasmus soccorsi dal nostro manipolo di eroi.






                                 
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domenica 22 novembre 2020

Il Bollettino dell'Andaluso: Settimana 2 (16-22 Novembre 2020)

 




"L'amore è ballare a piedi nudi su un tronco la stessa canzone". Dirty Dancing ha compiuto 33 anni ma ogni volta che lo...

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Chi Più Re di Noi lo puoi trovare qui: https://amzn.to/2Sds44z #bologna #romanzo #università #comico #risate #italy...

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Qualche giorno fa è uscito il 17esimo album di un paio di ragazzi che hanno le potenzialità per avere un discreto...

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Uscito qualche giorno fa per la casa editrice Hoepli il saggio "Amore, morte e Rock'n'roll" del giornalista Ezio...

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Dal ballo di Gene Kelly in Cantando sotto la pioggia al monologo improvvisato di Hauer in Blade Runner, dal Bacio a...

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Matthew McConaughey mi è sempre stato sulle palle, è meglio chiarirlo fin da principio. Bello, figo, muscoloso, biondo,...

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È venerdì ed è tempo di una nuova puntata alla scoperta dei retroscena di Chi Più Re di Noi. Siamo alla Regola di Platino, il teorema per cui uomini e donne... https://bit.ly/2KvPVvT

Pubblicato da Alessio Chiadini su Venerdì 20 novembre 2020

Enrico, Zanna e Tette’ sono esploratori scesi su un continente sconosciuto e hanno moschetti carichi e una fede...

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Il punto di vista geniale di De André e quello del “buon ladrone” Tito, crocifisso alla destra di Cristo (alla sua...

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Dico ciò che segue nella speranza di essere smentito: ho il leggero presentimento che più che un reboot dei I pirati dei Caraibi sarà "Harley Quinn alla ricerca del tesoro".

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venerdì 20 novembre 2020

Dentro il libro e oltre - La regola di Platino

 



Ne “La regola di Platino” fa la sua comparsa Cecilia, la migliore amica di Enrico, la sua confidente preferita, colei che lo comprende, lo capisce e anticipa i suoi pensieri e le sue mosse future, tagliandogli le gambe in anticipo prima che possa farsi del male o farne ad altri (soprattutto in ambito femminile). Non c’è attrazione di tipo fisico tra loro ma non escludo che segretamente Cecilia possa aver provato, in un punto imprecisato del passato della loro rapporto, un’attrazione per il nostro. I bravi ragazzi come Enrico, si sa, attraggono per la loro dolcezza e sensibilità e conoscono il loro momento di gloria tendenzialmente superati gli anta, quando gli stronzi e i pirati hanno deluso le aspettative d’amore del parterre femminile per tutto il ventennio precedente. Ma è un fenomeno che si manifesta anche prima della tanto temuta pubertà, cioè quando l’educazione assorbita in ambito familiare ci tiene ancora stretta a sè e in cui tipi senza verso, sboccati e un po’ maleducati tipo Tetteballerine sono tacciati come soggetti da evitare categoricamente.

Non penso che Enrico abbia avuto altro che non una simpatia asessuata per Cecilia. Questo mi ha portato a definire La Regola di Platino di Chi più Re di Noi, il vero inizio di un grande corollario di postille e decaloghi comportamentali già descritti ampiamente nella puntata precedente.

Un altro aspetto comportamentale che Spanky ha ereditato dal sottoscritto è la sua ritrosia al mantenimento dei rapporti sociali, umani, di amicizia. Per me era abbastanza tipico durante le scuole dell’obbligo (durante le vacanze, che fossero pasquali, natalizie o estive) darmi alla macchia: interrompevo le comunicazioni con i miei compagni di classe, mi mettevo in silenzio radio fino a quando le lezioni non ricominciavano.

Il perché? 

Perché sono uno stronzo asociale potrebbe essere una risposta ma lo è anche il fatto che condividere tutti i giorni, le ore e ore di stress da compiti in classe e da interrogazioni a sorpresa, quelle emozioni ansiose, quegli stati d’animo negativi mi costringeva a interrompere momentaneamente i rapporti. Il continuare a sentirli durante i momenti di pausa non mi avrebbe permesso di staccare completamente il cervello, che mi avrebbe insistentemente ricordato quanto il ritorno a quegli incubi scolastici fosse più prossimo ogni minuto, ora o giorno che passassi a godermi le meritate vacanze.

Quindi, con almeno 15 anni di ritardo, mi vorrei scusare con i miei compagni di classe per essermi sempre fatto di nebbia quando la scuola non incombeva su di noi, alleggerendo il peso delle nostre sacche scrotali.

Il periodo del liceo è quello che mi ha messo più in crisi e, allo stesso tempo, quello che rivivrei senza pensarci su troppo. Da un lato ho vissuto male certi professori, più che altro, che non erano in grado di spiegare, o lo facevano male, dall’altro dovevo combattere contro certe insicurezze insite nel mio carattere ancora in fase di sviluppo in quegli anni e che solo il tempo, le tranvate nei denti e i rimorsi mi avrebbero cucito addosso per farmele andare più comode o(non sarebbe un mio post senza una deriva da vecchio bacchettone rincoglionito e acido). Oltretutto, la stessa inesperienza verso le questioni sentimentali, che a quei tempi occupavano la maggior parte dei miei pensieri e dei miei sforzi (c’è un’età in cui tutti, a parte eccezioni - tipo Tette’ - siamo insindacabilmente brutti come la fame senza apparente possibilità di redenzione) colorava il mondo di alti e bassi così accentuati da farmi girare su un ottovolante emozionale costante, con colori vividi, pugni allo stomaco lancinanti e oscuri stati di depressione. E grazie, in ogni caso, agli amici bistrattati ma così fondamentali che mi hanno mostrato come poter affrontare al meglio i momenti bui e le rotture di cazzo. Con le risate. 

Chi più Re di Noi è soprattutto grazie a/per loro.

Ne “La regola di Platino” Spanky confessa a Cecilia, e solo a lei per il momento, che si è convinto che chi lo tiene sveglio durante la notte sia una ragazza. Una ragazza che sta piantando nel nostro Enrico una bandiera del colore di un’ossessione ferina che sarà difficile da divellere.

Ho parlato ampiamente della genesi di Chi Più Re di Noi, dell’ispirazione che ha portato all’idea primigenia (trovate tutto nella postfazione dell’edizione 2020) ma non dell’inclinazione naturale che ha portato a partorirla. Come papà e mamma si sono incontrati, capiti, piaciuti, intesi, accoppiati, insomma. Perché due possono essere anche belli come Dei e simpatici da morire ma se manca la sintonia, quel piglio senza il quale i bruchi nello stomaco non si trasformano mai in farfalle, non nascerà mai niente. Per cui Chi Più Re di Noi parla sì di un gruppo di universitari più o meno ligi ai loro doveri accademici guidati dagli ormoni per il 90% del viaggio, di una città (Bologna) in cui l’aria è magica e sembra che qualsiasi cosa sia possibile e di una misteriosa ragazza che continuerà a sfuggire fino all’ultima pagina ma principalmente è un romanzo che ha come tema centrale l’importanza dell’immaginazione, dell’influenza che ha sulle nostre vite, di come condizioni le nostre scelte e il nostro umore dal primo attimo della giornata all’ultima nota della sera. 


A Enrico non serve molto per legare le sue emozioni a quella proiezione sensoriale a cui dà l’aspetto di una bellissima ragazza. In lei proietterà tutte le aspettative che una vita sentimentalmente solitaria come la sua, fatta solo di qualche sporadico flirt e tante disillusioni, ha creato. E quell’idea attecchirà così a fondo in lui da prendere il controllo anche quando Enrico è inconsapevole. In questo caso Enrico/Spanky è ricalcato pari pari sul profilo del suo autore, ne condivide l’inclinazione a sognare, a distaccarsi dalle cose materiali e dare più importanza alla pancia, alle emozioni, alle sensazioni. Come me, Enrico vive in un mondo parallelo fatto di mille scenari possibili, mondi paralleli, conversazioni che non avverranno mai e incontri mancati solo per un battito d’ali di farfallo sul continente asiatico. 


Quella è una vita vissuta in una realtà silenziosa, in cui degli esseri-iceberg mostrano solo una piccola parte di loro stessi e tutto il resto si svolge negli abissi del loro animo. Forse è per questo che mi escono bene tante storie diverse, perché se mi tenessi dentro tutte quelle che ho un giorno potrei deflagrare in una gloriosa esplosione di frustrazione e bisogno di rivalsa. 

I tipi silenziosi, i riflessivi, quelli che hanno spesso lo sguardo fisso e muovono le labbra impercettibilmente come impegnati in chissà quale dialogo sono coloro che vivono migliaia di vite diverse non potendo, e non volendo, sceglierne una sola. Io prendo esempio dal mio “me stesso” che vive nella mia immaginazione e nella mia fantasia, lo vedo reagire a quello che mi capita nel mondo reale e prendo appunti, rosicando da matti perché lui fa cose che io non sogno nemmeno. Con il tempo sono riuscito a accorciare le distanze ma lui è sempre più avanti, non c’è niente da fare.

Se innamorarsi di un pensiero, di un mondo che si è costruito partendo dal nulla, fosse un superpotere, sotto i vestiti indosserei una calzamaglia sgargiante e terrei sempre d’occhio ogni cabina telefonica nei paraggi per cambiarmici appena qualche minaccia interplanetaria metta a rischio il mondo. Avrei una gloriosa “P” ricamata sul petto e uno stato di delusione costante. Tendenzialmente LA “P” starebbe per Pindaro, come quel poeta dell’antica Grecia diventato famoso per il suo volo e per come riuscisse, con apparente sospensione della logica, a passare da un argomento all’altro così come i miei improvvisi distacchi dalla Realtà, ma potrebbe anche essere declinata in una decina di aggettivi e nomi con la medesima iniziale non molto edificanti. Me ne viene subito un esempio calzante: Patacca (non la parte anatomica femminile nota in Romagna ma il tizio scemo, stralunato, ingenuo che trovate su ogni spiaggia della Riviera). 


Enrico resterà imprigionato nella sua fantasia per tutto il romanzo e questo condizionerà irremediabilmente i suoi rapporti con il resto del mondo. 

Non c’era nulla di bello che potesse strapparlo prima da quel regno incantato? 

Sì, ma il sognatore non lo vede, non lo sente con la stessa forza, non viene spinto con la stessa determinazione. Per destrasi il sognatore ha bisogno di correre contro il treno in corsa e rimanerci sotto. 

È un morbo che si può curare?

Non si può guarire del tutto, bisogna imparare a conviverci.

Mi viene alla mente, rischiando di essere tacciato di blasfemia, la novella “Il treno ha fischiato” di Luigi Pirandello. Qui il protagonista, il signor Belluca, oppresso dai problemi, dall’angoscia per una condizione che lo rende infelice e sottomesso in famiglia e al lavoro, in un ripetersi di giorni sempre uguali a loro stessi si ricorda, incredibile come avesse potuto dimenticarlo, che il mondo esiste. Il fischio di un treno lontano lo risveglia e gli rammenta che un altro mondo, oltre il suo, è sempre stato lì, a portata di mano, appena oltre la linea dell’orizzonte di quelle pile di carte sulla sua scrivania, alte ogni giorno di più. A quella rivelazione Belluca impazzisce aggredendo il capoufficio, reo di averlo subissato di rimproveri non più dei giorni precedenti. Quindi viene ricoverato finché i suoi nervi non si calmano. Tornerà alla sua solita vita come prima, o quasi, qualche mese dopo. Quella prima volta, in cui aveva ascoltatoil fischio del treno, si era riempito di sogni di un’altra esistenza, di leggerezza e di evasione fino ad esplodere. Ne aveva fatto una scorpacciata, si era ingozzato di vita e non aveva retto. Belluca imparerà ad attingere a quella fonte di sogni poco alla volta, senza più farne indigestione ma un’abitudine di pacifica fuga da una realtà opprimente.

Alle stessa maniera del signor Belluca, col tempo Enrico, io e ogni altro sognatore impariamo a scendere più spesso dalle nuvole soffici e sicure per camminare in un mondo freddo, ventoso e opaco per la semplice ragione che è lì che i sogni nascono, prendono vita e crescono.

La canzone che ho scelto per aprire questo capitolo (Our House by Madness) mi permetteva di trasmettere l’idea di famiglia unita e allegra, caotica e solidale fatta di individui con peculiarità diverse e spesso contrastanti ma che restavano insieme senza uccidersi perchè si volevano un gran bene. Ed è proprio l’atmosfera che si respira in quell’appartamento fatiscente al civico 49, interno C. Enrico, Zanna, Tetteballerine, Cecilia e Virginia sono i componenti di una famiglia che restano insieme nonostante tutto perché, alla fine, si sono scelti. In quella casa, proprio come nella canzone, c’è sempre un gran via vai e succede sempre qualcosa, e molto spesso a volume alto/rumorosamente. È il caos allegro, la cosiddetta bolgia, l’anarchia festante che fa piangere le mamme, la dissolutezza scomposta che fa inorridire i benpensanti, l’amoralità giovanile che scuote le fondamenta dello status quo.

Ascoltate la canzone dei Madness, non ci troverete un testo profondo e sopportate la melodia, se non è proprio di vostro gradimento (in fondo è un brano pop degli anni 80, e si sente). E poi quell’atmosfera british con case di mattoni rossi a vista, comignoli fumanti e nebbia così densa che la si può toccare mi scalda, mi riporta a casa anche se la casa a cui penso non è fisica, ma ha tetto e pareti di un tempo lontano i cui confini sono i ricordi di un’altra storia, che non vi racconterò oggi.





        
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venerdì 23 ottobre 2020

Dentro il libro e oltre - Chi più Re di Noi (la musica): Summer in the city & Sweet child o mine

 





Summer in the city non è solo il secondo capitolo di quello che sarebbe poi diventato quel romanzo gargantuesco, eccessivamente lungo per un libro che si pone un intento tanto nobile quanto far ridere. Alla lunga un certo tipo di comicità e di escamotage narrativi stancano e ciò che era iniziato come una piacevole lettura, frizzante e sopra le righe, diventa uno di quegli imbarazzanti film rebootizzati per la dodicesima volta (tipo Psycho o I Fantastici Quattro).

All’epoca, però, non pensavo a niente di tutta questa filosofia letteraria e scrivevo per scrivere, per non perdere quello slancio che, per quel tipo di scrittore come me, è perla rara (io sono uno di quelli ridicolmente attaccati a una liturgia di creazione che ha bisogno dei suoi tempi, dei suoi modi, dei suoi spazi e dei suoi umori e che senza il manifestarsi contemporaneo di tutte le condizioni ideali non scrive nemmeno una riga. Salvo che poi, durante il flusso creativo, realizza che tutte le seghe mentali spariscono lasciando soltanto l’unica certezza, monolitica e tautologica: ‘Scrivi e basta, coglione! Era così difficile?’)

In Summer in the city avevo appena preso l’onda della storia e cercavo di mettermi in piedi sul surf, senza ancora sapere se fossi riuscito a starci per un minuto o per un anno e avevo tempo di fare molti piani. In tutta sincerità, per la prima decina di capitoli il traguardo mi è sempre stato piuttosto oscuro: mi lasciavo guidare dall’istinto e dalla scintilla di follia che avevo atteso così a lungo per inseguire. Quello che sapevo è che dovevo far parlare Enrico, conoscerlo e capire cosa avrei potuto fargli fare. Il fatto che sia un personaggio in parte autobiografico non mi dava lo stesso il permesso di fargli fare quello che mi pareva, altrimenti avrei scritto soltanto la storia della mia vita e tutti avreste comprato un altro libro, di un altro autore. Dovevo delineare un personaggio che potesse arrivare a convincersi che i rumori provenienti dal soffitto appartenessero ad una ragazza e, di quella stessa ragazza, farlo perdutamente innamorare. Per questo motivo la noia di giorni estivi trascorsi in una città deserta mi avrebbe spianato la strada per quell’estremizzazione dei sensi e per quel parziale straniamento dalla realtà che cercavo.

L’estate non è esattamente la stagione che preferisco e conosco anche troppo bene il tedio e il ripetersi incessante di giornate sempre uguali a se stessi, dove il divenire è rallentato e il futuro è oltre la linea dell’orizzonte, invisibile agli occhi e al cuore.

Così, per dare il giusto mood al capitolo ho ripreso senza vergogna, il titolo della canzone dei Lovin’ Spoonful che quelle brutte sensazioni me le faceva ricordare così bene. Ho piazzato la cover dell’album del 1966 come immagine del post e, non pago, ne ho tentato anche una traduzione dall’inglese al “chiadinese”. 

Ma perché sembra che mi accanisco contro questo brano e i suoi autori, che mi hanno fatto di male? 

Assolutamente nulla, ci mancherebbe, manco ci conosciamo. In effetti, non avrei saputo della loro esistenza se non fosse stato per il film Die Hard 3. Un giorno, l’anno non lo ricordo proprio ma erano gli albori di Youtube e il mondo dell’internet era ancora più sconfinato e permissivo di quanto è diventato poi, cercavo contenuti inediti (almeno per me) dei miei film preferiti e fu allora che mi imbattei in un montaggio tributo in cui ritmo e azione si sposavano talmente bene da farmi desiderare di ascoltare e riascoltare la canzone fino a che non l’avessi interiorizzata.



Die Hard 3 si svolge in una lughissima giornata estiva nella torrida Los Angeles con un Bruce Willis scazzato al massimo che prima passeggia in mutande per la città con un cartello in cui dice che odia i “negracci”, poi sfancula telefonicamente un terrorista che ha appena fatto esplodere un edificio minacciando di non fermarsi e vomita sarcasmo e battute al vetriolo su chiunque gli capiti a tiro. Per non parlare della corsa in taxi con il buon samaritano Samuel L. Jackson o della rissa in ascensore che Capitan America scansati proprio. Proprio l’inizio, in cui vediamo un John McCLane sfatto, in canottiera e con i postumi di un’emicrania perforante, mi ha fatto sentire tutto il peso di quelle giornate “no” in cui anche svegliarsi è un crimine contro se stessi. Perciò detto fatto, ecco Summer in the city dei Lovin’Spoonful, ufficialmente il primo brano in assoluto che ha avuto l’onore di rendere palpabili le sensazioni che provavo e che avrei trasmesso dentro qualcosa che avevo scritto.

Per la parte musicale del secondo capitolo di Chi più Re di Noi non è tutto qui. Fanno la loro comparsa anche coloro che costituiscono la costola primigenia, il pilastro portante di questo eccentrico romanzo: i Guns N’Roses e la loro leggendaria Sweet Child o’ mine. Come appartenente all’annata 1986 ed essendo fondamentalmente un vecchio estimatore di un certo rock sconosciuto degli anni ‘70 e ‘80 in un corpo giovane, i Guns non hanno mai fatto parte del mio campionario di musica preferito e, a parte qualche brano, lo rimangono tuttora. Ma non ero io, o Enrico a doverli ascoltare, bensì l’inquilina del terzo piano. Quella scelta calzava perfettamente con l’immaginario collettivo della studentessa universitaria fuorisede: intellettuale, naive e assolutamente alternativa, oltre che bellissima pur non possedendo i canoni delle modelle delle copertine patinate. Quella era l’immagine che si doveva stagliare davanti agli occhi di Enrico: una ragazza con le camicie di flanella legate ai fianchi, con canottiere bianche di una marca non identificata, jeans strappati e Doctor Martens.


È la prima volta che rifletto a fondo sulla cosa ma la rivelazione che vi ho fatto posso giurare che sia autentica. Durante tutta la stesura l’inquilina non ha mai avuto queste sembianze, almeno non con questa accuratezza e definizione. Non è importante immaginarla, comunque. Non è importante immaginarla come vuole l’autore, soprattutto, proprio perchè la sua natura le richiede di essere la personificazione di una fantasia.

Avrei potuto scegliere i Nirvana invece che i Guns, me ne rendo conto ma i Nirvana mi stanno sul catso quindi vai di Guns.




lunedì 12 ottobre 2020

Dentro il libro e oltre - Chi più Re di Noi (la musica): Born Free - Kid Rock






Comincio questa nuova rubrica perché, anche se Chi più Re di Noi è già un libro di una lunghezza spropositata e al limite del legale, penso che non sia stato ancora detto o raccontato abbastanza, anche se tra circa un anno uscirà il seguito.
In quella che è una lunga autobiografia di vita mascherata da romanzo poco impegnato, infarcito da tutta la potenza di cui è capace la mia stupidera, c'è ancora materiale da imbrattare molto tranquillamente le pagine di un Guerra e Pace qualsiasi. E dato che dubito che qualcuno vorrà mai girare un film su di me (con protagonista Jeff Goldblum!) o intervistarmi in tarda età per scrivere le memorie del premio Nobel per la letteratura 2045, tanto vale riempirci i bit di questo mio comodo salotto egoriferito con una punta di vanità.
Coloro che hanno scelto con saggezza Chi più Re di Noi sanno già che ogni capitolo si apre con un brano musicale di mia discutibile scelta. Non ho cominciato a farlo da subito, in quell'estate del 2011 in cui ho iniziato a scriverlo. 
Era un autunno di vendemmia, penso il 2013, e io ero impiegato alla Cantina Sociale di Forlì come addetto alla fossa del rosso, con una tramoggia che andava controllata ogni due secondi perché poteva tapparsi da un momento all'altro inondandoti di mosto, raspi d'uva e lucertole trinciate. Mi svegliavo alle 5:30 ogni mattina e per sei ore filate la mia testa veniva cullata dal morbido rollio dei trattori, delle bestemmie dei contadini e del masticare senza sosta della suddetta tramoggia. Capitò per caso e continuò senza che lo forzassi: ogni mattina una canzone, fiorita nella mia testa e spuntata da chissà dove, mi accompagnava nel viaggio verso il lavoro e restava con me fino a quando dimenticavo di voler essere da un altra parte e di controllare il macchinario sopra di me che sboccava mosto rosso e lucertole morte. 

"Momenti di melma!" [Cit.]


Per quello mi sembrò un'idea sensata fare la stessa cosa per voi, miei pochi, fedeli lettori: consigliarvi una canzone, regalarvi un mood, farvi salire con me su di un ritmo e accompagnarvi in un'avventura.

Chi più Re di Noi inizia in un appartamento universitario massacrato da anni di invasioni di studenti fuorisede, feste pazzesche e incendi dolosi a scopo scientifico. La città è Bologna e l'appartamento, ahimè, è proprio quello in cui ho vissuto durante l'ultimo anno di triennale. 

Perché? Costava poco e volevo finalmente inebriarmi della droga "vado a vivere da solo", anche se da solo mica tanto visto che dividevo una tripla dietro una caserma (con annessa la sveglia di tromba tutte le mattine alle 6:00 e l'ammaina bandiera tutte le sere, tranne la domenica) a venticinque minuti di passeggiata sotto i portici dalla ridente via Zamboni. L'appartamento l'ho lasciato tale quale, così avrei potuto tornarci a vivere, ma senza il rischio di prendermi le piattole.

Da qui la scelta del primo brano di questa colonna sonora lunga 90 canzoni e spicci: Born Free, Kid Rock del quale, per altro, in qualche parte del cervello, sapevo soltanto che avesse una connessione con la bagnina simbolo della TV: Pamela Anderson. Quanto possa essere rilevante questo collegamento lo lascio decidere a voi, io proseguo diritto verso il mio obiettivo.

Quando ascolterete la canzone non troverete temi impegnati o profondi di mogoliana memoria, tutt'altro. È un inno a rivolgersi al futuro senza paura e senza rimpianti, con la stessa cieca fiducia che caratterizza tutti i ragazzi e le ragazze spensierati prima che la vita cali con la scure sui loro occhi trasognanti. Invincibili, immortali, re del mondo: è esattamente così che va per la maggior parte di noi quando approdiamo alla pubertà e arriviamo all'età adulta (che una data d'inizio fondamentalmente non ce l'ha e che per qualcuno non arriva mai). Diventare adulti è un interruttore che scatta da solo, tipo un salvavita, di cui tu ti accorgi anni dopo, quando la leva è ormai incastonata nella ruggine.
.
Ma la mia intenzione non era quella di indurvi alla depressione e, infine, al suicidio e quella che può sembrare una resa drammatica al tempo che avanza, è in effetti uno sguardo oggettivo a quell'età d'oro in cui tutto è possibile e che i più caparbi, e fortunati, realizzano.






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