Alessio Chiadini Beuri: Harry Potter
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venerdì 29 gennaio 2021

Dentro il libro e oltre: Hamburger di delfino

 


I protagonisti principali ormai li abbiamo conosciuti tutti. O quasi.

Manca Virginia e sì, scoprirete presto perché l’ho tenuta per ultima. Non è un caso.

In “hamburger di delfino" dovrebbe esserci una delle frasi più smaccatamente sessiste del romanzo o, almeno, quella che potrebbe all’apparenza sembrarlo. Nello specifico affermo che i vocaboli “ragionare” (inteso come “giungere a un compromesso tra due o più soggetti attraverso l’uso della dialettica”) e “donne”, raramente si riescono ad accostare all’interno della stessa frase. È una provocazione, non una forma di sessismo quindi non lasciatevi ingannare del primo, roboante impatto. È il risultato più manifesto e frequente della differenza tra la modalità di discussione che assumono le donne rispetto a quella sfoderata dagli uomini. A noi maschietti, generalmente, il conflitto non piace, ce ne teniamo alla larga ben volentieri. Siamo spesso accondiscendenti e voltiamo pagina prima che si possa sentire “Le squadre rientrano in campo per il secondo tem…”. Le donne, o la maggior parte di esse, vivono la diatriba e la discussione come parte fondante dell’esistenza. Ne hanno fatto un arte e scritto la maggior parte delle regole per uscirne vincitrici. Se ci distraiamo, noi uomini, alla fine non riusciamo a ricostruire nemmeno un quarto delle mosse con cui sono riuscite a metterci nel sacco, a convincerci che eravamo noi in torto quando all’inizio eravamo convinti che avremmo invece stravinto. 


Ti sei distratto? Boccheggi come un tonno e aspetti l’asfissia. 

Non ti sei distratto ma senti comunque montare sensi di colpa immeritati? Hai perso, puoi fare ricorso alla VAR ma comunque è fatta. 

Puoi dare la risposta giusta o porre la domanda corretta per aprire una breccia nella puntigliosa ricostruzione che ti ha fatto di come avevi torto marcio ma verrai fatto passare per quello che prende tempo per rispondere perché ci devi pensare, e se ci devi pensare su è perché sai di avere torto.

Ma c’è una terza opzione:, la diatriba la puoi anche VINCERE. Ma è raro e non puoi permetterti di distrarti nemmeno un secondo. 

Quando sei sotto al fuoco e meravigliosamente ottieni la parola con lei devi mantenere il punto, individuare le falle del suo ragionamento e incalzarla, ancora e ancora. Cercherà di deviare l’argomento, di portare all’interno della discussione argomenti non calzanti, episodi passati in cui hai sbagliato e in cui avevi confessato le tue colpe. Sono soltanto distrazioni, sono colpi al costato portati all’unico scopo di sfiancarti, farti cedere, esporre il mento e metterti KO. 

È così che veniamo battuti il 99% delle volte. Perché le donne, in questo, sono più brave di noi e anche perché molte volte siamo effettivamente stati dei cazzoni. 

Le discussioni che non si possono MAI vincere, però, sono quelle contro gli analfabeti funzionali e in questi mesi di crisi mondiale le loro unità, che prima ritenevo sostanziose ma entro determinati limiti salvifici per la razza umana, sono apparentemente aumentate a livelli critici (apparentemente nel senso che c’erano anche prima ma non si mettevano così in mostra commentando - senza leggere - qualsiasi cosa per noia da Lockdown). Contro questi soggetti si può attuare solo un massiccio impiego di cultura cingolata e grugni duri. “Prendili da piccoli”, citazione non è mai stata usata più ad uopo.

Virginia, insomma, è la quinta inquilina di quello sgangherato appartamento bolognese. È l’ultima arrivata e divide la camera con Cecilia. Enrico-Spanky ce la racconta subito come la sua arci-nemica accostandola allo squalo di Spielberg e ai dissennatori letterari di J.K. Rowling (l’arrivo di Virginia nella casa è descritto proprio con la sensazione che ebbe Harry la prima volta che incontrò una delle guardie di Azkaban: profonda tristezza e un freddo avvolgente che si insinua fin dentro l’anima. Disperato, come se non potesse essere mai più felice). Un tipino mica da poco, insomma. L’inizio della contesa tra i due però non viene spiegata nel dettaglio. I due si stanno antipatici, non si sopportano, a malapena riescono a guardarsi e stare insieme nella stessa stanza per più di cinque minuti. Se diamo retta a Enrico, è Virginia che ce l’ha con lui ma della scintilla che ha acceso l’incendio, nessuna idea concreta.


Veniamo a sapere che il primo epico scontro tra Enrico e Virginia finisce con una lista di comportamenti fastidiosi che la ragazza redige per il coinquilino, su sua diretta richiesta. Due in particolare vengono dal mio vissuto: muovere la bocca mentre qualcuno mi parla, come un pappagallo in modalità silenziosa; aver girato in mutande per impressionare, con il mio fisico asciutto (eh, bei tempi!), giovani colleghe di università con cui ho condiviso una foresteria al tempo della mia ricerca per la tesi a Ostuni, Puglia.

Il primo è un riflesso involontario che mi hanno fatto notare per la prima volta al liceo. Credo più che altro sia il segno che sono concentrato su quello che sta dicendo il mio interlocutore. Può essere visto sì, come un tic fastidioso per chi mi parla e magari si deconcentra e perde il filo del discorso, ma allo stesso tempo è un attestato di stima dato che sono veramente interessato a quello che sta dicendo e non guardo il cellulare riemergendone ogni tanto con un’affermazione inutile (eh, lo so) o uno sterile quesito (ma cosa dici?) che non arricchiscono la conversazione.

La seconda nota, quella di mostrarsi in mutande per impressionare, è invece consapevole e cercata e denuncia una totale ignoranza, da parte mia,  di ciò che accende i moti carnali del gentil sesso. Non ho l’elenco di ciò che funziona, ma sicuramente non è lo sfoggio del proprio corpo senza veli. Se non sei Chris Hemsworth. E non lo sei.

Il titolo di questo capitolo anticipa le modalità e le strategie con cui Enrico affronta le discussioni contro la pragmatica, razionale Virginia: l’impiego del paradosso, il ricorso all’assurdo, l’estremizzazione, l’iperbole servono per smascherare le contraddizioni dei punti saldi delle argomentazioni altrui. Provateci, è divertente spiazzare l’altro, portarlo ad uno stallo logico che potrebbe provargli SHOCK e farci vincere la contesa.


La citazione più nascosta di questo capitolo è quella sul ciclo mestruale (inteso come vero e proprio ciclo a pedali su cui si può salire e andare) che il ventriloquo Jeff Dunham fa pronunciare al suo personaggio di maggior successo, Walter. Recuperate tutto quello che potete di questo artista, sottotitolato e non, perché merita.


In ogni caso: si tratta di forme di sessismo becero e violento? No, tutto va contestualizzato. Soprattutto una battuta, che per funzionare deve essere veloce, immediata e d’impatto.

La stessa cosa vale per il romanzo: Chi più Re di noi va letto per intero senza prendere scorciatoie moraliste o inalberarsi in difese inutile a favore della donna. Amo e rispetto le donne, sappiatelo. E non direste così se aveste letto il romanzo fino in fondo.

La copertina originale del capitolo “Hamburger di Delfino” ritraeva la celebra scena di Happy Days in cui Fonzie salta lo squalo facendo sci d’acqua. La canzone da colonna sonora è niente po’ po’ di meno che il tema del film “Lo squalo” di John Williams. Tutto per mostrare quanto grande fosse il desiderio di Spanky di evitare di affrontare l’argomento Virginia, saltandolo a piè pari. Ma come il classico “elefante nella stanza”, prima o poi bisogna farci i conti. Non lo si può ignorare per sempre. E ignorare i problemi non è il modo in cui vogliamo vivere. A noi piace prenderli di petto, misurarci con loro e, se il vento è buono, risolverli. Non ci riusciremo sempre, questo è vero ma troveremo sempre il modo per riderne, prima o poi.

Dobbiamo farlo. Ce lo dobbiamo.

È meglio andare incontrare la vita con una risata che con un viso rigato di lacrime, no?


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Per finire, non dimenticarti che il romanzo su Max Payne esiste e lo puoi leggere senza spendere un euro che è uno!



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venerdì 4 dicembre 2020

Gli immancabili di NATALE




Cosa fa il giorno di Natale davvero Natale, per me.
La lista non segue un ordine cronologico, o di importanza o di bellezza e, soprattutto, non è oggettiva né universale per cui probabilmente non troverete magari quel titolo che vi aspettavate (però se volete segnalarlo, poi ne parlerò con piacere!)
Fatte le dovute premesse, aiutatemi a dire: «A tutta birra, Rudolph!»



  • Harry potter e la pietra filosofale:
    film del 2001, non l’ho visto al cinema e non ho recuperato il romanzo per i successivi 6-7 anni. Quindi si può dire che non sia un Potterhead nativo e che i Natali più significativi e memorabili dell’infanzia li ho passati senza il maghetto creato dalla penna di JK Rowling. Nonostante questo, come vedete, eccolo qua. La prima volta l’ho visto in tv e ammetto che non sapevo nulla sulla storia, sul fatto che si trattasse di una saga letteraria né se fosse il primo o l'ultimo film. Nel 2001 frequentavo il liceo e Harry Potter, enorme fenomeno planetario, era visto più che altro come una storia per bambini facendosi sì che il mio radar di interesse non facesse bip. Capitai per caso sul quel canale, penso fosse Raiuno (non so se fossimo sotto le feste ma fuori era buio e faceva freddo quindi, nella fantasia infantile che Natale duri almeno 3 mesi l’anno, ogni volta che le condizioni atmosferiche sono favorevoli, per me il calendario torna al 25 dicembre). Considero la gioia provata da Harry la prima volta che, insieme a Hagrid, entra nel mondo dei maghi e delle streghe a Diagon Alley, o quella in cui scorge il profilo di Hogwarts stagliarsi all’orizzonte o ancora la miriade di odori, sapori e colori con cui si riempì la Sala Grande durante il banchetto di benvenuto, paragonabile alla felicità di un bambino che si sveglia la mattina di Natale (in casa mia si festeggia il 25 mattina invece che la Vigilia) e corre fino all’albero addobbato in soggiorno. Chi, da piccolo, non avrebbe desiderato scoprire di possedere dei poteri magici, in fondo? Sì, la Pietra Filosofale è necessariamente un film che può essere annoverato in questa lista piena di zucchero a velo e agrifoglio. Insieme a lui, possiamo inserirli tutti fino a "L’ordine della fenice". Hogwarts, d’inverno, trasmette quel calore che vorremmo avere nelle nostre case quando fuori il termometro sfiora lo zero, davanti al camino acceso con un sacchetto di cioccorane in mano.


  • Canto di Natale di Topolino Walt Disney (1983):
    ogni 24 sera, su Raiuno, lo aspettavo con ansia. Una tradizione natalizia vera  propria. Uno dei migliori prodotti Disney di sempre, la carica narrativa in grado di muovere emotivamente vere e proprie montagne aride di sentimenti. Il groppo in gola matematico quando il cuore di zio Paperone finalmente si schiude alla bontà e diventa il personaggio da cui tutti avremmo sempre desiderato ricevere un gesto d’affetto. Imprescindibile. 


  • Pomi d'ottone e manici di scopa (1971)
    : come sopra, nella programmazione del palinsesto Rai i due film  sono andati a braccetto per lustri e lustri e, anche se a tutt’oggi non riesco a ricordare bene la trama se non che avesse come protagonista una strega provetta (interpretata da Angela Lansbury) che, non sapendo gli incantesimi a memoria doveva leggerli direttamente dal manuale inforcando gli occhialetti. Non soddisfatta faceva volare un letto girandone il pomo (d’ottone) finendo, insieme ai giovani comprimari e al mister Banks di Mary Poppins (David Tomlinson), in una partita di calcio tra animali antropomorfi e un leone-re piuttosto incazzoso.


  • SOS fantasmi(1988):
    rappresentante di quello che definisco il mio “Natale nascosto” visto che con questa pellicola ci si discosta di qualche passo dagli stilemi classici della cinematografia della Natività. Certamente, è in tutto e per tutto un film natalizio con un finale strappalacrime ma è anche, a tutti gli effetti, un prodotto marchiato anni '80 e l’irriverenza è presente in ogni singolo fotogramma. Linguaggio scurrile, cinismo, riferimenti al sesso e morti assiderati. Il classico immortale di Dickens declinato alla cultura materialistica che ha imperniato quel decennio tutto neon e giacche con le spalline. Un film con Bill Murray e per Bill Murray. La scena che mi è rimasta più in mente alla prima visione: Frank Cross (Murray) appeso fuori dalla finestra, retto dal braccio del suo defunto capo che inesorabilmente si sfalda in polvere e brandelli di carne morta. La mia scena preferita: l’incontro con il fantasma dei Natali passati per la caratterizzazione del tassista, un sadico stronzo e guardone. La mia battuta preferita: quella sui capezzoli della ballerina («Anche Charles Dickens avrebbe voluto vedere i suoi capezzoli!»)


  • Ricomincio da capo (1993):
    anche se tecnicamente il film è ambientato a febbraio (2 febbraio, 2 febbraio, 2 febbraio, 2 feb..) a Natale a me piace guardare i film fatti di buoni sentimenti che, più adesso che quando ero ragazzo, mi fanno venire il magone e piangere come un vitello. Amo sentirmi buono, altruista e pieno d’amore, stilando una sfilza di buoni propositi per quando, finalmente, mi alzerò dal divano e varcherò di nuovo la soglia di casa. Bill Murray è straripante («Sono un Dio!») e le trovate di Harold Ramis (Egon) esplorano senza censure quello che un uomo intrappolato in un loop temporale sarebbe portato a fare, considerare, imparare. Quando ti trovi in una situazione senza via di fuga non c’è altro che puoi fare se non andare avanti ed affrontarla. Esattamente come l’esistenza di ognuno di noi: abbiamo solo questa vita e con questa dobbiamo imparare convivere, senza scorciatoie o trucchi, fino in fondo. «...non solo ieri sono esploso, mi sono avvelenato, pugnalato, sparato, congelato, impiccato, fulminato e bruciato!» (Vi ricorda qualcosa, tipo un altro film iconico degli anni '80 ambientato a New York con quella grande signora che, sai è francese, non le porta le mutande là sotto?).


  • Die Hard-trappola di cristallo (1988):
    se non è un film natalizio Die Hard, non so, ditemi voi che è ambientato la vigilia di Natale alla sede della Nakatomi. Bruce Willis ha il merito di averci regalato un Babbo Natale che ha superato la prova del tempo. Un nazista morto, coi piedi piccoli e una maglia griffata da urlo, oh-oh-oh! È un film che ha avuto il merito di riscrivere un genere ponendo al centro non un eroe invincibile e senza paura come era stato fino a quel momento ma un uomo che si trova davanti a una situazione più grande di lui ma a cui non può sottrarsi (Trappola di Cristallo è comunque un unicum in quanto il genere ha deviato presto sulle vecchie abitudini, a partire anche dai capitoli successivi di questa saga). Questo è il film che ha consacrato Bruce Willis come star del grande schermo (era considerato dai più non adatto al ruolo darto che veniva dal successo di Moonlighting, la serie tv comica che vi invito di recuperare al più presto se volete vedere un Bruce Willis più che mai poliedrico).


  • La storia Fantastica (1987)
    : Natale è un periodo in cui sognare è concesso più che in altri momenti dell’anno e non c’è modo migliore di farlo che con una fiaba. Da piccolo volevo essere il pirata Roberts, imbattibile spadaccino vestito di nero capace di affrontare ogni nemico e sconfiggerlo: era forte, abile nella scherma, astuto, pieno di risorse e puro di cuore. Epico il duello di spada con l’altra immortale icona degli anni 80, Inigo Montoya e la sua sete di vendetta («Hola. Mi nombre es Iñigo Montoya. Tu hai ucciso mi padre, preparate a morir.»). Memorabili gli scambi tra il nonno (Peter Falk) che legge la fiaba di Westley e Bottondoro al nipote influenzato (Fred Savage - Piccoli mostri, Blue Jeans, il piccolo grande mago dei videogames). Robin Wright (Bottondoro) mozzafiato. «Quel giorno si accorse con stupore che tutte le volte che lui le diceva "ai tuoi ordini", in realtà voleva dirle "ti amo".»


  • Una poltrona per due (1983):
    Babbo Natale non si mette nemmeno le mutande se prima non ha controllato che nel palinsesto di Italia 1 del 24 dicembre rientri questa commedia del 1983 firmata John Landis. Gli alti dirigenti del Biscione farebbero bene a non dimenticarselo se non vogliono rovinare il Natale a tutti. Un film di Natale in cui si vede un tentato suicidio, si odono parolacce ogni volta che un angelo mette le ali e si ammirano tette a profusione («Sei mi dai una botta con quelle tette mi ammazzi.»), prostitute e svariate droghe psicotrope per addobbare l’albero. Vista così, capisco perché in prima serata non ci finisce mai. Aspettiamo che i benpensanti escano di casa per andare alla funzione di mezzanotte. Eddie Murphy dà il meglio di sé nella parte del veterano di guerra senzatetto, cieco e pure zoppo. Esilarante l’incontro con i poliziotti che gli fa ritrovare le gambe mutilate in azione (compresa la vista). Dan Aykroyd è il dirigente che perde tutto, compresa dignità e voglia di vivere per colpa di una sciocca scommessa, che troverà conforto in Jamie Lee Curtis (come lo capisco). La scena dello scambio di valigette sul treno è l’esatta trasposizione di come scrivo gli episodi più spassosi di Chi Più Re di Noi: situazioni oltre al limite del credibile condotte con una faccia tosta da applausi. Due menzioni d’onore: il maggiordomo di Dan Aykroyd prima e di Eddie Murphy poi, è niente popò di meno che Denholm Elliot (interprete del Dr. Marcus Brody nella saga di Indiana Jones); il famigerato Clarence Beeks che fa il doppio gioco per i fratelli Duke invece è Paul Gleason, iconico preside del liceo di Breakfast Club. Ma il gorilla sul treno poi, lo sapete chi è?


  • Mamma ho perso l’aereo & Mamma ho riperso l'aereo:
    mi sono smarrito a New York: l’accoppiata esiste per pura par-condicio in quanto il secondo non esisterebbe senza il primo. In realtà quello che ha caratterizzato di più la mia infanzia è stato il capitolo ambientato a New York (la VHS di Mamma ho perso l’aereo in casa mia non c’era). Chi non ha mai desiderato, da piccolo, di ritrovarsi in casa senza genitori, fratelli stronzi, cugini piscialetto e zii insopportabili? Cosa avreste fatto? Tutto quello che mamma a papà vi avevano sempre proibito di fare: saltare sul letto, andare a dormire tardi, guardare film violenti, ingurgitare qualsiasi tipo di schifezza immaginabile. Facciamo parte, allora, dello stesso club del piccolo di casa McCullister, Kevin («KEVIN!!!») alias Macaulay Culkin, attore prodigio degli anni 90. Una piccola peste in grado di sgominare due ladri maldestri ma determinati (Joe Pesci e Daniel Stern) ma non di sconfiggere la sua paura del seminterrato e del vecchio che si aggira nel quartiere armato di pala e secchio in cui, si racconta (Buzz), che infili i corpi delle sue vittime. Nel secondo capitolo ci sono le luci della città che non dorme mai a fare compagnia a Kevin e una sfarzosissima suite d’albergo (gestito dai migliori idioti della città - semicit), tra cui Tim Curry e il suo inquietante sorriso da Grinch e Rob Schneider (caratterista in quasi i tutti i film di Adam Sandler). Qui Kevin fa amicizia con una senzatetto che dà da mangiare ai piccioni a Central Park (interpretata da Brenda Fricker). Tra l’uomo con la pala e la signora dei piccioni ho le idee chiare su chi sia il mio “aiutante dell’eroe” preferito, ma non lo dirò. Nota finale: è stata scritta per Home Alone 2 la canzone che appena l’ho ascoltata è diventata LA canzone di Natale: All alone on Christmas by Darlene Love (nel videoclip ufficiale anche la E Street Band con il piratesco Steven Van Zandt a gigioneggiare e il sassofono di Clarence Clemons a spruzzare il tutto di puro sound anni ‘80).


  • Love Actually (2003):
    un film corale che funziona senza annoiare e che conclude tutte le storyline in maniera eccellente, lasciando lo spettatore pienamente soddisfatto e con l’amore tutt’attorno. Adoro le commedie britanniche per il loro humour e, perché, gira e rigira gli attori sono sempre gli stessi e ogni volta sembra di entrare in casa dei nonni per il cenone e ritrovare i parenti che non vedevi dallo scorso Natale. Il grande nome in cartellone è quello del re per eccellenza della commedia romantica all’inglese: Hugh Grant, qui nei panni del nuovo primo ministro inglese appena insediatosi. Celebre il ballo sulle scale sulle note delle Pointer Sisters “Jump (for my love)” e della battuta di fronte al ritratto di Margareth Thatcher. La seconda storyline è quella che vede il futuro sceriffo di The Walking Dead, Andrew Lincoln, innamorato della fidanzata (dopo cinque minuti dall’inizio del film la vediamo diventare moglie) del suo migliore amico. Il gesto della dichiarazione d’amore davanti alla porta di lei (Keira Knightley) con i cartelli ci ha messo trenta secondi per diventare iconica. La terza storia ha per protagonista il nostro compianto Alan Rickman, alle prese con una segretaria avvenente e civettuola decisa a portarlo sulla strada dell’adulterio (Emma Thompson interpreta la moglie). Inaspettato il cameo di Rowan Atkinson nella parte del commesso del centro commerciale in cui Rickman si ferma per comprare un regalo. In tema di corna, Colin Firth è qui uno scrittore che scopre la fidanzata a letto con suo fratello e parte per Marsiglia per dimenticare la delusione d'amore e finire di scrivere il suo romanzo. A mio modesto parere, è il finale che spetta a questo personaggio quello più toccante del film. Tenetevi saldi perché siamo solo alla quinta storia, quella che vede Liam Neeson come vedovo e padre di un ragazzo in preda alle gioie e ai dolori del primo innamoramento. Piuttosto irreale ma entusiasmante l’inseguimento in aeroporto. Laura Linney e Kris Marshall sono rispettivamente un’impiegata perdutamente innamorata di un suo collega e un giovane coglione in fotta che parte verso gli Stati Uniti con il solo piano di fornicare come un coniglio nella ferma convinzione che il suo accento britannico gli spalanchi le gambe di qualsiasi donna. Martin Freeman, che sarà poi Bilbo Baggins per Peter Jackson e il Dottor Watson nel magistrale serial Tv “Sherlock”, fa qui la parte di un’impacciata controfigura per film hard. Ho lasciato invece per ultimo il fenomeno, quello che meriterebbe uno Stand-alone che però quasi certamente vanificherebbe tutte le aspettative lasciandoci interdetti e pentiti: il rocker in declino Billy Mack (Bill Nighy) è l’irriverenza allo stato puro. Sboccato, offensivo, sconclusionato e senza nessun filtro tra il suo pensiero e il comune pudore è il personaggio più memorabile di questo film fatto di individualità tutte connesse tra loro e che invoglia a guardarlo ogni volta che l’occasione si presenta, spontanea o forzata che sia.


  • La vita è meravigliosa (1946)
    : un vero classico di Natale che io ho scoperto solo da adulto. Questo anche perché, non so da dove, avevo la ferma convinzione che i film “vecchi” fossero banali, piatti e frivoli. Questo film del 1946 diretto da Frank Capra, che annovera un cast di eccellenze quali James Stewart e la bellissima Donna Reed, è profondo, cupo e brillante. L’alchimia tra i due protagonisti è palpabile e, nel momento in cui tra loro scatta l’amore, ci innamoriamo anche noi (da sospiri la scena della telefonata). Il plot del film risponde alla domanda: come sarebbe cambiato il mondo se io non fossi mai esistito? È questo ciò che desidera il protagonista George Baley guardando le acque nere del fiume sotto di lui mentre medita il suicidio, la notte della vigilia di Natale sotto una tormenta di neve. Fanno sorridere le rappresentazioni di Dio, Gesù e l’angelo custode che scenderà in missione per salvare James Stewart ma è l’unico indizio che si tratti di un film che ha più settant’anni. Non scopro l’acqua calda ma trovo James Stewart di una bravura ineguagliabile e, diversamente da quello che la sua fisicità allampanata e sottile potrebbe far pensare, scopriamo che è credibile anche come strategico tombeur-de-femmes. Un film che al suo esordio non ebbe il successo sperato ma divenuto poi un imprescindibile classico.


  • Prossima fermata: paradiso (1991)
    : un uomo muore in un incidente automobilistico e finisce in un mondo ultraterreno dove dovrà affrontare un processo alla sua vita. Se riuscirà a dimostrare di non essere più schiavo della paura andrà avanti, altrimenti dovrà tornare indietro e riprovarci, ancora e ancora. Un film scritto e interpretato dal comico Albert Brooks con una protagonista d’eccezione: Meryl Streep. Credo davvero che siamo in pochi a conoscerlo ma vi consiglio di recuperarlo se non altro per la filosofia che sottende all’immaginazione de “La città del giudizio”, dove le anime attendono di conoscere il loro destino:  si può mangiare a sazietà senza mai prendere un etto, qualsiasi cosa ha un gusto delizioso e tutto è permesso. Durante la visione non si riesce proprio a non farsi un esame di coscienza sul modo in cui conduciamo la nostra vita. La paura è insita nel nostro DNA e anche se è un meccanismo di autodifesa, allo stesso tempo è un freno che ci limita, ci chiude e ci impedisce di trovare quella felicità che, come esseri umani, cerchiamo senza riposo e che sta proprio al di là della nostra zona di comfort. NB: molto divertenti i dialoghi sul cibo tra il protagonista e il suo avvocato che, con un’intelligenza di gran lunga superiore a quella umana, è in grado di modulare la percezione dei sapori e ingurgita poltiglie per nulla invitanti. 

  • Dutch è molto meglio di papà (1991):
    altro film sconosciuto ai più e che io conosco soltanto perché avevo la solita VHS registrata dalla TV. In realtà è una storia ambientata per la festa del Ringraziamento che però, si sa, fa da apripista a tutte le altre. Scritto da John Hughes, padre del Brat pack e di tutte le commedie adolescenziali degli anni 80. Nominatene una e quasi sicuramente c’è lo zampino di Hughes (Sixteen candles, The Breakfast Club, La donna esplosiva, Bella in rosa, Una pazza giornata di vacanza, etc etc). Il film è considerato un flop ma trovo formidabile la performance di Ed O’neill che per la maggior parte di voi è Nonno Jay di Modern Family. Dutch è il nuovo compagno della madre dell’adolescente Doyle, che si offre di andare a prendere dal college privato e facoltoso in cui studia, per portarlo a casa per le feste. Doyle stravede per il padre, che però non lo calcola di striscio e preferisce passare il Ringraziamento con una delle sue tante squinzie. Il rapporto di Doyle e Dutch parte subito storto, soprattutto per quest’ultimo che viene preso a pedate nei testicoli ancora prima di scambiarsi un saluto (la madre non li ha ancora presentati). “Dutch è molto meglio di papà” è un divertente road movie che, però, credo perda un po’ del suo umorismo con il doppiaggio italiano. Mi aspetto questo dall’enorme verve di Ed O’Neill che si è fatto le ossa nel vasto mondo delle situation comedy americane. Dutch è un padre adottivo pieno di risorse, non sempre politicamente corretto, vizioso, sadico e dal cuore grande.


  • Star wars trilogia classica
    : non sono proprio film a tema Natale, e forse il Natale nemmeno esiste nel mondo creato dalla mente di George Lucas (se vogliamo escludere, e lo vogliamo, lo speciale di Natale con protagonista la famiglia Chewbacca), però ho questo nitido ricordo che per alcuni anni Mediaset li proponeva la sera del 31 dicembre. Chi mi conosce sa che non sono un fan accanito, un attimo…non sono proprio un fan di Guerre Stellari (i cambi sequenza mi scatenano la narcolessia e trovo ripetitive le soluzioni per sconfiggere l’impero - attacchiamo la nave grossa con un manipolo di suicida raccattati tra le file della Resistenza e puntiamo verso quel gigantesco errore di progettazione) ma guardare, anche se di sfuggita, storie epiche di mondi incredibili, proiettati in un futuro mirabolante pieno di magia, eroismo e salti nell’iperspazio con QUELLA colonna sonora di John Williams, immagino fosse un buon modo per pensare a un nuovo inizio, appena la lancetta di mezzanotte avesse compiuto uno scatto in avanti.


  • Armageddon, Men in Black, Il Quinto Elemento
    : ok, di natalizio non hanno niente ma questa non è una lista rigorosa e universale ma mia, piccola e di parte. Siamo al Natale del 1999 (io avevo 13 anni) e nella letterina sotto l’albero avevo chiesto di ricevere questi tre film perché in due di questi c’era il mio eroe d’azione preferito, Bruce Willis e nell’altro il mio attore afroamericano preferito, Will Smith. Nient’altro ma impeditemi voi di pensare al Natale quando li riguardo, se ci riuscite.


  • Notting hill (1999)
    : l’anno me lo ricordo, era il 2000 e ricordo anche dove fossi quando l’ho visto per la prima volta: durante le feste a casa della nonna. Mio zio, che aveva registrato il film da Tele+, mi fece una premessa prima di inserire la cassetta nel videoregistratore: “Mi chiederai di rivederlo”. E fu proprio così. L’arco narrativo di questo film dura circa un anno (celebre la scena in cui Hugh Grant passeggia lungo Portobello Road passando da una stagione all’altra) ma per l’associazione legata al ricordo della prima visione e per il messaggio (un sogno quasi impossibile - avevo 14 anni, guardavo un sacco di film e mi innamoravo di tutte le protagoniste - che diventa Realtà: il ragazzo della porta accanto che conquista il cuore della più lucente stella di Hollywood) è una storia che mi piace riguardare ogni Natale. Film con una soundtrack di tutto rispetto (Ain’t no sunshine By Bill Withers; Gimme some lovin’ by Spencer Davis Group; She by Elvis Costello), anche se alcuni brani risentono di un sound eccessivamente anni ‘90 che ad ascoltarli oggi ti fanno sentire addosso tutto il tempo trascorso e salire la malinconia bastarda (Do Cherish you by 98 Degrees). La canzone interpretata da Ronan Keating “When you say nothing at all” è probabilmente quella, ad oggi, più associata alla pellicola e quella scolpita di più nella memoria di chi, in quel periodo, viveva una relazione o ne cominciava una. Decine, centinaia, migliaia di coppie, ne sono sicuro, nell’estate del 1999 e in quella successiva si sono strette ballando questa canzone. Chissà a quanti DJ è stato chiesto di metterla su ancora e ancora, matrimonio dopo matrimonio. «Brutto cazzone avariato!» è la battuta più celebre se non si tiene conto della dichiarazione d’amore che Julia Roberts fa a Hugh Grant («Sono solo una semplice ragazza che sta di fronte a un ragazzo e gli sta chiedendo di amarla.»), anche questa entrata nella lista delle frasi più belle e citate della storia del cinema. La mia scena preferita? Quella della cena a casa degli amici, in cui William (Grant) si presenta accompagnato da Anna Scott (Roberts), scioccando tutti, tranne uno. Bhè, che dire ancora: i lettori di Cavalli e Segugi ne saranno deliziati.

                                 
 
                                                                             

venerdì 27 novembre 2020

Dentro il libro e oltre: No Vacancy for Erasmus


 


Se fino a ieri avevamo scherzato, con “No vacancy for Erasmus” il gioco comincia a farsi serio. In un ennesimo capitolo “pillola” si ravvisano una summa di tutti gli elementi che coloreranno il resto del romanzo. Fino a “La regola di Platino” il lettore viene preparato a quello che succederà con parole confortanti: un dottore che ci rassicura che sentiremo solo un pizzico appena prima di farci la puntura e ci massaggia il culo con un batuffolo di cotone imbibito nell'alcol. No vacancy for Erasmus è il pizzico, che proprio indolore non è ma che ancora non è il peggio. Quello arriverà quando lo stantuffo nella siringa comincerà a scendere e il liquido inizierà a diffondersi bruciando come l’inferno. Questo il lettore deve aspettarsi dal vaccino contro la normalità che Chi Più Re di Noi ha preparato per lui sperando che, a un certo punto, la cosa non prenda la piega di un esame della prostata.

Ma non è il momento di preoccuparci, ascoltiamo il dottore e speriamo che dica il vero.


No Vacancy for Erasmus parla di Bologna vista per la prima volta da un forestiero di provincia: tutto e tutti si mostrano da un prospettiva nanesca anche se si è più alti della media nazionale. La paura, l’ignoto e l’insicurezza, lo sappiamo, hanno la capacità di farci vedere tutto molto più grande di quanto in realtà non sia, e molto più minaccioso. Ma con questo non voglio dire che Bologna mi apparve minacciosa, la prima volta. Nient’affatto. Per fare un paragone azzardato, fu come quando Harry Potter entra per la prima volta a Diagon Alley attraverso quel muro di mattoni. Ogni cosa trasudava magia, ogni strada, ogni scorcio, ogni edificio era avvolto da una coltre di affascinante magnetismo. L’aria di Bologna è frizzante, ricca di opportunità. Un brulicare di uomini, mondi e storie sempre in movimento, come un fiume di vita: mentre ne ascolti una, centinaia di altre corrono via, trascinate dalla corrente senza poterle rincorrere o sperare di ritrovarle più in là. Bologna non è mai uguale a se stessa. È un organismo in costante trasformazione in grado di mantenere la sua identità e la sua magia intatte nel tempo. Bologna non è solo edifici, storia, aneddoti. Bologna sono le persone che la vivono, che la attraversano. 

Bologna è spirito, è stato d’animo.

Per un iscritto alla facoltà di Lettere e Filosofia, corso in Antropologia, Bologna è più che altro via Zamboni, al 38, la sede che è sempre la prima a divenire oggetto di scioperi, autogestioni, proteste. Ne ho visitate di altri sedi nel corso dei miei studi bolognesi ma il 38 è l’unico che sembra la casa dei Delta di Animal House reduce da una festa pazzesca delle loro. E questo nei giorni normali. Nei giorni di lotta il 38 si trasforma in una Beirut deflagrata dalle bombe. 

Oltre a murales più o meno elaborati, più o meno artistici, più o meno politici o divertenti, via Zamboni, piazza Verdi e le strade intorno hanno muri e muri imbrattati di avvisi di ricerca coinquilini del genere più disparato: scritti a mano, con pennarelli sottili, a matita, evidenziati, con numeri di telefono da strappare, con foto che dovrebbero inquadrare scorci di appartamento ma che invece sembrano opere d’arte moderna da quanto non si capisce un cazzo. Il titolo del capitolo deriva dal fatto che molti di questi annunci di convivenza recavano la scritta NO ERASMUS. 

La cosa mi stupì. 

Cioè, a stupirmi non era la tendenza dell’essere umano a ghettizzare i suoi simili, che è ben nota, quanto più perché non riuscivo a figurarmi i motivi specifici che avevano generato questa decisione unanime non programmata. 

Che combinavano gli Erasmus negli appartamenti di Bologna? 

Questo è un mistero che ancora aleggia sulla città e di cui non sono riuscito a venire a capo ma almeno mi è servito come spunto per creare l’ALSEf (Associazione Libera Soccorso Erasmus - femmine). 

Ma andiamo con ordine.


Una vera esperienza con uno studente Erasmus non l’ho mai avuta, ma questo non vuol dire che non l’avrei voluta. Più che altro, per quasi tutto il periodo universitario il vero erasmus sono stato io, questa è la verità. Il pendolare è il vero erasmus, emarginato come Giuda, non viene trattato bene nemmeno per compassione dato che, a differenza degli studenti stranieri, conosce bene la lingua e non ha quel che di esotico che anche se hai un’estetica più assimilabile a quella di un pitale, prima o poi qualcuna ci casca e per pietà te la smolla. Il pendolare non se lo calcola nessuno. Arriva giusto giusto per l’inizio delle lezioni e quando gli impegni accademici finiscono, non può rimanere nemmeno per la parte più bella dell’università, gli aperitivi in via del Pratello, perché deve correre come stronzi fino in stazione e tornarsi a casa. I veri reietti sono loro ed era giusto che qualcuno lo dicesse.

Solo quando mi sono trasferito le cose hanno cominciato a cambiare. Purtroppo, però, avendolo fatto solo al terzo anno tutti i compagni di corso ne avevano avuto ormai a sufficienza della vita notturna che Bologna offriva e si affrettavano a laurearsi e a passare di livello. In ogni caso non posso lamentarmi, ho visto e fatto cose che mi porterò dietro per sempre. Come il mezzo infarto per correre fino a San Luca inseguendo una forma fisica accettabile.

Come dicevo, in No Vacancy for Erasmus c’è il primo accenno all’Alsef, associazione libera soccorso erasmus (Femmine). Davvero uno dei più brutti acronimi mai scritti. Nonostante questo non l’ho mai voluto cambiare perché non si possono disconoscere le prime volte. In fondo, queste costituiscono una linea di confine che si oltrepassa solo una volta nella vita, come Sam Gamgee e quel passo fuori dalla Contea che sarebbe stato il primo mai fatto così lontano da casa.


I membri dell’ALSE(f) sono in servizio 7 giorni su 7, 24 ore su 24, il lavoro non li spaventa, il conto non vi spaventa ma è il martedì Erasmus il giorno in cui Bologna punta, sulla coltre di nubi che la avvolgono, un faro per richiamare gli eroi di cui ha bisogno ma che non merita. Durante il Martedì Erasmus i locali si affollano di studenti e studentesse stranieri a cui vengono riservati sconti e per cui si organizzano feste ed eventi di ogni sorta. Bere in economia e abbassare la guardia è quindi ciò che basta ai membri Alsef per avere successo e farsi acclamare con sacrifici rituali e idoli d’oro dai propri simili.

Comunque sia, in No Vacancy for Erasmus bastano poche righe per fare deflagrare, uno dopo l’altro, un rosario di ricordi e easter egg: 

1- Il motto di rimorchio che ha Tetteballerine («Punta la gnocca ubriaca!») è una citazione presa pari pari da “40 anni vergine”, il peggior film horror che abbia mai visto. Sul serio, mi ha fatto cacare addosso dalla paura.


-Alessio, ma 40 Vergine non è un film Horror.

-Lo dici tu, ma se siete dei ragazzi di 20 anni che non hanno ancora provato il piacere di un rapporto consensuale con un altro essere umano, e scoprite che qualcuno ha fatto un film sulla vostra vita, vi sfido a mantenere la calma. Sì, perchè, oltre alla condizione di castità c’era tanto altro, troppo, che avevo in comune con il personaggio interpretato da Steve Carell. Lui va a lavoro in bicicletta, tanto per cominciare.

-Massì, che vuoi che sia!

-Si infilava il bordo dei calzoni dentro il calzino così da non sporcarlo con il grasso della catena.

-Sei come mio nonno, ma fidati: è solo una coincidenza.

-Lavorava in un negozio di elettrodomestici e io da 4 anni passavo tutte le estati lavorando all’Euronics di Forlì.

-Ecco forse…

-Lui era impiegato lì come magazziniere e indovina un po’ qual era la mia mansione?

-Avrebbe fatto cagare a spruzzo anche me, hai ragione…

Vorrei a questo punto tranquillizzarvi annunciando ufficialmente, in diretta mondiale, che il sottotitolo del film della mia vita non potrà più essere “40 anni vergine” ma che resta in piedi il ballottaggio tra “L’attimo fuggente” e “Scemo & +Scemo”.

2- Ritorna l’antropologia urbana con il Sistema Waikiki, in cui non ho fatto altro che dare un nome fico a un’antica consuetudine degli uomini-guerrieri per infondersi coraggio prima di affrontare una battaglia che sarà dolorosa e che potrebbe essere l’ultima. Vi invito a scoprire di che si tratta in Chi più Re di Noi.

3- Introduciamo il concetto di “ruttoconlegambe”, mutuato dall’amico Foc e in gran voga nella gelateria (De Fanti) in cui ho lavorato per tre anni imparando un sacco, ridendo di brutto e vedendone di tutti i gusti…ehm…colori. Un ruttoconlegambe è la declinazione romagnola del più noto e inflazionato cessocoipedali, ma molto meno divertente. 

La Romagna ha una marcia in più, non c’è niente da fare!

La canzone che ho scelto come accompagnamento musicale è Baba O’Riley degli Who. Il motivo è semplice: è un brano che fondamentalmente si basa sull’attesa, quella dell’intro lunghissimo e leggendario, completamente strumentale. È attesa gloriosa come il riscaldamento che l'atleta fa prima di scendere in pista e dare tutto se stesso. Un momento di stasi che, per assurdo, è colmo di fervore e forza. Lo stesso stato d’animo che hanno i ragazzi come Zanna, Tette e Spanky prima di uscire di casa e mostrarsi al mondo e meritarsi uno spazio, in quel marasma, per restare al sole. In quella convinzione che a tutto o niente, a successo o sconfitta non ci siano alternative e compromessi e che una figura grama ti marcherà a fuoco per sempre. 


NB: l’immagine di copertina di questo episodio di Chi più Re di Noi penso che credo raffigurasse una giovane Lindsay Lohan parecchio alticcia, che si sposava bene con la condizione in cui descrivo i soggetti erasmus soccorsi dal nostro manipolo di eroi.






                                 
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