Max Payne: una fredda giornata d'inferno
La mazza da Baseball
Mi risvegliai nel mezzo di un incubo. La mia testa sembrava due volte troppo piccola per il cervello.
«Max Payne, lo sai che invidio il tuo nome? Piacere di conoscerti. sono Frankie "mazza" Niagara.»
«Niagara perché soffri d'incontinenza?» la battuta era quanto mai fiacca, lo riconosco, ma un po' di pazienza, i postumi del mio incubo lisergico gironzolavano ancora confusi cercando l'uscita. In ogni caso sfottere Frankie Niagara non era la cosa più intelligente da fare: io ero legato a una seggiola e lui aveva una mazza da baseball e non aveva paura di usarla. Tentò di battere un fuoricampo con la mia testa ma mi fece arrivare soltanto a battere i denti contro il pavimento.
Strike uno.
Con la sedia sempre attaccata al culo, dapprima mi girò su un fianco, poi mi rimise a sedere. La mia nuca, intanto, ciondolava come la statuetta a molla sul cruscotto di ogni pickup degno di questo nome. Sputai un po' di sangue davanti a me, incurante di schizzare lui e le sue lucide scarpe di vernice. Quello fu il secondo lancio dalla collinetta. WACK! Una palla tesa. Lo spigolo della mazza svirgolettò sopra il mio orecchio, poco lontano dalla tempia destra. Il collo schioccò preoccupante. Gli occhi mi si riempirono di stelle, luci e lampi. Digrignai i denti. Chiusi gli occhi e provai a rilassarmi. Sarebbe stata la mia tensione a spaccarmi in due, non la roncola spietata di una mezzatacca sessualmente repressa con dei conflitti irrisolti con il padre. Brandiva una mazza e si sentiva un gran fico.
E comunque strike due, pezzodimerda.
La terza palla arrivò prima del segnale del ricevitore, era una palla curva e mi sgomitò come si deve il setto nasale, che esplose. Il sangue prese a colare giù a fiotti, inondando le narici e la bocca. Prima che l'istinto di sopravvivenza mi facesse piegare la testa in avanti per non affogare col mio sangue ne ingoiai parecchio, caldo e vischioso.
«Non c'è niente in una sana risata di tanto in tanto. Prendi me: amo guardare i cartoni animati. Violenza solo disegnata, affascinante.» Frankie si asciugò con un fazzoletto il sudore della fronte, e continuò. «Facciamo una pausa, devo fare un salto in bagno, e magari concedermi una birra gelata. Tu non preoccuparti: tornerò presto a finire il mio lavoro e non ci saranno altre repliche.
Se ne andò con aria baldanzosa, sbatté la porta e quindi la chiuse saldamente a chiave.
Tutti commettiamo errori. Il mio non era stato di sfottere un bifolco con una mazza, visto che mi avrebbe fracassato ugualmente il cranio, e nemmeno fidarmi di una ragazza con la pistola. Mi ero lanciato come un idiota all'inseguimento della prima persona sulla lista mentre avrei dovuto mirare fin da subito alla testa della famiglia Puncinello. Chissà perché ma non riuscivo a prendermela con Mona per la situazione in cui mi trovavo.
Frankie mi aveva giurato, mano sul cuore, che sarebbe tornato a prendermi ma avevo troppa paura del buio per aspettarlo. Appena la commozione cerebrale si stancò di inondarmi di conati di vomito, cominciai a spostare il mio peso sulla sedia. Quando, dopo il primo colpo in testa ero caduto a faccia in giù, il legno aveva mandato uno scricchiolio secco e acuto. Ora, da solo in una stanza silenziosa, mi resi effettivamente conto di quanto ogni mio movimento sulla seduta la facesse cantare e flettere. Legato dal petto alle gambe come un pezzo di arrosto, non potevo che fare perno con la punta dei piedi e aiutarmi muovendo la testa avanti e indietro. C'era solo un modo e non potevo sbagliare e riprovare. Non sarebbe servito a nulla cadere di nuovo in avanti se non rovinare quel canone di bellezza greca che era il mio viso, né di lato, a meno che non morissi dalla voglia di bucarmi un polmone con una costola. All'indietro, e a tutta forza.
Oscillai per tre volte, la seconda rimasi in bilico, il collo ritto e teso come a trattenere un orgasmo. La terza mi uscì con lo slancio giusto. Sotto il mio peso, il vecchio legno cedette lasciandomi andare. Per poco non mi spezzai un polso. Le corde che mi stringevano, tese fino a quando lo scheletro della sedia era rimasto integro, ora caddero flosce attorno a polsi e caviglie. Me ne liberai e mi misi in piedi. Mi guardai attorno, tanto per capire in quale buco di culo mi avessero ficcato a forza. Con sommo sconforto realizzai che ero di nuovo nel seminterrato dell’albergo di Lupino. Più o meno dove avevo trovato l’uomo con la testa sfondata. Stesso modus operandi.
Ero stordito, acciaccato e violaceo.
Tutto quello che avevo era la mazza del signor Niagara, impiastricciata del mio stesso sangue, appoggiata accanto allo stipite della porta chiusa. Senza una vera arma non avrei potuto fare molto contro gli uomini di Frankie ma almeno era meglio che prenderli a sputi e insulti brillanti. Dovevo per forza giocare a nascondino.
Quando lo sollevai, il bastone lasciò una chiazza rossa sul pavimento e dalle venature scesero rivoletti di sangue in eccesso. Scostai la porta, Frankie non l’aveva chiusa a chiave.
Tanto, dove cazzo sarei potuto andare legato come una puttana ninfomane?!
Lungo il corridoio che mi trovai a sbirciare dalla fessura vidi le schiene di due uomini che facevano la ronda.
«Se ne deve occupare Frankie!» ribadì quello di sinistra.
«Sì, sì, va bene, ho capito!» rispose spazientito l’altro, con un forte accento italiano.
«Mi farai diventare scemo!»
«Quante storie! Se se lo vuole accoppare Frankie, se lo accoppi pure, fanculo!»
Che si litigassero il mio scalpo non era una novità, e se la cosa li faceva distrarre tanto da farmi avvicinare senza che mi sentissero, che facessero pure. Sgusciai fuori dalla mia prigione e feci roteare la mazza così veloce che sibilò prima di rompere l’osso del collo all’italiano gesticolante. L’uomo andò giù come se il colpo gli avesse fatto saltare la centralina. L’arma che aveva in mano scivolò a qualche metro da me.
Il collega si voltò a guardarmi. Aveva l’espressione di qualcuno che ha appena annusato una scorreggia non sua dentro un luogo angusto. Mi puntò la pistola al petto ma l’estremità della mazza da baseball gli affondò nello stomaco prima che potesse usarla. Si piegò in avanti per il dolore, così potei sbriciolargli a dovere la mandibola. Sputando sangue e denti cadde all’indietro picchiando violentemente il capo. Stordito e incapace di chiamare aiuto cercò comunque di rimettersi in piedi per continuare la nostra conoscenza ma gli cantai la stessa ninna nanna che Babe Ruth sussurrava alla palla prima di sbatterla nella stratosfera. La testa dell’uomo, però, si eclissò con meno poesia. Saccheggiai i due malcapitati e mi riarmai: pistole, munizioni, sigarette e una scatola di aspirine.
Ne presi una manciata generosa, tanto per far capire al mal di testa chi comandava.
- Dove c'eravamo lasciati: Capitolo 1
- Dove tutto è iniziato: Max Payne: il sogno americano