Alessio Chiadini Beuri

domenica 31 marzo 2024

Capitolo 1 - Parte Seconda

 Max Payne: una fredda giornata d'inferno

La mazza da Baseball




Mi risvegliai nel mezzo di un incubo. La mia testa sembrava due volte troppo piccola per il cervello.


«Max Payne, lo sai che invidio il tuo nome? Piacere di conoscerti. sono Frankie "mazza" Niagara.»

«Niagara perché soffri d'incontinenza?» la battuta era quanto mai fiacca, lo riconosco, ma un po' di pazienza, i postumi del mio incubo lisergico gironzolavano ancora confusi cercando l'uscita. In ogni caso sfottere Frankie Niagara non era la cosa più intelligente da fare: io ero legato a una seggiola e lui aveva una mazza da baseball e non aveva paura di usarla. Tentò di battere un fuoricampo con la mia testa ma mi fece arrivare soltanto a battere i denti contro il pavimento.

Strike uno.

Con la sedia sempre attaccata al culo, dapprima mi girò su un fianco, poi mi rimise a sedere. La mia nuca, intanto, ciondolava come la statuetta a molla sul cruscotto di ogni pickup degno di questo nome. Sputai un po' di sangue davanti a me, incurante di schizzare lui e le sue lucide scarpe di vernice. Quello fu il secondo lancio dalla collinetta. WACK! Una palla tesa. Lo spigolo della mazza svirgolettò sopra il mio orecchio, poco lontano dalla tempia destra. Il collo schioccò preoccupante. Gli occhi mi si riempirono di stelle, luci e lampi. Digrignai i denti. Chiusi gli occhi e provai a rilassarmi. Sarebbe stata la mia tensione a spaccarmi in due, non la roncola spietata di una mezzatacca sessualmente repressa con dei conflitti irrisolti con il padre. Brandiva una mazza e si sentiva un gran fico. 

E comunque strike due, pezzodimerda.

La terza palla arrivò prima del segnale del ricevitore, era una palla curva e mi sgomitò come si deve il setto nasale, che esplose. Il sangue prese a colare giù a fiotti, inondando le narici e la bocca. Prima che l'istinto di sopravvivenza mi facesse piegare la testa in avanti per non affogare col mio sangue ne ingoiai parecchio, caldo e vischioso.


«Non c'è niente in una sana risata di tanto in tanto. Prendi me: amo guardare i cartoni animati. Violenza solo disegnata, affascinante.» Frankie si asciugò con un fazzoletto il sudore della fronte, e continuò. «Facciamo una pausa, devo fare un salto in bagno, e magari concedermi una birra gelata. Tu non preoccuparti: tornerò presto a finire il mio lavoro e non ci saranno altre repliche.

Se ne andò con aria baldanzosa, sbatté la porta e quindi la chiuse saldamente a chiave. 

Tutti commettiamo errori. Il mio non era stato di sfottere un bifolco con una mazza, visto che mi avrebbe fracassato ugualmente il cranio, e nemmeno fidarmi di una ragazza con la pistola. Mi ero lanciato come un idiota all'inseguimento della prima persona sulla lista mentre avrei dovuto mirare fin da subito alla testa della famiglia Puncinello. Chissà perché ma non riuscivo a prendermela con Mona per la situazione in cui mi trovavo. 

Frankie mi aveva giurato, mano sul cuore, che sarebbe tornato a prendermi ma avevo troppa paura del buio per aspettarlo. Appena la commozione cerebrale si stancò di inondarmi di conati di vomito, cominciai a spostare il mio peso sulla sedia. Quando, dopo il primo colpo in testa ero caduto a faccia in giù, il legno aveva mandato uno scricchiolio secco e acuto. Ora, da solo in una stanza silenziosa, mi resi effettivamente conto di quanto ogni mio movimento sulla seduta la facesse cantare e flettere. Legato dal petto alle gambe come un pezzo di arrosto, non potevo che fare perno con la punta dei piedi e aiutarmi muovendo la testa avanti e indietro. C'era solo un modo e non potevo sbagliare e riprovare. Non sarebbe servito a nulla cadere di nuovo in avanti se non rovinare quel canone di bellezza greca che era il mio viso, né di lato, a meno che non morissi dalla voglia di bucarmi un polmone con una costola. All'indietro, e a tutta forza. 

Oscillai per tre volte, la seconda rimasi in bilico, il collo ritto e teso come a trattenere un orgasmo. La terza mi uscì con lo slancio giusto. Sotto il mio peso, il vecchio legno cedette lasciandomi andare. Per poco non mi spezzai un polso. Le corde che mi stringevano, tese fino a quando lo scheletro della sedia era rimasto integro, ora caddero flosce attorno a polsi e caviglie. Me ne liberai e mi misi in piedi. Mi guardai attorno, tanto per capire in quale buco di culo mi avessero ficcato a forza. Con sommo sconforto realizzai che ero di nuovo nel seminterrato dell’albergo di Lupino. Più o meno dove avevo trovato l’uomo con la testa sfondata. Stesso modus operandi.

Ero stordito, acciaccato e violaceo.

Tutto quello che avevo era la mazza del signor Niagara, impiastricciata del mio stesso sangue, appoggiata accanto allo stipite della porta chiusa. Senza una vera arma non avrei potuto fare molto contro gli uomini di Frankie ma almeno era meglio che prenderli a sputi e insulti brillanti. Dovevo per forza giocare a nascondino. 

Quando lo sollevai, il bastone lasciò una chiazza rossa sul pavimento e dalle venature scesero rivoletti di sangue in eccesso. Scostai la porta, Frankie non l’aveva chiusa a chiave. 

Tanto, dove cazzo sarei potuto andare legato come una puttana ninfomane?!

Lungo il corridoio che mi trovai a sbirciare dalla fessura vidi le schiene di due uomini che facevano la ronda.

«Se ne deve occupare Frankie!» ribadì quello di sinistra.

«Sì, sì, va bene, ho capito!» rispose spazientito l’altro, con un forte accento italiano.

«Mi farai diventare scemo!»

«Quante storie! Se se lo vuole accoppare Frankie, se lo accoppi pure, fanculo!»

Che si litigassero il mio scalpo non era una novità, e se la cosa li faceva distrarre tanto da farmi avvicinare senza che mi sentissero, che facessero pure. Sgusciai fuori dalla mia prigione e feci roteare la mazza così veloce che sibilò prima di rompere l’osso del collo all’italiano gesticolante. L’uomo andò giù come se il colpo gli avesse fatto saltare la centralina. L’arma che aveva in mano scivolò a qualche metro da me. 

Il collega si voltò a guardarmi. Aveva l’espressione di qualcuno che ha appena annusato una scorreggia non sua dentro un luogo angusto. Mi puntò la pistola al petto ma l’estremità della mazza da baseball gli affondò nello stomaco prima che potesse usarla. Si piegò in avanti per il dolore, così potei sbriciolargli a dovere la mandibola. Sputando sangue e denti cadde all’indietro picchiando violentemente il capo. Stordito e incapace di chiamare aiuto cercò comunque di rimettersi in piedi per continuare la nostra conoscenza ma gli cantai la stessa ninna nanna che Babe Ruth sussurrava alla palla prima di sbatterla nella stratosfera. La testa dell’uomo, però, si eclissò con meno poesia. Saccheggiai i due malcapitati e mi riarmai: pistole, munizioni, sigarette e una scatola di aspirine. 

Ne presi una  manciata generosa, tanto per far capire al mal di testa chi comandava.



- Dove c'eravamo lasciati: Capitolo 1

- Dove tutto è iniziato: Max Payne: il sogno americano

mercoledì 15 marzo 2023

Capitolo 1

Max Payne: una fredda giornata d'inferno




L’incubo era sempre lo stesso: violente figure che si muovevano nell’oscurità, la risata isterica dell’assassino era come un rompicapo di deviata malvagità.

Mi ritrovai nella mia casa. Nella nostra casa. Lo stanco incedere della luce esterna diceva al mondo che il giorno era finito e che sulla città si stavano finalmente distendendo le ombre della notte. Ero in piedi sull'uscio. 
Mi voltai a guardare a destra, verso la cucina. 
Poi a sinistra, verso il soggiorno. 
Il gesto rapido mi sfanculò l’equilibrio e un montante di nausea e vomito salì dalle budella. La stanza iniziò a girare, sempre più veloce, e non si fermò più. Cercai a tentoni un appoggio saldo a cui affidarmi ma non lo trovai e mossi alcuni passi in avanti sbattendomene del fatto che stavo per vomitarmi addosso. Il pianto di un bambino arrivò fino a me, prima come una serie di note confuse in fondo al brusio che lentamente si faceva strada in un’emicrania omicida che mi stordiva e poi come lama tagliante che feriva profonda. A malapena sapevo ancora come mi chiamassi ma non avrei potuto sbagliare nel dare un nome a quella voce. Sono istinti che un padre acquisisce la prima volta che tiene in braccio un figlio.
Rose.
Rose era là da qualche parte e stava piangendo.
Quella consapevolezza  si azzuffò con le tinte torbidi di quell’incubo, dando spinta alle gambe per un nuovo slancio in avanti. Mi muovevo a rallentatore verso il corridoio. Annaspavo e pompavo ma le distanze non facevano che dilatarsi. Dovevo sbrigarmi o tutto sarebbe stato inutile, un’altra volta. Ancora un fallimento. Lo stesso, imperdonabile.
Stavolta sono in tempo, però, non posso fallire. 
Fai qualunque cosa ma non le abbandonarle di nuovo. Hanno bisogno di te, grand'uomo.
Salvale e le tue mani non saranno più macchiate del loro sangue, Max. 
Ti stanno aspettando, che diavolo pensi di fare?

«Max, NO! Ti prego, NO!»

Il grido di una donna.
Sto arrivando piccola. Resisti.
Finalmente imboccai il corridoio per le camere da letto. Il figlio di puttana si allungò a dismisura tanto che mi trovai in un lungo tunnel con una minuscola iride di luce ad aspettarmi impaziente. 
Un piede dietro l’altro, era facile, su. 
Le gambe mulinavano divorando un pavimento inconsistente come fumo e le braccia cercavano febbrili aria da spingere indietro. La casa si inclinò e la corsa divenne un’affannosa salita. Il piede scivolò e io caddi disteso battendo la faccia. Non sentii dolore e mi rialzai riprendendo a correre con più foga mentre mia figlia urlava a squarciagola il suo orrore.
Tranquilla, l’uomo cattivo non ti troverà, questa volta. Papà sta arrivando. Non piangere più.
Arrivai in fondo al corridoio con un ultimo, doloroso, colpo di reni.
Sono qui, ragazze.
Al posto della stanza di mia figlia, però, un altro corridoio si spalancò di fronte a me. Era nero e profondo, come l’appetito della Nera Signora. Senza cedere alla disperazione frugai le ultime forze e mi gettai a capofitto dentro l’oscurità. Cieco e furioso, il terrore di perderle di nuovo alimentò un incendio di paure che divampò in un corpo proiettato allo spasmo. Mi lasciai dietro anche il secondo corridoio senza quassi accorgermene. Il terzo lo divorai. l’ultimo lo superai senza respirare, gli occhi spalancati e la bocca contratta in un ghigno ferino.

«Maaax!» quella volta, sì, era Michelle.

Estrassi la pistola.
Ci avevo messo troppo? Avevo fallito ancora?

Ammazzati Max o al prossimo giro le ucciderai un'altra volta.

La cameretta di Rose. Il lettino era rovesciato su un fianco. Il lato sbagliato per poter vedere mia figlia. Scattai in quella direzione ma una voce maschile riempì l’aria e la vista della stanza di mia figlia si offuscò.

«Lo abbiamo trovato addormentato accanto al corpo di Lupino» la voce aveva un’eco così terribile che capii a stento che cosa diceva.
Chi stava parlando?
Chi avevano trovato accanto al corpo di Lupino?
E quanto tempo fa era successo?

Scossi energeticamente la testa e il riverbero di quella voce sconosciuta si dissipò come vapore. 
Ero là per salvare la mia famiglia e niente mi avrebbe fermato. Dovevo mantenere il controllo. Un bagliore improvviso trasformò tutto in luce ma com’era arrivato, si ritirò altrettanto velocemente. Ero in piedi nel mio soggiorno a fissare una foto di me e Alex. I bei tempi andati. Avevamo condiviso alcuni momenti di gloria e senza falsa modestia, eravamo la miglior coppia di collaborazione tra polizia e Dea anche se avevamo entrambi il nostro bel caratterino. Avrei dato qualsiasi cosa per averlo come compagno di squadra. Ma non avevo mai avuto questa fortuna. 
Distolsi lo sguardo e la testa mi seguì con un ritardo di alcuni secondi. Sulla mensola del caminetto un ritratto di famiglia. Riconobbi la cornice, Michelle l’aveva scovata in un mercatino delle pulci e l’aveva voluta acquistare a tutti i costi, anche se non era niente di speciale e non valeva una cicca. Avevo preso in giro i suoi gusti per qualcosa come una settimana intera. Alchè si era decisa a farmela pagare piazzandoci una bella foto di noi tre. In quel modo non avrei potuto trovare un modo per farla accidentalmente sparire o facendomela scivolare dalle mani mentre la ammiravo. Quando Michelle mi si era piazzata davanti con quella composizione, fiera e sorridente, io l’avevo guardata accigliato, avevo sbuffato per protesta e poi ero scoppiato in una risata. Avevamo riso insieme, come due adolescenti cretini, fino alle lacrime. 
Nella foto tenevo in braccio Rose e Michelle mi cingeva il collo con dolcezza. Pura felicità catturata dallo sguardo della macchina fotografica. Pensavo sarebbe durata per sempre.

Finché morte non vi separi.

Non volevo pensarci. Mi ripetevo che fino a quando non l'avessi fatto non sarebbe potuto succedere.
Il ricordo però mi colpì come una saetta infuocata e io infransi la promessa. Il terrore era come un ago arrugginito conficcato nel cervello. Presto la sua infezione avrebbe fatto ammalare il cuore.
Quei pensieri furono spezzati dalla musica di un carillon lontano. Suonava una ninna nanna distorta e contorta, il più possibile lontano dalle promesse di bei sogni futuri. Il vagito di un neonato uscì dal torpore dei ricordi e crebbe come un vento nucleare dentro una valle. Il cielo azzurro e le nuvolette di una carta da parati da bambini mi scorrevano davanti agli occhi in un corridoio che sapevo già dove sarebbe finito. Non faticai quella volta, neanche mi accorsi di compiere un passo. Fui proiettato in una stanza avvolta nel buio. 
Un'oscurità nera come pece, come scrivono nei romanzi. La notte assoluta, il vuoto cosmico. Ero nell'iride perduta di un buco nero. Sollevai le mani di fronte al viso e non le vidi. Il fischiare tremendo del silenzio era un pugnale dalla lama conficcata da un orecchio all'altro. Sentivo agonizzare la ragione, appesa impotente e in balia degli eventi.
La bambina riprese a piangere. Mi si strinse il petto ma se aveva ancora forza di strillare come un'aquila voleva dire che per il momento stava ancora bene. Mi mossi e d'istinto gli occhi puntarono dove avrebbe dovuto esserci il pavimento e il mio piede. Sentì l'appoggio e con meraviglia la direzione mi comparve davanti. Non erano molliche di pane a indicarmi la strada ma un'irregolare scia vermiglia. Sembrava sangue, come quello di un cadavere trascinato per i piedi. La traccia era frastagliata di sbaffi e macchie circolari. Un vero casino. Una coltre di soffici fiocchi di neve rossa striavano l'orizzonte. Cominciai a correre lungo il sentiero. I passi rimbombavano cavernosi in un'eco infinita. non vedevo oltre a una decina di metri da me. Abbastanza per prendere un buono slancio ma non sufficiente a correggere raddrizzare la barra nel caso di una drammatica svolta improvvisa. Non sapevo se oltre la lunga linea rossa avrei trovato la solida terra o l'avvolgente nulla e non avevo intenzione di scoprirlo finché il pianto resisteva imperterrito. 
Mi trovai a corto di fiato, con il diaframma a spremere a fondo i polmoni e il petto a sussultare come un vecchio motore diesel. Nulla da segnalare per milza e fegato ma non avrebbero tardato a chiedere il conto. Il sentiero mi correva davanti agli occhi in un'ipnotica serie senza fine. Senza la possibilità di distrarmi smarrii la cognizione del mio corpo. Correvo in avanti per pura inerzia. Non sarei riuscito mai a scansare un muro o una voragine nel pavimento. Mi accorsi della mia corsa storta, vistosamente piegata da un lato, solo per miracolo. Mi stavo addormentando.
Mi morsicai l'interno della guancia e il dolore mi riaprì gli occhi: il sentiero di sangue si interrompeva nel niente. Saltai con uno slancio ridicolo fiondandomi addosso a un fato che avrei scoperto se clemente o crudele.
Quando trovai l'appoggio dei piedi ero in camera di Rose, la mia piccolina. D'istinto mi rivolsi verso l'angolo con il suo lettino. L'orrore mi attraversò raggelandomi l'anima. Coperto da un lenzuolo insanguinato, un corpicino era disteso a terra accanto allo scheletro del suo lettino, che qualcuno aveva ribaltato in preda alla rabbia.
«Oh NO! Ti prego, buon Dio, No!» urlai.
Il grido di Michelle interruppe il mio ma non riuscii a fermare le lacrime. Mi precipitai da lei. Il fallimento mi aveva trovato di nuovo, era così vicino da sentire il suo fiato gelido alitarmi sul collo. Varcai la stanza e in quel momento, di nuovo, una voce maschile squarciò il mondo.

«Puoi tagliarli a pezzi o a fettine, disintegrarli, vaporizzarli, poco importa: ritornano sempre come nuovi!»
Vidi me stesso legato a una sedia, incosciente.
Che stava succedendo?

«Michelle!!» disperato ricacciai indietro la voce e la visione onirica di me stesso si scomparve.
Ora stringevo tra le mani il diario di Michelle. Ero nella nostra camera da letto.

“Ieri mi sono trovata sulla scrivania uno strano fascicoletto. Valhalla? Sbaglio o ha a che vedere con la mitologia nordica? Con i Vichinghi? Ho provato a dirlo a Max ma mi ha liquidato con il suo affettuoso sorriso di circostanza. Probabilmente avranno solo invertito una spedizione.”

Da quel momento avrei sempre trovato del tempo per lei, mi dissi. Il vecchio Max se n'era andato, ecco a voi uno nuovo di zecca.
Restò una vana promessa. Troppo poco. Troppo tardi.

Nelle orecchie avevo di nuovo i pianti di Michelle. Le sue urla impaurite, private di qualsiasi riflesso di speranza, erano immerse in un'angoscia che faceva sanguinare l'anima.

giovedì 25 agosto 2022

Sopravvivere al fallimento: SITNOV, un nuovo genere letterario



Negli ultimi giorni mi sto interrogando parecchio su quanto stia facendo per continuare ad alimentare la mia passione di raccontare storie. È un esame di coscienza che mi costringo a fare con regolarità e in cui considero attentamente gli sforzi e i risultati ottenuti.

A volte, questi processi mi portano a tenere veri e propri trattati di filosofia spicciola in cui tento scovare il limite, se ve ne fosse uno, che separa una persona con un sogno da realizzare da un Don Chisciotte, un uomo alienato dal mondo reale che vive solo in funzione delle sue fantasie. Non vorrei che un giorno mi rendessi conto che non ho fatto altro se non lanciarmi a passo di carica contro dei mulini a vento. 



So perché scrivo: è per come mi fa sentire, fondamentalmente. Mette ordine dove prima c'era caos di pensieri e mi aiuta a ricordare quello che non voglio perdere, conservando tutto: espressioni, emozioni, colori, profumi. Molto meglio di una foto o un video ripreso col telefonino. 
Mi aiuta a darmi consigli che non sempre seguo e a creare qualcosa che prima non c'era. Una sensazione di onnipotenza che si silenzia soltanto quando i personaggi chiedono di esercitare il libero arbitrio e fare le loro scelte. 
Armonia, memoria, conoscenza e onnipotenza sono doni a cui è difficile rinunciare. 
Ecco perché amo scrivere e perché continuo a farlo. Sarebbe sufficiente per vivere sereno una mezza dozzina di vite se non avessi anche il desiderio di condividerle, queste storie. 

È appunto qui che ha inizio il dramma: dove la gioia dello scrivere diventa demone da nutrire e con cui confrontarsi piantando i piedi per non lasciarsi mettere sotto. Perché uscire allo scoperto, nel mondo da cui ti sei rifugiato scrivendo (o dipingendo, suonando, creando) ti fa chiedere se sei in grado di fare ciò che ami, così bene da avere una possibilità di restare. Me lo domando spesso se davvero so scrivere, se le parole che scelgo sono in grado di trasmettere quelle sensazioni che avevo in testa, se l'idea è originale e se il talento c’è o è solo una mia convinzione. 

Se la consapevolezza a volte è carente, di perseveranza ne ho da vendere a prezzo stracciato, invece. E questa rivelazione è il risultato della riflessione che è seguita dalla scheda di lettura che il prestigioso premio di narrativa Italo Calvino mi ha inviato a seguito della mia partecipazione alla sua trentacinquesima edizione. Sono così perseverante da candidare un testo come Chi più Re di noi, che non poteva che essere stroncato su tutta la linea. 

"Entusiasta e consapevole” potrebbero essere le due uniche note positive di una scheda di lettura ricca, generosa e veritiera. 
Sì, veritiera anche nell'elencare le pecche di un'opera di cui, però, sono il punto di forza e il tratto distintivo. Come tutto, nella vita, a fare la differenza è il punto di vista da cui si osserva. 



Avevo un piano quando ho cominciato la stesura di Chi più re di noi e, cosa più importante, poche idee su come portarla a termine. Per questo decisi di prendermi il mio tempo e capire come fare. Quella prima bozza è rimasta in incubazione per tre anni prima che mi decidessi ad aprire un blog e iniziassi la scalata. L'idea di partenza era semplice: la nostra immaginazione è cosi potente da creare e rendere tangibile anche ciò che, di fatto, non esiste. Per fare questo avevo piazzato il mio protagonista, uno studente universitario fuorisede, dentro un caldissimo appartamento di Bologna alla fine dell'estate e gli avevo messo sopra la testa una serie di rumori e suoni che lo avrebbero convinto che appartenessero alla donna della sua vita. 

E poi?

Poi non potevo permettergli di salire al piano di sopra per andare a bussare a quella porta, tanto per cominciare. Non prima dell'ultimo capitolo, comunque. 
Enrico è infatti un ragazzo che ha molta cura dei suoi sogni e prima che se ne renda conto si è già così innamorato di quell'idea che sente il bisogno di proteggerla anche dalla realtà, che spesso è spietata e vorace. Teme che anche quel sogno si rivelerà effimero e procrastinerà a lungo il momento di capire se la sua fervida immaginazione lo abbia attirato in una trappola o la dea fortuna si sia finalmente decisa a baciarlo.
In mezzo a tutto questo c’è un marasma di vita che va raccontato, lo spaccato di una generazione, il romanzo di un'età fatta di ricerca, di divertimento, di presa di coscienza sul mondo e su noi stessi. 

E come si fa a mettere giù tutta sta roba? 

Permettendo ai protagonisti di vivere, dove questo termine ne comprende altri: sperimentare, divertirsi, sbagliare alla grande
Così Enrico non si limita a seguire una trama votata al disvelamento finale di quell’inquilina misteriosa che gli ha preso il cuore, ma vive perché mentre viviamo non sappiamo quante pagine mancano ancora alla fine e non c'è un narratore che ci indichi la svolta di trama corretta. 
È per questo motivo che non fa niente se chi si aspetterebbe un romanzo dallo sviluppo canonico si trova davanti una storia in cui la ricerca all'inquilina del terzo piano sembra solo marginale, solo un pretesto narrativo. Enrico non lo sa che noi ci aspettiamo da lui che trovi il coraggio di salire una rampa di scale e vada a cercare l'amore della sua vita, per cui vive in base ai suoi ritmi, ai suoi desideri e nemmeno sa che esistiamo. 

Non è stata un'impresa facile scrivere Chi più Re di noi, anche perché a quel tempo vivevo ancora di più in un mondo tutto mio da cui mi affacciavo soltanto per vedere cosa c’era di buono in frigorifero. Quando mi è arrivata la folgorazione di questa storia stavo scrivendo un romanzo storico di cappa e spada dove tutti parlavano in versi come Cirano De Bergerac, figuratevi. Passare da quello al parlato di ragazzi di vent'anni, non edulcorato dalla morale e dalla fiction è stato un cambiamento di stile non da poco, che ha richiesto il superamento di un blocco psicologico che non mi permetteva di mettere nero su bianco neppure la meno scandalosa delle parolacce. Anche per questo non fa nulla quando leggo che Chi più Re di noi è infarcito di turpiloquio e umorismo becero e gratuito perché è esattamente così che parlano i ragazzi di quell'età quando non ci sono figure autoritarie o adulti in giro. 

Quando, nella scheda di lettura del Premio, ho letto che "i protagonisti rimangono immobili, congelati in una perenne spensieratezza e goliardia che non lascia spazio alla loro caratterizzazione psicologica" però, mi sono detto: 
«Aspetta un attimo: per forza, è una SITCOM


Già, perché questo ancora non ve l'ho detto: Chi più Re di noi è pensato come una situation comedy cartacea. Molto comoda quando abbiamo raggiunto il limite di dati e non abbiamo un Wi-fi a disposizione. Come Friends, How I met your mother, Big bang theory. Solo che vi sta tutta comodamente in tasca ed è sempre in alta definizione in pochi byte di memoria (c'è qualcosa che ha una risoluzione migliore della nostra immaginazione?). 
I protagonisti delle sitcom sono delle “maschere” che servono agli spettatori a identificarsi e simpatizzare. Portano dei valori, delle qualità, delle attitudini e dei punti di vista diversi perché è dal confronto di pluralità che si arriva meglio alla comprensione. E poi non è vero che i personaggi di Chi più Re di noi non cambiano e non hanno spessore psicologico. Anche loro evolvono, a volte così radicalmente che si è costretti a tornare indietro per guardare tutto quello che hanno fatto a riconsiderarlo alla luce di quella nuova presa di coscienza (un esempio su tutti: la “saga” di Tetteballerine, dal capitolo Fart by me a Il gatto sul Tette’ che scotta). Certo, magari non cambiano così velocemente come si vorrebbe o ci si aspetterebbe da un romanzo canonico ma, in fondo, quanto ci mettiamo noi a cambiare un atteggiamento o una convinzione nella vita di tutti i giorni? Lo facciamo al primo tentativo? Magari. 
Il cambiamento repentino avviene solo nella fiction e Chi più Re di noi non ha l'intento di esserlo. Sono anni che lavoro a questo romanzo, questa sitcom cartacea che ufficialmente chiamerò SITNOV (Situation Novel) ma che nel circolino di amici sarà TELEFILMANZO e, nonostante abbia ricevuto stroncature eccellenti e giudizi impietosi, continuo a crederci con forza e a parlarne ogni volta che posso. 
Per questo motivo l'ho candidato al Calvino, forse uno dei premi letterari più costosi a cui partecipare (si superano con facilità le cento carte): perché è vivo, perché parla di te o di qualcosa che ti è successo, perché è un romanzo che dovresti leggere senza fretta alternandolo ad altri, un capitolo ogni tanto quando hai bisogno di staccare la spina per un po', perché con più di settanta capitoli è quasi come una serie di quattro stagioni da ventidue episodi l’una.